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Il contesto

Nel corso degli ultimi anni le politiche sociali e occupazionali europee hanno evidenziato come la società vada verso un progressivo prolungamento della vita lavorativa e dell’età di pensionamento reale, tanto che proprio il tema dell’occupazione costituisce – insieme a quelli di autonomia e partecipazione alla vita sociale – uno dei tre settori chiave attorno a cui si articolano le politiche promosse dall’Anno Europeo dell’invecchiamento attivo e della solidarietà tra generazioni, di cui abbiamo già trattato in un altro nostro articolo (Anno Europeo dell’invecchiamento attivo: i progetti premiati)

Nei paesi dell’Unione Europea il tasso di occupazione tra i 65 e i 69 anni di età è salito dall’8,8% al 10,5% tra il 2005 e il 2011. Confrontando i singoli paesi, Finlandia (4,9%), Regno Unito (4,7%), Lituania (4,3%), Germania (3,5%) e Austria (3,4%) presentano l’incremento maggiore, mentre otto (Portogallo, Lettonia, Slovenia, Cipro, Estonia, Romania, Grecia e Polonia) registrano tassi decrescenti – la maggior parte di questi, però, sono tra i paesi più duramente colpiti dalla crisi.

E’ quanto emerge da un recente rapporto pubblicato dall’European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions che analizza il tema del lavoro dopo il pensionamento, descrive chi sono i pensionati lavoratori e quali attività svolgono e si conclude con delle indicazioni per policy-makers, datori di lavoro e pensionati per gestire al meglio l’impatto di questo fenomeno sia sui pensionati stessi che sull’intera società.

Perché si continua a lavorare dopo l’età pensionabile

Quali sono le motivazioni che spingono una persona a lavorare anche dopo l’età pensionabile?
Innanzitutto, la necessità. I trasferimenti monetari provenienti dalle pensioni rappresentano la componente principale del reddito di un pensionato (in media circa il 60%). A causa dell’aumento del costo della vita e dei tagli imposti dalla revisione dei sistemi previdenziali pubblici, spesso questi trasferimenti si dimostrano inadeguati e inducono i beneficiari a cercare un’occupazione per incrementare le proprie entrate. In alcuni casi il rischio è di ritrovarsi in condizioni di vera e propria povertà. Questo spiega, ad esempio, perché la quota di working retirees in Germania è molto inferiore rispetto al Regno Unito, dove il numero di anziani a rischio povertà è piuttosto alto. Un dato interessante sull’Unione Europea è che mentre nel 2007 il rischio di povertà ed esclusione sociale per gli over-65 era maggiore rispetto che per la fascia 18-64 anni, nel 2011 la situazione si è ribaltata e gli anziani sono adesso generalmente a rischio minore che il resto della popolazione. Il reddito di un over-65 resta, comunque, generalmente inferiore a quello di una persona tra i 16 e i 65 anni (mediamente l’88%) ad eccezione di due Stati, dove è superiore: Lussemburgo (105%) ed Ungheria (101%).
Anche chi non vive al di sotto della soglia di povertà spesso dichiara di avere seri problemi finanziari. Il 53,6% degli intervistati con più di 65 anni e che vivono soli, ha risposto di avere difficoltà ad arrivare a fine mese, percentuale che si abbassa al 44,5% per i nuclei di 2 o più persone con almeno un componente sopra i 65 anni. I dati peggiori si riscontrano in Bulgaria, Romania, Lituania e Ungheria, mentre la situazione è meno grave in Lussemburgo, Danimarca, Germania e Svezia.
Chi ha accesso a pensioni più generose può essere costretto, comunque, a cercare un’occupazione per necessità finanziarie (aiutare i propri figli se inoccupati, pagare un mutuo, pagare le spese mediche).

Si può decidere di lavorare anche per interesse: un intervistato su tre (33%) afferma, infatti, che vorrebbe lavorare anche dopo il raggiungimento dell’età pensionabile. Questo risultato può essere spiegato dall’importanza delle relazioni sociali – una parte significativa delle relazioni che integrano l’individuo nella società si intreccia intorno al mondo del lavoro (con clienti, colleghi ecc.) -; dalla concezione del lavoro come mezzo di realizzazione personale, soprattutto per chi svolge professioni che richiedono un alto livello di istruzione; dalla volontà di incrementare il reddito per mantenere uno stile di vita medio-alto.

Profilo dei pensionati lavoratori

I pensionati che lavorano sono spesso più giovani (65-69anni), di sesso maschile, con un livello di istruzione elevato, vivono in aree urbane o hanno un mutuo. Tuttavia, la recente crescita del tasso di occupazione dipende soprattutto dall’aumento dei working retirees donne (+0,9% dal 2007 al 2011) e con un livello d’istruzione medio.

Per quanto riguarda le differenze di genere, nell’Unione Europea il tasso di occupazione maschile tra i pensionati supera del 5,6% quello femminile, con ampie variazioni tra Stati: più alto in Portogallo, Cipro, Danimarca ed Irlanda, più basso in Lettonia, Spagna, Francia e Romania. In generale, comunque, il gap si sta colmando (da 6,2% nel 2007, a 5,6% nel 2011). E’ difficile stabilire se perché le opportunità di lavoro sono più equamente distribuite o perché si è uniformata la necessità di lavorare. In certi casi il calo può essere spiegato dal fatto che diversi settori produttivi male-dominated, come quello edilizio, stanno risentendo pesantemente della crisi. Prendiamo, ad esempio, la Lituania, dove la differenza tra il tasso maschile e quello femminile è passata in questi anni dal livello più alto a quello più basso tra i pesi europei, non per una straordinaria escalation del numero di pensionate lavoratrici, ma per il drastico calo degli uomini occupati.

Per quanto riguarda il tipo di contratto predominante, la maggior parte dei working retirees lavora a tempo parziale (56,8% media UE). In tutti gli Stati membri dopo i 65 anni si registra una riduzione delle ore di lavoro, riduzione più drastica in Austria, Belgio e Lussemburgo (-11,5 ore settimanali), molto contenuta in Grecia, Italia, Lettonia e Lituania (-3 ore settimanali).
I lavoratori autonomi rappresentano circa il 50%. Una cifra significativa se confrontata con quella dei self employed tra i 15 e i 64 anni (14,3%) e che aumenta in molti paesi, primi fra tutti il Portogallo (85,9%) e l’Italia (75,2%).
Quasi un quinto ha un contratto a tempo determinato (17,8%), in certi casi a causa dei limiti imposti dalla legislazione nazionale – come in Repubblica Ceca, dove è consentito percepire contemporaneamente sia redditi da pensione che da lavoro solo se il contratto di lavoro ha durata massima di un anno -, in altri per scelta dei pensionati stessi (il 70% dichiara di preferire questo tipo di contratto perché meglio adattabile alle proprie esigenze).

Dopo aver descritto i tratti medi dei working retirees, lo studio si conclude riassumendoli in cinque cluster:
– lavoratori relativamente anziani, impiegati nell’agricoltura e nella pesca, per poche ore. Più concentrati in Austria, Grecia, Polonia, Portogallo e Romania;
– lavoratori più giovani, part-time, che svolgono mansioni elementari nel settore dei servizi e delle vendite (perlopiù donne);
– lavoratori part-time, che svolgono mansioni elementari nel settore tecnico, perlopiù uomini;
– un gruppo numeroso di lavoratori con livelli alti d’istruzione, che vivono nelle aree urbane, spesso dipendenti part-time, ma anche autonomi. E’ relativamente dominante in Ungheria, Polonia, Lituania e Svezia;
– un gruppo, molto consistente, di lavoratori autonomi, perlopiù uomini, manager, policy makers, o occupati nei settori dell’artigianato o del commercio. Più diffuso in Italia, Grecia, Spagna e Belgio.

E’importante, infine, citare una condizione che caratterizza una parte non esigua dei pensionati lavoratori: il lavoro nero. Fenomeno riscontrato in tutti gli Stati, più o meno presente a seconda della severità delle leggi in materia e del moral standing culturale, è molto più diffuso che tra i non pensionati. E’ determinato principalmente da motivi fiscali e dal grado di compatibilità dei diritti previdenziali con l’esercizio di una professione. Si rileva soprattutto nel settore dei lavori domestici, dell’edilizia e dell’assistenza.

Spunti di policy

Sulla base delle riflessioni proposte, quali azioni dovrebbero intraprendere i principali attori coinvolti in questo processo, ovvero i decisori, le imprese e gli stessi pensionati?

Politici e policy-makers: possono, innanzitutto, limitare la necessità di lavorare per esigenze economiche garantendo livelli di pensione adeguati al costo della vita reale, o fornendo servizi più facilmente accessibili anche alla popolazione anziana, soprattutto in quei paesi, come il Regno Unito, dove le prestazioni sanitarie sono strettamente legate alle assicurazioni professionali. Posto che ormai i working retirees sono già milioni, è necessario che venga adeguato il quadro normativo di riferimento e vengano loro applicati gli strumenti previsti per le altre categorie di lavoratori (come il salario minimo, spesso non applicato).

Occorre migliorare la legislazione in materia affinché i pensionati che vogliono lavorare, e i datori di lavoro che vogliono assumerli, possano farlo. Nella maggior parte degli Stati membri, eccetto Irlanda, Lussemburgo e Paesi Bassi, le pensioni pubbliche possono essere differite oltre l’età pensionabile per un periodo limitato (Cipro, Danimarca, Italia, Grecia, Lituania, Malta) o illimitato di tempo. In molti paesi, tuttavia, i contratti di lavoro sono automaticamente interrotti al raggiungimento dell’età pensionabile. Alcuni Stati membri hanno già emanato provvedimenti per risolvere questo problema: nel 2011 il Regno Unito ha reso illegale licenziare un dipendente perché ha raggiunto l’età pensionabile, nei Paesi Bassi e in Germania, dove i contratti a tempo indeterminato sono interrotti di default all’età di 65 anni, recentemente sono state emesse delle sentenze che hanno messo in dubbio la legittimità di tale normativa. Si dovrebbero, inoltre, rivedere gli schemi pensionistici in modo da non scoraggiare, ma anzi incoraggiare, chi vuole lavorare. Le pensioni pubbliche sono, a volte, means tested, soggette al salario e a particolari condizioni di reddito. Questo può indurre le persone a non lavorare, lavorare meno, o a lavorare in nero. E’ il caso, ad esempio del Regno Unito, dove sono partially means tested, ma anche di Austria, Belgio e, per le pensioni anticipate, Repubblica Ceca e Germania. E’ necessario, quindi, prevedere degli incentivi fiscali e inserire nuove regole grazie a cui proseguire un’attività lavorativa non penalizzi il beneficiario e consenta di accantonare contributi ulteriori che vadano ad aumentare la pensione futura. Dati i vincoli di stabilità finanziaria, incoraggiare i cittadini a rimandare la data di pensionamento può migliorare la sostenibilità dei sistemi pensionistici.

Bisogna anche, tuttavia, considerare l’impatto di questa tendenza sull’intera società. E’ percezione diffusa, infatti, che gli anziani stiano riducendo le possibilità di impiego per i più giovani. In particolare, I cittadini di paesi che hanno un alto tasso di disoccupazione giovanile tendono a considerare negativamente la possibilità di lavorare dopo l’età pensionabile. Tale percezione tuttavia non trova evidenza nei dati, che mostrano al contrario che i paesi in cui la disoccupazione è più contenuta prevedono una età pensionabile tra le più alte [per ulteriori approfondimenti si rimanda all’articolo di Maurizio Ferrera L’illusione di un patto fra generazioni sul lavoro].

Datori di lavoro: dovrebbero, innanzitutto, concedere più flessibilità ai dipendenti. Uno degli incentivi che spinge i quasi-pensionati a continuare a lavorare è, infatti, la possibilità di ottenere un impiego flessibile che consenta loro di conciliare l’attività lavorativa con le esigenze di cura dei familiari (in genere del coniuge o dei nipoti) o con le proprie condizioni di salute. Non si fa qui riferimento solo alle ore settimanali, ma anche alla possibilità di accrescere o diminuire occasionalmente le ore di lavoro. Una buona quota degli intervistati, ad esempio, ha dichiarato di vedere nell’impiego stagionale un alternativa che ben si sposerebbe con le proprie necessità. Offrire opzioni di lavoro flessibili può essere conveniente anche per le imprese stesse, che avrebbero a disposizione dipendenti adattabili alle esigenze del mercato.

Possono, inoltre, investire di più sui dipendenti meno giovani. Sembra che l’età rappresenti spesso una barriera agli investimenti in formazione: i lavoratori più anziani, infatti, svolgono mediamente meno ore di training di quelli più giovani (e solo il 30% degli impiegati effettuano corsi a spese del datore di lavoro, rispetto al 36% di quelli tra i 30 e 39 anni). Questo dato, tuttavia, non è necessariamente determinato dai datori di lavoro, ma è imputabile anche ai lavoratori stessi. In generale, si pensa che attività di mentoring e formazione per i dipendenti più anziani siano inutili poiché questi sono già esperti o perché sono prossimi ad abbandonare il lavoro. Bisogna capire che, invece, possono dare risultati positivi perchè rafforzano il trasferimento di conoscenze e contribuiscono a soluzioni a lungo termine per la mancanza di abilità adeguate, integrando i lavoratori più giovani.

Pensionati: anche gli stessi pensionati sono chiamati a mettere in atto comportamenti in grado di influire in modo positivo sulle proprie condizioni. Potrebbero innanzitutto ovviare alla necessità di lavorare investendo per tempo in strumenti alternativi (fondi pensione privati, fondi di risparmio, ecc.) per integrare i redditi da pensione. Qualora scegliessero di continuare a lavorare, invece, dovrebbero cercare attivamente un impiego o aprire un’attività in proprio, seguire corsi di formazione e di aggiornamento per mantenere, o aumentare, la propria competitività nel mondo del lavoro. Potrebbero, infine, richiedere maggiori tutele, sia a livello individuale discutendone con i datori di lavoro, sia a livello collettivo, attraverso la promozione di accordi collettivi a loro favore.

 

Riferimenti

Eurofound Report Income from work after retirement in the EU

Anno europeo dell’invecchiamento attivo e della solidarietà tra le generazioni

 

I nostri approfondimenti sul tema dell’invecchiamento attivo e della solidarietà tra generazioni

L’illusione di un patto fra generazioni sul lavoro 
Maurizio Ferrera, 10 Dicembre 2012

Anno europeo dell’invecchiamento attivo: i progetti premiati 
Lorenzo Bandera, 26 Novembre 2012

Festival delle generazioni: facciamo un bilancio?
Giulia Mallone, 30 Ottobre 2012

 

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