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Il tempo della cura, le pari opportunità, l’impresa family friendly
Il Piano Nazionale per la Famiglia approvato con Deliberazione del Consiglio dei Ministri dello scorso 7 giugno, concede largo spazio al tema della conciliazione famiglia-lavoro che viene trattato in particolare nella parti dedicate al lavoro di cura familiare ovvero ai servizi per la prima infanzia, congedi, tempi di cura, e interventi sulla disabilità e non autosufficienza (Parte 3), in quella dedicata espressamente alle pari opportunità e conciliazione famiglia-lavoro (Parte 4) e infine in quella dedicata alle alleanze locali per la famiglia (Parte 8).
Rispetto ai servizi, è esplicito l’obiettivo di potenziarne l’estensione e la quantità (nel tentativo di raggiungere gli obiettivi posti dalla Strategia di Lisbona), la tipologia (con un occhio di riguardo alla flessibilità degli orari e incentivando la soluzione dei nidi aziendali) e l’inserimento in reti locali di offerta differenziata, consentendo in tal modo alle madri di partecipare maggiormente al mercato del lavoro. Così come è esplicito l’intento di favorire il lavoro di cura ma soprattutto il recupero di tempo per la cura dei familiari ricorrendo alla flessibilizzazione, al frazionamento anche orario dei congedi parentali, alla predisposizione di nuove formule di “congedo familiare” cui il/la lavoratore/trice possono fare ricorso in caso di particolari necessità di componenti della famiglia, alla concessione dei congedi ai nonni anziché ai genitori, alla obbligatorietà della concessione del part-time in via prioritaria ai dipendenti con esigenze familiari (sempre limitatamente al contingente previsto dal Ccnl).
Nella stessa sezione dedicata ai servizi, alla cura e ai tempi, è prevista una azione denominata “nuove misure a sostegno flessibilità” che prevede l’individuazione di “nuovi strumenti utili a livello territoriale per aiutare le imprese nell’attuazione dell’art. 9 della legge 53/2000 e per affiancarle nel redigere i progetti” accelerando il “processo di valutazione, finanziamento e monitoraggio dei progetti” allo scopo di rendere più rapida ed efficace la risposta alle imprese.
Relativamente ai tempi e orari della città è prevista l’istituzione di “tavoli tecnici per progetti innovativi in termini di conciliazione dei tempi” in grado di incentivare l’utilizzo dell’istituto della banca del tempo: per l’estensore del Piano, la legge 53/2000 costituisce ancora “un riferimento sufficiente ma va attuata nella sua completezza su tutto il territorio”.
La Parte 4 tratta invece delle “Pari Opportunità e Conciliazione Famiglia-Lavoro” per la cui realizzazione è necessario innanzitutto:
– rafforzare le competenze dei Comitati Unici di Garanzia per le Pari Opportunità con lo scopo di valorizzare il benessere e contrastare le discriminazioni all’interno delle Pubbliche Amministrazioni;
– incentivare l’imprenditoria nel settore della cura;
– diffondere forme di Audit conciliazione famiglia-lavoro (“il Piano propone forme di audit che abbiano finalità di parità tra i sessi e sostegno alla vita famigliare ispirati a una relazione sussidiaria fra la posizione lavorativa e la famiglia del lavoratore");
– delineare un quadro fiscale e normativo favorevole al welfare aziendale family-friendly le cui misure (servizi aziendali famiglia, attività di mentoring per la carriera, istituzione di coordinatori aziendali family-friendly, implementazione servizi aziendali per l’infanzia, servizi di supporto alla attività scolastica dei figli, servizi aziendali socio-sanitari) debbono essere sancite da un accordo integrativo.
Infine, a comporre il set di interventi conciliativi, si enuclea nella Parte 8 il concetto di “Alleanze Locali per la Famiglia” con queste intendendo rendere responsabili più attori sociali creando una società attenta alla famiglia sul modello del distretto trentino. Le Alleanze verrebbero sostenute a livello nazionale, regionale e locale prevedendo l’istituzione di “Serviceburo” (“Agenzie di Servizio”) i cui operatori, ai quali dovrebbe essere garantita autonomia e flessibilità sul campo, sarebbero tenuti a coordinare le iniziative provenienti dal mercato, dal terzo settore e dalle reti informali, ad attrarre risorse e finanziamenti (di fondazioni e istituti bancari), a organizzare eventi, gestire la comunicazione e le consulenze a livello locale.

Alcune considerazioni relativamente al processo locale
Sebbene il Piano illustri molte altre aree di intervento e azioni attuative, ciò che ci preme è, come detto, mettere a fuoco attraverso quali strumenti e in capo a quali soggetti si possano avviare, sperimentare, consolidare i processi di promozione e realizzazione di interventi di conciliazione famiglia-lavoro in una prospettiva più trasversale di sviluppo territoriale e quindi di inclusione degli attori economici. Tale prospettiva è peraltro posta in evidenza dallo stesso documento programmatico nazionale che afferma che “le competenze in materia di politiche familiari sono in corso di modificazione a seguito della attuazione del nuovo Titolo V della Costituzione e della riforma in senso federale dello Stato”. Ne discende pertanto che saranno i vari livelli territoriali a specificare quali misure dovranno essere messe in campo nel “quadro di uno Stato plurale, sussidiario e societario”.

La governance
Sul piano della “governance del processo territoriale di conciliazione” è chiaro quindi l’importante ruolo affidato agli enti regionali e locali che hanno il duplice compito di condividere i principi e gli obiettivi di fondo definiti e attivare i mezzi necessari per il loro perseguimento. Tale funzione di governance multi-livello si intende attuata attraverso accordi territoriali o accordi collettivi nazionali o integrativi aziendali (atti a disciplinare per esempio le modalità di utilizzo dei voucher familiari o la flessibilizzazione dei congedi parentali o di cura familiare), attraverso l’istituzione di commissioni di livello nazionale per il coordinamento delle politiche dei tempi e tavoli tecnici locali di gestione delle sperimentazioni sulla conciliazione famiglia-lavoro, attraverso la definizione di Piani Territoriali degli Orari. Sono le stesse proposte programmatorie di alcune regioni italiane (si vedano a tal proposito gli Accordi Territoriali per la Conciliazione siglati in Regione Lombardia tra il 2011 e 2012 e seguiti da altrettanti Piani Territoriali di Conciliazione o i Patti Sociali di Genere della Regione Puglia) oltre all’accordo interconfederale tra Confindustria, Cgil, Cisl, Uil del 28 giugno 2011 piuttosto che lo stesso articolo 8 della legge sviluppo 148/2011, a testimoniare lo slittamento verso la periferia del livello decisorio e regolatorio della materia del lavoro oltre che di quella del welfare e delle politiche sociali.

Il “Serviceburo”
Ed è nel solco normativo di una delocalizzazione delle decisioni e azioni che si pone la misura forse più incisiva sul fronte della regolazione e del coordinamento delle politiche locali per la conciliazione: si tratta di quella che viene chiamata Alleanza per la Famiglia insieme con la proposta di istituire “agenzie di servizio” territoriali di diffusione e supporto alla progettazione di candidature a valere sull’articolo 9 della legge 53/2000. Di fatto, potendo applicare alla lettera le “volontà” del Piano, ciascun territorio dovrebbe dotarsi del “Serviceburo”, antenna locale di presidio delle Alleanze per la Famiglia e punto di coordinamento, in collaborazione con consulenti locali che agiscono in autonomia, di tutte le iniziative del mercato, del terzo settore, dei cittadini. E’ il Serviceburo che coinvolgerebbe fattivamente le imprese nel processo. Ad esse è infatti dedicato uno spazio significativo del Piano che forse varrebbe la pena integrare, a livello nazionale e locale, con piani specifici di sviluppo aziendale e territoriale che considerino le politiche di conciliazione come asset di sviluppo economico strategico.

Le imprese
Le imprese giocano, infatti, un ruolo cruciale sui territori e nella vita dei singoli cittadini, nella costruzione della identità delle comunità, e in termini di costruzione di valore sociale oltre che economico. Per questo il Piano ne prevede la partecipazione al processo: le imprese che attuano misure di welfare aziendale family-friendly potrebbero trarre vantaggi fiscali dalla realizzazione di servizi alla famiglia e ai dipendenti; potrebbero avvalersi del supporto dei tecnici del Serviceburo per la candidatura di proposte progettuali a valere sull’art. 9 legge 53/2000; potrebbero determinare il funzionamento dei voucher servizi, il frazionamento del congedo parentale e familiare; sarebbero infine tenute a concedere il part-time con maggiore facilità se non obbligatorietà.
Insomma lo sforzo di inclusione del mondo imprenditoriale è evidente così come il tentativo da parte dell’ente pubblico di regolare una complessità di relazioni che contemplino la presenza del mondo produttivo. D’altra parte ciò è previsto in primo luogo dall’art 41 della Costituzione che impone da un lato alle imprese di agire nel senso dell’”utilità sociale” (comma 2), dall’altro consegnando alla legge il compito di “determinare i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali” (comma 3). In secondo luogo è il recentissimo statuto delle imprese che include tra i principi ispiratori la “promozione dell’inclusione delle problematiche sociali e delle tematiche ambientali nello svolgimento delle attività delle imprese e nei loro rapporti con le parti sociali”. Infine sono le stesse aziende a riconoscere le potenzialità in termini di competitività, di efficacia ed efficienza delle performance determinate da un reindirizzamento, cambiamento e miglioramento dei propri comportamenti organizzativi nel senso di una maggiore attenzione al benessere dei collaboratori/trici.

Favorire l’inclusione e la partecipazione delle imprese al processo di sviluppo economico e sociale dei territori costituisce quindi un forte fattore di innovazione: l’impresa welfare-friendly è più competitiva, genera benessere, produce meno costi sociali. Ma ciascun soggetto che partecipa ai processi organizzativi, vi permane fintantoché ne percepisce una convenienza, un interesse e soddisfazione. E’ quindi interesse dell’ente regolatore del processo, ovvero l’ente pubblico e nella fattispecie l’estensore del Piano, rendere conveniente all’azienda la partecipazione e permanenza. Per questo deve conoscerne i comportamenti, gli obiettivi, gli strumenti, le modalità e criteri di assunzione delle decisioni allo scopo di renderle coerenti con gli obiettivi, principi e valori del Piano e quindi delle politiche famigliari.
Ma quali sono, all’interno del Piano, gli snodi business-friendly? Quali sono gli elementi che dovrebbero richiamare l’attenzione delle imprese e garantirne una presenza cooperativa?

Va innanzi tutto segnalata la volontà espressa di rilanciare l’articolo 9 della legge 53/2000 ma chi lo ha sperimentato (pur riconoscendone il pregio e quella felice intuizione che ebbe il legislatore fin dal lontano 2000 di considerare le imprese come interlocutori privilegiati) ne conosce pure le criticità, i travagli, le fermate e ripartenze, le riformulazioni, la variabilità dei requisiti e criteri di ammissione, i ritardi nella valutazione che lo hanno reso uno strumento non sempre semplice da utilizzare. Così come è apprezzabile l’attenzione prestata dal Piano alla premialità del welfare aziendale seppure molto sbilanciata sul fronte servizi.

Fragile appare invece per certi versi la visione della famiglia sul luogo di lavoro. O comunque poco efficace nel delineare uno scenario futuribile capace di “conciliare gli interessi delle aziende con quelli dei lavoratori”. Luogo e orari di lavoro conservano la loro rigidità abdicando al tentativo di immaginare l’introduzione di una flessibilità buona; una flessibilità di orari e luoghi che riconosca ai lavoratori/trici la libertà di decidere quando e come lavorare stabilendo un patto di risultato col datore di lavoro; una prestazione flessibile che viene misurata sugli obiettivi; una flessibilità che non si configura soltanto come “part-time” ma come profilo orario personalizzato che rende obsoleto il concetto stesso di part-time di cui troppo spesso si abusa condannando alla rigidità anche quegli istituti che dovrebbero favorire la conciliazione. Non è stata colta insomma una reale opportunità di innovazione e diffusione (così come non è stata colta con la riforma del lavoro recentemente approvata) di quella flessibilità funzionale e organizzativa (e non numerica si badi bene) che dovrebbe essere incentivata e premiata all’interno delle imprese, che indurrebbe datori e lavoratori a riscrivere un patto di alleanza, che non si configurerebbe soltanto come un costo per l’azienda come rischiano di risultare i congedi parentali orari, i nuovi congedi familiari, il part-time, i nidi aziendali bensì una flessibilità low-cost del tele-lavoro, dell’orario flessibile, della banca delle ore. Il Piano trascura la flessibilità organizzativa “buona” liquidandola forse troppo frettolosamente in premessa con la lapidaria considerazione che “la regolazione, via via in chiave sempre più flessibile di talune tipologie contrattuali, pur dettate da comprensibili ragioni organizzative e produttive, ma anche nell’intento di individuare modalità di lavoro maggiormente compatibili con le esigenze di vita, può, per contro, determinare nella operatività effetti non coerenti con le pur dichiarate esigenze di favorire il lavoro di cura e, più in generale, la conciliazione tra lavoro e vita familiare”. Eppure una efficace flessibilità low-cost può essere facilmente costruita attraverso la sistematizzazione di quelle piccole misure per lo sviluppo e il lavoro che in passato sono state promulgate anche con l’intento di agevolare la conciliazione: la detassazione della produttività legata a soluzioni organizzative family-friendly, la defiscalizzazione del tele-lavoro, della banca delle ore e orari flessibili. Una flessibilità denominata dall’Europa stessa flexi-security che coniuga elasticità organizzativa e certezze e sicurezza delle tutele.

Conclusioni
Certo di un Piano Nazionale per la Famiglia che fosse di respiro, che indicasse i principi guida e tentasse una convergenza e integrazione delle politiche ai vari livelli istituzionali e da più punti di vista, c’era bisogno. Non si dimentichi però che le politiche organizzative all’interno dei luoghi di lavoro incidono in maniera sostanziale sul benessere dei lavoratori, delle loro famiglie e delle loro comunità. Non si sottovaluti il ruolo dei comportamenti organizzativi aziendali in un’ottica di benessere e integrazione con le politiche territoriali. Si proceda con la predisposizione di misure che convincano le imprese a partecipare attivamente al processo collettivo di ridefinizione dei modelli produttivi di riferimento, che facciano loro comprendere quanto conviene agire nell’interesse proprio e dei collaboratori. Poiché è soprattutto in queste fasi di crisi che i cittadini e le organizzazioni necessitano di innovazione, di idee, di coraggio, di principi guida che indichino una possibile rotta da seguire restituendo loro quella capacità di sogno, fiducia e speranza che è presupposto indispensabile per riprovare a crescere. Davvero.