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È ormai tristemente noto il dato sulla riduzione delle nascite nel nostro Paese. Secondo i dati Istat nel 2018 si è giunti ad una media di 1,32 figli per donna nel 2018, un numero che è in continua diminuzione dal 2008. Al 1° gennaio 2019 si stima che la popolazione ammonti a 60,4 milioni, oltre 400 mila residenti in meno rispetto al 1° gennaio 2015.

Siamo apparentemente di fronte ad un inesorabile destino di spopolamento del nostro territorio, in cui l’allargamento della parte di popolazione anziana porterà il già precario equilibrio sociale ed economico al collasso. Ma è davvero così?

Le sfide di una società più matura ma non per questo meno capace di generare innovazione

Alessandro Rosina, professore ordinario di Demografia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, nel volume “Il futuro non invecchia” – pubblicato alla fine dello scorso anno – propone un’analisi molto interessante sulla relazione tra l’andamento demografico e le sfide che ci pongono gli scenari che si stanno configurando.

Certamente per il nostro Paese la sfida è ardua e nei prossimi vent’anni avverrà uno dei cambiamenti più repentini e significativi nella sua struttura demografica (Rosina, 2018).

Questo scenario è causato da una parte dalle nuove abitudini riproduttive delle donne in età fertile, che tendono a ritardare il momento in cui diventare mamme (l’età media delle madri al primo figlio è ad oggi pari a 31 anni contro una media europea di 29), e dall’altra dal loro numero, praticamente dimezzato rispetto a quello generato dal periodo del baby boom (Istat, Rapporto annuale “La situazione del paese, anno 2017”) e definito come baby bust. In pratica, a partire dal 1976 si è iniziato a registrare un forte calo della natalità, fino a raggiungere nel 1995 il minimo storico di 1,19 figli per donna (Istat, “Natalità e fecondità della popolazione residente, anno 2016), che ha determinato la contestuale diminuzione anche delle donne in età fertile rispetto 45/50 anni fa.

Si tratta di numeri che fanno impressione ma, come ricorda Rosina, il fenomeno del calo demografico non è però esclusivo dell’Italia: dalla metà del XX secolo è sceso da 5 agli attuali 2,5 figli per donna e scenderà presumibilmente a 2 alla fine del nostro secolo. Raggiunto questo livello, l’elemento che continuerà ad incidere sull’invecchiamento demografico sarà dunque la longevità (rispetto alla quale si registra una crescita costante, complici anche i progressi della medicina) ma in modo molto più graduale.

Stiamo dunque attraversando una congiuntura storica dai risvolti incerti; abbiamo tra le mani però una serie di dati ed evidenze che ci potrebbero permettere di governare questa transizione, cogliendone addirittura possibili leve di innovazione.

Come spiega Rosina, “una società con persone sempre più longeve diventa anche più matura ma non necessariamente meno dinamica, meno innovativa meno produttiva, meno in grado di generare benessere”. Questa è la sfida da raccogliere sin da ora. Non è troppo tardi per mettere in campo iniziative che vadano in questa direzione, ma certamente l’esito di questa partita non è scontato. Quali sono dunque i gap da colmare affinché si possa andare verso il futuro portando con sè sviluppo e benessere? Ci sono diversi ambiti da prendere in considerazione, tra questi ne mettiamo in luce alcuni: opportunità per i giovani, la disparità di opportunità tra donne e uomini, il conflitto intergenerazionale, la ridotta mobilità sociale.

Le nuove generazioni: gap tra realtà e aspirazioni

Le ricerche condotte dall’Istat (La salute riproduttiva della donna, 2018) ci dicono che la composizione familiare desiderata dagli italiani è quella con due figli, numero decisamente lontano da quel 1,32 per donna citato in precedenza. A giocare un ruolo fondamentale in questo squilibrio tra aspirazione e realtà è la condizione di incertezza generata dalla contingenza economica che ha portato le coppie a ritardare la genitorialità, in attesa di situazioni di maggior stabilità.

Questo dato è la cartina al tornasole della situazione di incertezza che caratterizza le generazioni che sono entrate nell’età adulta a partire dagli anni ‘90 del secolo scorso. La crisi finanziaria del 2008, e tutto quello che ne è conseguito, ha esasperato una dinamica, come spiegato anche in precedenza, già in atto da tempo. Come riporta Rosina, semplificando, “l’Italia dopo aver raggiunto estesi livelli di benessere per il ceto medio, anziché utilizzare il presente per scelte (collettive e individuali) di rilancio verso il futuro, lo ha piegato a scelte di conservazione del benessere passato”. Così, invece che generare nuove opportunità di crescita e benessere per le nuove generazioni, ha causato una situazione ben rappresentata da due indicatori che, con un andamento speculare, né casuale né causale, descrive quanto appena detto: l’aumento del debito pubblico e la decrescita della fecondità (figura 1).

Figura 1. Debito pubblico su PIL e tasso di fecondità totale. Italia 1965-2015

Fonte: Rosina A., Tempi di vita e di lavoro. Un equilibrio possibile (14 dicembre 2016).

Il mancato investimento sulle nuove generazioni è particolarmente rappresentato dal fenomeno dei Neet, coloro che non studiano e non lavorano. Questa condizione ha pesanti ricadute su molti altri fronti: la scelta di rendersi autonomi, di fare una famiglia, di partecipazione civica e di piena cittadinanza (Rosina, 2018).

Uomini e donne al lavoro: gap di genere

Come avevamo già di recente sottolineato citando i dati dell’Ispettorato nazionale del lavoro, la maternità incide fortemente sullo stato occupazionale femminile poiché le difficoltà generate dalla necessità di conciliare gli impegni di cura con i tempi, spesso rigidi, del lavoro porta le donne a rinunciare al proprio percorso professionale. Al contrario la paternità non genera, dati alla mano, alcun tipo di cambiamento alla condizione lavorativa dell’uomo e, solo nell’ultimo periodo, si sta cercando (anche a livello europeo) di dare centralità al ruolo paterno nella cura dei figli mediante iniziative – come il congedo di paternità – che per le modalità con cui sono proposte non hanno possibilità di incidere sul gap di genere da un punto di vista occupazionale, ma perlomeno di iniziare ad agire sul fronte culturale.

Notevoli differenze si rilevano inoltre da un punto di vista della retribuzione, come dimostrano diverse fonti raccolte nel recente rapporto di Save The Children “Le equilibriste. La maternità in Italia”.

La recente analisi condotta dall’Istat sulle differenze di genere nella gestione dei tempi di lavoro (I tempi della vita quotidiana, 2019), mette in evidenza numerosi elementi di riflessione, tra cui l’aspetto culturale che vede in “territorio di residenza, livello di istruzione e generazione d’appartenenza” caratteristiche che possono fare la differenza nell’analisi delle opinioni sui ruoli di genere. Va sottolineato come il 33,3 per cento degli uomini e il 40,8 per cento delle donne che vivono in un modello familiare in cui lui lavora e lei si occupa della casa non pensa che questo sia il modello migliore per la famiglia, lasciando ipotizzare che, se ce ne fosse l’opportunità, passerebbero a un modello in cui entrambi i partner lavorano. Questo elemento rimette al centro un dato già emerso rispetto al gap esistente tra il desiderio di investire sul proprio futuro secondo una direzione di maggior soddisfazione e appagamento (come è il caso del desiderio di genitorialità) rispetto a quanto le condizioni attuali permettano.

Giovani e anziani: gap generazionale (anche) nelle organizzazioni

Come è tipico di un Paese che non cresce, viviamo da alcuni decenni una situazione in cui le generazioni si sentono reciprocamente minacciate, non solo perché – come è sempre stato – detentrici di visioni del mondo diverse, e spesso non comprensibili una per l’altra, ma perché si trovano a contendersi spazi, ad esempio, nel mondo del lavoro. Il continuo allungamento dei tempi per raggiungere l’età pensionabile e le poche opportunità di entrata nei contesti lavorativi creano inoltre uno stallo nelle organizzazioni, non in grado spesso di sostenere e favorire il ricambio generazionale. Questo sbilanciamento ha aperto una sfida per le imprese che, sempre di più nel disegnare e innovare i propri modelli organizzativi, hanno la necessità di valorizzare al meglio la propria popolazione aziendale, favorendo da un lato il passaggio di competenze tra i collaboratori senior e le nuove leve e dall’altro combattendo l’obsolescenza (tecnologica e non solo) che colpisce le generazioni più anziane. Queste strategie, che si identificano con il nome di age management, possono diventare una delle chiavi di volta per rispondere alla repentina evoluzione degli equilibri demografici, generando nuove modalità di interazione e gestione delle persone all’interno dei contesti lavorativi.

La mobilità sociale: gap educativo

Ad alimentare gli squilibri descritti contribuisce anche il fatto che l’Italia è fanalino di coda tra i Paesi industrializzati sul fronte della mobilità sociale: i figli si trovano ad ereditare dalla propria famiglia beni, istruzione, occupazione e reddito con scarsi spostamenti sulla scala sociale, soprattutto per i gradini più bassi. Come suggerito dal rapporto dell’Ocse del 2018 "A Broken Social Elevator? How to Promote Social Mobility", per fronteggiare questo aspetto è fondamentale implementare iniziative che – in linea con il paradigma del social investment – allocando risorse in determinate aree di policy, possono favorire la competitività dei sistemi economici e generare dei ritorni per gli individui e la collettività. In tal senso l’investimento sul fronte della formazione e dell’educazione è di primaria importanza nell’offrire, da subito, strumenti che generino opportunità lungo il corso della vita. Ne sono un esempio i servizi per l’infanzia che, non solo permettono alle madri di rimanere nel mercato del lavoro, ma possono offrire ai bambini occasioni formative che diventano il primo passo di un percorso di sviluppo degli adulti di domani, anche di coloro che vivendo situazioni di disagio avranno meno possibilità di migliorare la propria condizione. Questi infatti, se inseriti in un adeguato iter formativo, potranno ad esempio accedere più facilmente al mercato del lavoro generando benefici sia a livello personale, in termini di autonomia e benessere, sia a livello collettivo, favorendo risparmio e sostenibilità della spesa sociale.

Una scommessa aperta

Gli aspetti messi a tema sono solo alcuni tra le sfide più ardue del nostro tempo. I dati regolarmente evidenziano che stiamo attraversando un cambiamento epocale dai risvolti incerti ma, in parte, prevedibili. Come descritto, le analisi ci mettono in allerta ma, mettendo da parte le visioni catastrofiste, forniscono anche suggerimenti e possibili vie percorribili per arrivare “preparati” al futuro che ci aspetta. Urge una reale assunzione di responsabilità da parte del Pubblico, innanzitutto, ma anche dei numerosi corpi intermedi che animano il nostro Paese, perché si possano costruire iniziative concrete ed efficaci. La scommessa è ancora aperta.

Riferimenti

Istat (2018), La salute riproduttiva della donna
Ocse (2018), A Broken Social Elevator? How to Promote Social Mobility
Rosina A. (2018), Il futuro non invecchia, Milano, Vita e Pensiero
Save The Children (2019), Le equilibriste. La maternità in Italia
Istat (2019), I tempi della vita quotidiana
Istat (2019), Rapporto annuale 2019 – La situazione del Paese