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Negli anni Settanta l’economista americano Arthur Okin coniò la metafora del «secchio bucato». Il reddito prelevato dai più ricchi non riesce a raggiungere i più poveri: molte risorse si perdono per strada, filtrando attraverso le crepe del calderone fiscale. Okin pensava soprattutto ai costi amministrativi del welfare e alle detrazioni d’imposta. Ma aveva anche in mente le enormi partite di giro che tolgono risorse ai più abbienti e poi gliele restituiscono sotto forma di prestazioni universali: quelle a cui accedono tutte le fasce di reddito. All’immagine del secchio bucato gli ideologi dell’universalismo (soprattutto in Scandinavia) hanno contrapposto quella dell’«innaffiatoio». Le risorse che si perdono per strada servono per coltivare e rafforzare la cultura della solidarietà. Se il ceto medio resta escluso dal welfare pubblico, si crea una contrapposizione fra «noi» (i contribuenti) e «loro» (i beneficiari), che finisce per minare il sostegno nei confronti della protezione sociale.

Nessuna di queste due metafore si attaglia al caso italiano. Certo, anche da noi il secchio è pieno di buchi (centosessanta miliardi di euro all’anno solo di detrazioni fiscali, spesso senza logica né giustificazione). E anche il nostro welfare ha adottato spesso la logica solidaristica dell’innaffiatoio: pensiamo ai ricoveri ospedalieri o all’assegno di accompagnamento, di cui possono fruire anche i più ricchi. La grande anomalia dell’Italia è però che l’«acqua» della redistribuzione non arriva fino in fondo. Nel complesso della spesa pubblica, solo poche gocce raggiungono i più poveri. E il paradosso nel paradosso è che, anche quando una data prestazione è pensata per chi ha veramente bisogno, il grosso finisce nelle mani di chi bisogno non ha. È la sindrome di Robin Hood alla rovescia, resa possibile da regole strampalate che hanno consentito nel tempo (e ancora consentono) ai redditi più alti di accedere a benefici che sono teoricamente riservati ai redditi più bassi.

I dati illustrati da Enrico Marro danno un’idea del fenomeno. Prendiamo la pensione sociale (introdotta nel lontano 1969) che dovrebbe andare agli ultrasessantacinquenni «sprovvisti di reddito». Ebbene, il 22% della spesa finisce nelle tasche di anziani che hanno redditi (lordi equivalenti) intorno ai cinquantacinquemila euro l’anno. Solo il 2% arriva a chi è realmente «sprovvisto», ossia ha meno di cinquemila euro l’anno. È chiaro che serve una imponente razionalizzazione distributiva di tutta la spesa assistenziale. Bisogna definire una soglia comune oltre la quale si perde diritto alle prestazioni. In molti paesi Ue il riferimento è il sesto decile: per l’ Italia circa ventimila euro l’anno.

Lo strumento più adatto per selezionare i beneficiari è l’Isee, l’indicatore della situazione economica equivalente, che tiene conto di molti fattori a cominciare dalla composizione del nucleo familiare. L’adozione generalizzata dell’Isee (oggi gestito dall’Inps, che ha nel cassetto interessanti proposte in questa direzione) avrebbe due vantaggi aggiuntivi. Innanzitutto consentirebbe di liberare risorse per il reddito di inclusione sociale: quella rete di sicurezza minima che nella Ue manca solo in Italia e in Grecia. In secondo luogo, impedirebbe ai politici di ritagliare determinate prestazioni su specifiche platee di beneficiari: una brutta abitudine del welfare all’italiana e delle sue pratiche di attrazione particolaristica del consenso.

Conosciamo già le obiezioni a una riforma di questo genere. Primo: è un attacco all’universalismo, alla logica dell’innaffiatoio. Un’obiezione insensata, visto che si tratterebbe di modifiche interne al settore assistenziale, per definizione «selettivo». Secondo: si tratta di una violazione di quei diritti acquisiti così tenacemente (e spesso irragionevolmente) difesi dalla Corte costituzionale. Ci sono vari modi per aggirare questo secondo ostacolo, ad esempio riducendo gli importi solo dal secondo decile in su. L’importante è tuttavia stabilire una data oltre la quale varrà soltanto l’Isee. Nessun diritto violato. E da quel giorno anche nel welfare italiano la solidarietà funzionerebbe per il verso giusto. Dall’alto verso il basso, tappando i buchi più iniqui e vistosi.

Questo articolo è stato pubblicato anche sul Corriere Sociale il 7 agosto 2015


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