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Molto è stato scritto sugli scontri che stanno coinvolgendo in questi giorni le periferie di Roma e Milano. Al di là delle ragioni politiche ed ideologiche con cui si sta dando spiegazione a questi fatti, quello che emerge è che essi sono il frutto della crisi ma anche sintomo di un forte bisogno di investimenti in politiche di welfare che siano adeguate ai nuovi bisogni sociali sul fronte dello sviluppo urbano, delle politiche abitative e dell’integrazione. A dimostrazione di come le politiche sociali restino fondamentali per prevenire il conflitto e la deriva sociale, soprattutto in fasi di crisi come quella attuale. 


Dal degrado urbano al degrado sociale

Degrado e sicurezza sono al centro degli scontri di questi giorni. Degrado che è prima di tutto urbano ed ambientale: poca illuminazione, edifici residenziali e industriali abbandonati, uno dei 2 campi Rom nei pressi di Tor Sapienza è una terra dei fuochi dove vengono bruciati rame e pneumatici ogni settimana. Poi c’è il degrado nei servizi – i trasporti del V e il VI municipio di Roma sono stati i più colpiti dai tagli delle linee ATAC -, mancano punti di riferimento sociali e di aggregazione, la disoccupazione e l’abbandono scolastico frenano la mobilità sociale. Forme di degrado che si tramutano nel degrado sociale, con un aumento di aggressioni, furti e criminalità, per sfociare infine in episodi di intolleranza e scontri come quelli di questi giorni.

La crisi economica starebbe quindi accentuando la “vecchia” frattura centro-periferia, polarizzando la società: quando le risorse diminuiscono, gli effetti si sentono per primi dove esse sono già scarse. Ma questi scontri sono anche ciò che rimane dello sviluppo economico cominciato a partire dal dopoguerra e del boom edilizio che ha caratterizzato soprattutto gli ultimi decenni, sbilanciato sulla quantità anziché sulla qualità, sull’espansione invece che sulla sostenibilità. Sviluppatisi per ospitare le masse di lavoratori migranti (ad esempio da Sud a Nord, nel caso milanese), o per assecondare l’espansione del mercato immobiliare, quando la crescita ha iniziato ad arrestarsi i sobborghi e gli edifici che contenevano non servivano più, e pian piano sono stati lasciati lì, con pochi investimenti, servizi e lavori di riqualificazione.

Per combatterne il degrado occorre quindi investire in politiche urbane che possano riqualificare gli spazi esistenti, incrementare i servizi e soprattutto recuperare l’equilibrio sociale, lavorando sulla costruzione delle relazioni e sulla coesione delle comunità, corresponsabilizzando e coinvolgendo gli stessi abitanti, che sono i primi a poter avere cura di questi spazi. Infine, è necessario riconnettere i sobborghi con il resto della città, di cui bisogna recuperare una visione globale.


Il problema degli alloggi: il lento declino dell’edilizia popolare

L’altra questione scottante che fomenta i disordini di questi giorni, soprattutto nella città di Milano, è quella della casa: alloggi sfitti, alloggi occupati, graduatorie infinite e colluse con la malavita, inquilini regolari esasperati. A Milano sono circa quattromila gli appartamenti occupati su un patrimonio di oltre 90 mila alloggi popolari.

Dall’inizio del 2014 – calcola il Corriere della Sera – solo a Milano si contano 1.278 occupazioni abusive . Una situazione che alimenta la rabbia degli inquilini regolari residenti e che sta conducendo anche qui a disordini crescenti. Ma dietro al degrado c’è un problema più grave, il racket dei senza-casa. “A San Siro c’è un tariffario per aprire le porte e entrare nelle case, duemilaeuro il servizio completo”. A Roma invece “il mercato nero degli alloggi pubblici è gestito dalla criminalità locale e dai clan rom”, denuncia Pasquini dell’Unione Inquilini, “specialmente nella fase di compravendita”. Un grosso affare, visto che sulla piazza ci sarebbero “tra le 1.000 e 1.500 case” che sfuggono al controllo delle istituzioni. Prezzo medio per accaparrarsene una: dai 30 ai 50mila euro.

Gli alloggi occupati sono però anche la conseguenza di un sistema che non riesce a sostenere le esigenze abitative attuali. In Italia l’8,9% degli abitanti vive in una condizione di deprivazione abitativa, a fronte del 5,2% della media UE-28 e del 2,2% francese (Eurostat 2014). Solo a Milano si contano 20mila famiglie in graduatoria per l’assegnazione di un alloggio. E la situazione potrebbe aggravarsi ulteriormente con la vendita all’asta delle case popolari previste dal decreto Lupi. Le case però ci sarebbero: in Italia ci sono 40mila alloggi pubblici sfitti che non vengono assegnati, ma non ci sono i soldi per sistemarli. Per questo motivo occorre cercare progetti, come spesso avviene nel caso dell’edilizia sociale, che intercettino capitali aggiuntivi, ad esempio privati, i quali dovrebbero però essere orientati prioritariamente al recupero del patrimonio urbano esistente – per le ragioni viste sopra circa il degrado.

Oppure pensare a modelli diversi: ad esempio molti Comuni, tra cui il Comune di Milano, stanno pensando di affittare le case allo stato di fatto, scalando i lavori da eseguire dal calcolo dell’affitto. Si tratta di modelli che però richiedono di semplificare la burocrazia e le normative esistenti, ad esempio, quelle che consentono l’affitto solo di case ristrutturate. Contemporaneamente, tuttavia, occorre pensare a modelli di gestione efficienti.

Qualcuno sostiene che “con gli 80 euro si potevano fare alloggi popolari”. Ma il problema non è solo costruire o ristrutturare le case, ma come renderle sostenibili. A Milano, dove è appena stata incendiata una sede dell’Aler, si stima che le bollette con gli arretrati da pagare si attestino sui 35 milioni di euro, con inquilini che devono fino a 22mila euro. Cifre che al momento, tra l’altro, sono più che altro stime dato che fanno riferimento a bollettini risalenti anche al 2003, su cui nessuno mette le mani da anni. Le messe in mora dopo tre affitti non pagati sfiorano i 66 milioni. E’ evidente che se non si interviene per cambiare questa situazione può diventare molto difficile difendere il diritto alla casa e investire in politiche abitative.


Dall’accoglienza all’integrazione

Ci siamo già occupati altre volte di scontri avvenuti nelle periferie, anche nelle città europee più multietniche e “open minded” . Le periferie, si sa, sono realtà complesse e le prime a saltare quando il disagio sociale cresce. Ma in questo caso c’è un aspetto che differisce da quelli precedenti. In buona parte dei casi trattati, infatti, a essere coinvolte nei disordini sono persone appartenenti a minoranze – seppure spesso già cittadini della nazione – che non sono state, o non si sentono, incluse nel paese in cui vivono. Nel caso italiano invece è la “comunità di maggioranza” – cioè gli stessi cittadini italiani – ad attaccare la minoranza, tanto che il centro di accoglienza di Tor Sapienza è divenuto il bersaglio degli scontri, quasi fosse un’allegoria degli immigrati – che poi in questo caso sono rifugiati. Quindi non è possibile parlare di questi fatti senza affrontare il tema dell’integrazione, e prima ancora dell’accettazione di queste persone.

La questione del come gestire l’immigrazione non viene discussa in questa sede, è complessa e deve essere trattata in primis su scala internazionale – tra l’altro nel caso di Roma parliamo di rifugiati, il che rende la situazione ancora più di difficile soluzione. Sicuramente però ci sono degli aspetti che riguardano le politiche di welfare sui quali è possibile intervenire a livello nazionale e soprattutto locale. Le manifestazioni di questi giorni nascono da disagi che sono reali – come abbiamo detto sopra – ma anche da una grande carenza di conoscenza. Si sente dire che gli immigrati ricevono 40 euro al giorno, che i clandestini vengono messi negli alberghi, e i clandestini non vengono distinti da migranti e rifugiati, tutto finisce in un calderone che fomenta l’insofferenza e la rende facilmente strumentalizzabile. L’Italia, paese di migranti, meno di immigrati, poco abituata al confronto con culture diverse almeno in casa propria, ha assistito nell’ultimo decennio a un processo di immigrazione massiccio e molto veloce a cui non era di fatto preparata. Inoltre, la gestione dell’immigrazione è avvenuta molto spesso per slogan e con un forte “scollamento” tra un dibattito politico e mediatico che verteva intorno alla contrapposizione tra “tutti a casa, padroni a casa nostra” e “dobbiamo essere accoglienti” e una realtà che nel frattempo andava avanti per conto suo.

Allo stesso tempo tuttavia, specialmente a livello locale e con una forte collaborazione dell’associazionismo, si sono sviluppate esperienze a cui è possibile guardare per uscire da questa situazione, o almeno migliorarla: politiche di sviluppo urbano che evitano la creazione di ghetti e progetti di welfare comunitario – che vedono però un coinvolgimento attivo degli stessi stranieri, tirandoli fuori dall’isolamento – si rivelano vincenti nel mettere in contatto comunità etniche diverse, insegnare loro a conoscersi e convivere, se la conoscenza è, come abbiamo detto, uno dei presupposti per perseguire una vera integrazione, che è una cosa che va oltre l’accoglienza.


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