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L’articolo “Il paradosso delle assistenti sociali” ha generato interesse e reazioni tra chi ci legge. Per questo, dopo un articolo sull’importanza della partecipazione nei servizi sociali scritto dall’assistente sociale e ricercatore Luca Pavani, restiamo sul tema delle sfide attuali e future del servizio sociale. In questo senso riceviamo e pubblichiamo un contributo dell’assistente sociale Antonella Albrigoni, che si occupa di continuità tra ospedale e territorio presso l’Azienda Socio-Sanitaria Territoriale di Pavia.

Il PNRR ha rifocalizzato la centralità del potenziamento dell’assistenza territoriale, esigenza prepotentemente emersa durante la pandemia, e nella Missione 6 ha dedicato una specifica azione alle “Reti di prossimità, strutture e telemedicina per l’assistenza territoriale.” La sua declinazione è avvenuta con una riforma complessiva del sistema di assistenza territoriale attraverso tre linee d’intervento:

  • le Case della Comunità (CdC) e la presa in carico delle persone;
  • la casa come primo luogo di cura (ADI) e la telemedicina;
  • il rafforzamento delle strutture sanitarie intermedie attraverso gli Ospedali di Comunità (OdC).

Le Case della Comunità: un modello organizzativo di prossimità

Le Case della Comunità (CdC) sono strutture sanitarie che forniscono i servizi sanitari di base e che, negli obiettivi del PNRR, dovrebbero coordinare gli interventi e i servizi socio-sanitari: in queste strutture lavorano in équipe Medici di Medicina Generale (MMG), Pediatri di Libera Scelta (PLS), infermieri di famiglia, medici specialisti e altri professionisti sanitari, assistenti sociali. Le CdC si pongono quindi l’obiettivo di promuovere un modello di intervento multidisciplinare e a forte integrazione socio-sanitaria.

Alla luce di questa definizione la CdC diviene centrale non solo come “luogo fisico” ma anche come “modello organizzativo di prossimità”, che impegna le Regioni a riconfigurare l’intera rete di servizi e strutture fisiche preesistenti.

Nelle CdC sono previste funzioni afferenti a 4 macroaree:

  1. area della prevenzione e promozione della salute (con le attività descritte qua sopra);
  2. area dell’assistenza primaria: nella quale i MMG afferenti a una CdC concorrono all’erogazione delle attività e alla gestione dei processi assistenziali, fisici o digitali, distrettuali;
  3. area specialistica ambulatoriale e diagnostica di base (di 1° livello): si prevede che le agende della specialistica e della diagnostica siano per la maggior parte dedicate ai MMG e ai PLS, di cui sopra, per la prenotazione di prestazioni in favore di propri assistiti. L’attività specialistica ambulatoriale dovrà comprendere tutte le principali discipline dell’azienda sanitaria relative alla gestione delle patologiche croniche;
  4. Area dell’integrazione con i servizi sociali e con la comunità: su questa area concentriamo la riflessione, a partire da alcuni elementi cruciali come il Punto Unico di Accesso (PUA), la Valutazione multidimensionale/PAI, l’integrazione con i servizi specialistici.

Il Punto Unico di Accesso

Il Punto Unico di Accesso (PUA) è presente in ogni CdC ed è prioritariamente rivolto alle persone con disagio e all’area della fragilità (sanitaria e sociale). Il PUA costruisce percorsi di risposta ai bisogni migliorando la presa in carico, diventando il luogo dell’integrazione socio-sanitaria professionale e gestionale. Il Punto è dedicato all’intercettazione del bisogno, motivo per cui attiva una forte integrazione funzionale – in accordo con gli Ambiti sociali – per disseminare punti di ascolto della domanda nel territorio di riferimento valorizzando la rete delle “antenne sociali”, costituita sia dalle risorse formali (Servizi Sociali Comunali e Ambiti) sia dalle risorse informali (Volontariato, Enti di Terzo Settore).

Il PUA si contraddistingue, da un lato, per l’informativa, la formazione e l’orientamento alle persone e alle famiglie sul sistema di offerta dei Servizi Socio Sanitari del Distretto, sui Servizi offerti dai Servizi Sociali e sulle modalità di accesso, supportando anche nella compilazione di richieste, dall’altro per l’accoglienza di bisogni complessi e la presa in carico globale anche in collaborazione con altri servizi locali. Presso la CdC di Pavia, per esempio, da poche settimane è stato attivato uno Sportello Famiglie aperto un giorno alla settimana e gestito da un operatore appositamente formato: tale Sportello integra il PUA socio-sanitario per fornire tutte quelle informazioni sociali utili alle famiglie del territorio.

L’attività informativa rivolta a persone e famiglie pone di fronte alla costante sfida, per l’operatore, della conoscenza approfondita e sempre aggiornata di tutto quanto è l’esistente di quello specifico territorio. Quali servizi, quali misure regionali, nazionali, quali interventi sperimentali in corso, quali Sportelli di Ascolto, quali Sportelli dei Centri per le famiglie, quale normativa specifica? La funzione informativa dovrà essere supportata con la messa a disposizione di materiale informativo vario, prestampati e modulistica di presentazione dei vari servizi, guide ai servizi e la carta dei servizi.

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L’operatore aggiornato è attivato per rispondere allora in maniera esaustiva alle domande delle famiglie e delle persone evitando giri a vuoto o il rimpallo da un Ente all’altro inconcludenti. E allora ecco che diventa fondamentale porre in essere momenti formativi costanti su leggi, misure, regolamenti, utilizzo delle carte dei servizi, sulle guide esplicative degli Enti, etc. Un altro importante strumento sono i siti web delle Istituzioni, degli enti del Terzo Settore: preziose risorse per ottenere e mettere in campo le informazioni necessarie. Gli operatori vanno formati a saper “cercare” le informazioni giuste e quando possibile, ad accompagnare la famiglia, la persona nella ricerca adeguata: un altro passo verso percorsi di consapevolezza delle proprie risorse e di autonomia (mostrare alla persona la presenza del sito della tale Associazione, o del tale Servizio, etc.)

Lo stato dell’arte, oggi – in Lombardia come in molte altre parti d’Italia –  presenta una realtà territoriale che vede la presenza dei PUA socio-sanitari nelle CdC, dei Servizi di Segretariato sociale di Ambito e dei Comuni, degli Sportelli dei Centri per la Famiglia, delle attività di accoglienza dei Consultori famigliari che hanno iniziato, per mandato legislativo, un rinnovamento della loro mission, “in grado di assicurare la presa in carico globale di tutte le problematiche che attengono le famiglie in senso lato”. Il “movimento” attuale vede l’impegno degli operatori dei PUA socio-sanitari nella costruzione di interazioni quotidiane con l’obiettivo di definire una più stretta rete di collegamento fra tutti gli operatori addetti alle prime accoglienze di un determinato territorio.

Il PUA socio-sanitario, ed in specifico gli/le assistenti sociali, sta quindi assumendo il compito di tenere insieme tutti questi “luoghi di conoscenza territoriale” per diventare il riferimento primario del cittadino. Gli effetti di questi movimenti “dal basso”, se ben gestiti, in un’ottica di collaborazione costruttiva fra tutti i soggetti sopradescritti, ma soprattutto di superamento dei vincoli di differenti appartenenze istituzionali potrà addirittura superare quanto previsto dalla normativa. Il PUA deve diventare il “luogo” dove trovi un operatore, riconosci un volto, c’è un ascolto empatico, puoi portare le preoccupazioni. Perché, come ben sanno gli operatori sociali, dietro a una semplice richiesta di compilazione della pratica a volte c’è un mondo di solitudine, di fragilità, di bisogni inascoltati che devono essere intercettati.

Quale possibile criticità in tutto questo? La frammentazione. Perché non prevedere dei PUA gestiti da personale “integrato” in un luogo comune? Oggi assistiamo alla presenza di punti di ascolto e di informazione sociali e PUA socio-sanitari, ognuno per le proprie competenze distinte. Questo avviene perché la programmazione dei Servizi e degli interventi – e dunque anche i finanziamenti – sono distinti: i finanziamenti regionali del sociale sono distinti dai finanziamenti del socio-sanitario e quindi ognuno procede per le proprie vie con la propria organizzazione, con i propri operatori, con le proprie metodologie.

La valutazione multidimensionale e l’elaborazione del PAI

Il PAI-Piano Assistenziale Individualizzato è lo strumento utilizzato per individuare un progetto per la persona che ha necessità di cura, di assistenza, che può versare in condizioni di decadimento fisico e mentale, di gravi patologie. Non si può costruire un PAI se non si parte da una solida valutazione iniziale della situazione. Allora, la prima fase sfidante è lavorare da subito “insieme”: Assistente Sociale e Infermiere di Famiglia e di Comunità (IFeC) per la lettura delle dimensioni cliniche, funzionali, mentali e sociali. Nelle formazioni regionali in corso di attivazione per gli IFeC questo aspetto dovrebbe essere considerato come prioritario.

Imprescindibile è il coinvolgimento del Medico di Medicina generale. Fondamentale è poi recuperare tutte quelle informazioni relative a eventuali servizi messi già in campo oppure a criticità che erano emerse in passato e che a suo tempo non avevano condotto ad una presa in carico costruttiva. Questa fase è fondamentale e non va considerata solo una mera raccolta di informazioni da un operatore all’altro ma deve avere già da subito il senso della valutazione condivisa.

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Un elemento che rende molto complessa la valutazione multidimensionale è il tempo: l’attivazione del personale socio-sanitario – AS e IFeC – ha un tempo: l’intervento del MMG si contraddistingue per un altro tempo così anche per l’attivazione dei colleghi di altri servizi socio-assistenziali. I tempi per fare un’équipe condivisa, per fare una valutazione domiciliare integrata e per programmare l’avvio di un’assistenza domiciliare non sempre corrispondono. La “macchina istituzionale” avanza in maniera rigida e a volte si rischia di arrivare a dare le risposte in tempi non adeguati al bisogno e a trovare delle soluzioni tutelanti per la persona ma non ottimali. I LEPS, le risorse del PNRR e la Riforma della non autosufficienza sicuramente daranno un grande contributo al miglioramento dei tempi di attuazione degli interventi a partire dall’assessment fino ad arrivare alla verifica finale del progetto assistenziale: con riferimento alle prestazioni di assistenza domiciliare, per esempio, il decreto sulla non autosufficienza prevede l’integrazione degli istituti dell’assistenza domiciliare integrata (ADI) con quelli del servizio di assistenza domiciliare (SAD), assicurando il coinvolgimento degli Aziende sanitarie del territorio e del Servizio Sanitario Nazionale.

L’invio ai servizi specialistici

Nelle situazioni in cui la persona che si rivolge al PUA (o che è segnalata al PUA da un familiare) presenti una patologia psichiatrica o una situazione di dipendenza da sostanze, poi, si apre la complessa questione dell’integrazione con i Servizi specialistici socio-sanitari.

I percorsi dei Servizi specialistici sono strutturati, definiti, proceduralizzati. Si tratta allora di prevedere una giusta modalità di integrazione o connessione con le équipe delle CdC per articolare al meglio il percorso di cura, da condividere il più possibile con il paziente.

Qui la rete istituzionale prevede delle ramificazioni che vanno dal PUA o dalla CdC al MMG, al Servizio sociale comunale o di Ambito, al SerD (Servizio per le Dipendenze) e alle altre strutture di riferimento del DSMD (Dipartimento per la Salute Mentale e le Dipendenze). È necessario immaginare dei percorsi che facilitino la presa in carico dei pazienti presentati da servizi di prossimità (come le CdC) e in tempi adeguati; vanno pensate delle istruzioni operative che consentano una stretta collaborazione fra i differenti Servizi, con la convinzione che tutti gli operatori coinvolti sono portatori di parti di problemi e di sofferenze delle persone che hanno accolto.

La partecipazione nei servizi sociali

Rimane infine da approfondire l’identificazione di un case manager – dell’équipe multidimensionale delle Case delle Comunità? Del Centro Psico Sociale? O del Servizio comunale? – che ha il compito di seguire e monitorare il corretto svolgimento del progetto interloquendo con i diversi stakeholder che vengono via via coinvolti. In parole povere: chi ha la regia di questo percorso? Gli operatori devono assolutamente interrogarsi e prendersi la responsabilità della regia dell’accompagnamento della persona e della sua famiglia mantenendo costantemente l’attenzione sugli obiettivi prefissati e sui percorsi intrapresi. Ma la complessità e le fatiche sono molte: gli operatori si devono occupare di tante attività – dall’istituzionale ai vari progetti finanziati – e spesso questo non consente davvero di essere dei reali case manager o facilitatori di percorsi.

Allora si attuano alcune intuizioni e si sviluppano percorsi sperimentali che mettono insieme “piccoli pezzi” di percorso fra sociale e sanitario. Ma i progetti sperimentali, così come i servizi ordinari, necessitano di risorse umane adeguate. Altrimenti si rischia di non riuscire ad essere presenti e significativi per le famiglie e le persone.

Quanto sopra richiama costantemente gli operatori dei servizi a ricercare strade nuove, soluzioni possibili, spinte innovative virtuose e avvincenti. Queste sperimentazioni comuni a volte possono dare un senso di incertezza e inquietudine rispetto al sicuro proceduralizzato. Però in fondo, come riconosce il Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry “devo pur sopportare qualche bruco, se voglio conoscere le farfalle”.

Foto di copertina: Priscilla Du Preez, Unsplash.com