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L’integrazione economica degli immigrati in Europa e in Italia è al centro della seconda edizione del Migration Observatory Annual Report on Immigrant Integration curato da Tommaso Frattini e Natalia Vigezzi per il Centro Studi Luca d’Agliano, che con questa pubblicazione fornisce un’analisi di alcuni indicatori-chiave dell’integrazione degli immigrati nel mercato del lavoro.

Il rapporto, utilizzando i dati dell’ultima edizione del European Labour Force Survey (2016) e delle indagini trimestrali ISTAT sulle forze lavoro in Italia (periodo 2009-2017), ci offre una lucida ed esplicativa analisi sull’immigrazione in Italia e sulle sue caratteristiche distintive rispetto agli altri paesi dell’UE.

Partendo dall’assunto che l’immigrazione rappresenta ormai una caratteristica costante delle economie contemporanee, il rapporto avvalora la tesi che se è vero che l’immigrazione può imporre alcuni costi a breve termine se mal gestita, può invece costituire un’opportunità economica straordinaria per i paesi ospitanti laddove le politiche facilitino l’integrazione sociale ed economica dei migranti.

Quanti sono gli immigrati in Italia e negli altri paesi UE

Nonostante l’attuale percezione dell’immigrazione come un fenomeno emergenziale e l’attenzione dei media dedicata agli attuali flussi migratori, i dati indicano che nel 2017 la stragrande maggioranza degli immigrati (circa il 66%) in Italia (come nel resto dell’Europa) risiede da un periodo piuttosto lungo (più di dieci anni), mentre gli immigrati presenti da meno di cinque anni rappresentano una piccola parte della popolazione straniera (solo il 10%). Dati che segnalano un aumento del periodo trascorso in italia dagli immigrati, se è vero che nel 2009 solo il 45% di essi era presente nel nostro paese da 10 anni o più.

Solo recentemente gli immigrati in Italia hanno raggiunto un numero di presenze paragonabile a quello dei principali paesi dell’UE, essendo aumentato da 4,5 milioni nel 2009 a 5,9 milioni nel 2017, passando così dal 7,6 al 9,8% della popolazione, con livelli superiori al 16% in Lombardia, Veneto, Friuli, Emilia-Romagna, Umbria e Lazio. Nonostante ciò, la quota nazionale resta ancora inferiore a quella osservata in altri paesi europei come Germania (13,3%), Francia (11,8%) e Regno Unito (13,3%) (figura 1).


Figura 1 – La quota % di popolazione immigrata nell’Unione Europea sul totale della popolazione, per paese (anno 2016).

Nota: linea rossa = media UE28+3 (10%); linea blu: = media UE15 (11,6%).
Fonte: Second Migration Observatory annual report on immigrant integration, p. 17.

Tassi di occupazione e livelli di istruzione

Gli immigrati in Italia tendono però a presentare caratteristiche peculiari rispetto a quelli presenti negli altri paesi dell’Unione Europea: mostrano infatti contemporaneamente tassi di occupazione più alti e livelli salariali inferiori rispetto a quelli dei nativi, e si presentano come nettamente meno qualificati rispetto agli immigranti residenti negli altri paesi comunitari. In particolare quest’ultimo fattore corrobora la tesi che esiste una correlazione tra livelli di istruzione immigrata e nativa all’interno di ciascun paese: i paesi con quote più elevate di cittadini istruiti sono anche in grado di attrarre una forza lavoro immigrata più qualificata. L’Italia è forse il paese in cui questo è più evidente: ha sia la percentuale più bassa di nativi con istruzione terziaria di tutta l’UE (19%) sia la quota più bassa di immigrati con pari livello di istruzione (14%) (figura 2).

Figura 2 – Correlazione fra educazione dei migranti e dei nativi (quote % di immigrati e nativi con livello terziario di educazione, ISCED 5-8, anno 2016).

Fonte: Second Migration Observatory annual report on immigrant integration, p. 20.

Questi risultati suggeriscono che una delle priorità della politica migratoria italiana dovrebbe essere quella di realizzare programmi che aumentino la sua attrattiva per gli immigrati altamente qualificati, diretti attualmente per lo più verso i paesi dell’Europa centrale e settentrionale.

Nonostante i livelli piuttosto bassi di istruzione, i tassi di occupazione degli immigrati in Italia sono paragonabili a quelli degli italiani con caratteristiche sociali e demografiche simili. L’analisi dei profili di assimilazione degli immigrati nel mercato del lavoro italiano ha addirittura evidenziato come, dopo alcuni anni in Italia, la probabilità di occupazione degli immigrati diventi più alta di quella dei nativi. Il divario negativo di probabilità occupazionale, che è pari a più di 40 punti percentuali per gli immigrati neoarrivati rispetto agli italiani, si abbassa entro il sesto anno di residenza e diventa positivo dopo sette o otto anni dall’arrivo nel nostro paese. Mentre gli uomini immigrati colmano il divario occupazionale dopo quattro anni dall’arrivo, le donne immigrate impiegano sei anni per raggiungere la stessa probabilità di occupazione di quelle italiane.

Il rapporto evidenzia anche che la convergenza dell’occupazione è più rapida per gli immigrati provenienti dai paesi dell’Europa orientale e con un basso livello di istruzione, mentre è più lenta per gli immigrati non appartenenti all’UE e con un livello di istruzione più alto. Chi possiede un livello di istruzione terziaria, infatti, non raggiunge mai la probabilità di occupazione che ha un italiano con le medesime caratteristiche.

Il gap salariale

Questo disallineamento tra istruzione e occupazione persiste nel tempo e contribuisce a spiegare che gli immigrati abbiano tendenzialmente una retribuzione inferiore rispetto agli italiani, indipendentemente dalle loro caratteristiche (età, sesso, istruzione). Gli stipendi mensili netti degli immigrati registrati nel 2017 sono mediamente inferiori del 26% rispetto a quelli degli italiani. Il divario salariale degli immigrati rispetto agli italiani è più rilevante tra le donne (31%) rispetto agli uomini (22%), e per le donne tra il 2009 e il 2017 è aumentato – a parità di occupazione – dal 4 al 10%. Il gap salariale si riduce a distanza di anni dalla migrazione, ma non scompare. A due anni dal loro arrivo nel nostro paese gli immigrati guadagnano in media, a parità di occupazione, il 12% in meno degli italiani, dato che si riduce al 9% dopo venti anni di permanenza.

Se quindi è vero che, dopo alcuni anni in Italia, la probabilità di occupazione degli immigrati diventa più alta di quella dei nativi, allo stesso tempo, nonostante una rapida crescita dei salari immediatamente dopo l’arrivo, gli stipendi degli immigrati convergono su livelli costantemente più bassi di quelli dei nativi, anche dopo vent’anni dalla migrazione. Se, da un lato, la rapida assimilazione nelle probabilità di impiego indica che la forza lavoro immigrata colma le carenze di manodopera esistenti, dall’altro tale assimilazione sembra avvenire grazie sia ad una concentrazione sproporzionata degli immigrati in occupazioni poco retribuite, sia ad un costo più basso della loro forza lavoro.

Questi ultimi due dati appaiono preoccupanti non solo per gli stessi immigrati, che corrono il rischio di emarginazione nell’ambito del mercato del lavoro, ma, nella misura in cui l’emarginazione nel mercato del lavoro è associata all’emarginazione sociale, anche per il paese ospitante, poiché danneggia la piena integrazione degli immigrati di seconda generazione nei paesi che hanno accolto i loro genitori.

La priorità e la sfida delle politiche per il prossimo futuro, dunque, non può non essere quella di evitare l’emarginazione sia dei lavoratori immigrati che delle loro famiglie e dei loro figli nati in Italia.