7 ' di lettura
Salva pagina in PDF

L’8 novembre ricorre il ventesimo anniversario dell’approvazione della. 328/2000, la legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali (a cui abbiamo dedicato un approfondimento qui). Abbiamo incontrato Gianmario Gazzi, Presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Assistenti Sociali, per parlare del rapporto tra la professione e la legge 328/2000 e per cercare di individuare qualche sfida prioritaria per i prossimi anni.

Presidente Gazzi, iniziamo da una domanda di carattere generale sulla 328: che rapporto c’è tra quest’ultima e la comunità professionale degli assistenti sociali? Come si sono influenzate a vicenda?

La professione è certamente stata protagonista e co-costruttrice del sistema integrato dei servizi sociali, lo testimoniano gli atti di approvazione della 328 e lo dimostra anche il fatto che la legge valorizza le competenze e le capacità degli assistenti sociali. L’influsso della professione sulla 328 è però ravvisabile anche nell’impostazione stessa della legge, che si fa portatrice di una visione assolutamente in linea con il servizio sociale: la rilevanza data alla sussidiarietà, l’attenzione rivolta alle reti e alla persona nel suo complesso (piuttosto che alla singola prestazione).

Pensando invece all’influsso della 328 sulla professione in questi vent’anni credo sia da sottolineare un rischio quasi paradossale, che si verifica soprattutto nelle situazioni di maggior fragilità dei servizi: il prestazionismo. Secondo questo approccio l’assistente sociale risponde all’espressione di un bisogno semplicemente attivando una prestazione economica o un intervento standard, senza approfondire la valutazione del bisogno, delle competenze e delle risorse della persona. Nel corso degli ultimi anni c’è stato un significativo impegno nel superare questo limite, in particolare con la costruzione del REI e, successivamente, del Reddito di cittadinanza. Queste misure si basano infatti sulla valutazione multidimensionale del bisogno e su un progetto di intervento condiviso con la persona che richiede l’intervento. Purtroppo però dobbiamo fare i conti con un sistema di welfare che non è ancora maturo dal punto di vista territoriale, o almeno non lo è in tante parti del Paese. E questo valeva anche prima della pandemia.

Quando parli di un welfare territoriale non ancora del tutto maturo ti riferisci a una dimensione puramente geografica? O ci sono altri fattori che ostacolano il rafforzamento dei sistemi territoriali di welfare?

Sicuramente si tratta innanzitutto di un fattore geografico, confermato da tutte le ricerche disponibili sul tema: l’efficacia e la forza dei sistemi locali di welfare dipendono dalle capacità di spesa e di programmazione e dalla volontà politica delle singole regioni. Sappiamo infatti che subito dopo l’approvazione della 328 è stato modificato il titolo V della Costituzione, perciò ora la responsabilità del funzionamento dei sistemi territoriali di welfare sta in capo alle regioni: a livello nazionale possono essere fatti alcuni interventi che però risultano poco incisivi se non sono accolti e affermati anche dalle regioni.

Oltre alla questione geografica c’è poi una questione politica. Registriamo una tendenza a favorire l’intervento rispetto all’accompagnamento: le politiche spesso preferiscono offrire un bonus, un intervento economico che lenisce uno stato di bisogno impellente. Questo approccio, che è obiettivamente più semplice, non risolve la situazione di bisogno nel suo complesso. Sarebbe più opportuno invece sostenere un sistema che non solo si fa carico dell’intervento necessario e impellente, ma anche di un percorso in cui sono previsti numerosi e diversi interventi e figure professionali. Andare oltre le “filiere” di intervento per muoversi verso una logica integrata di accompagnamento che non sia “riparativa” ma promozionale.

Come è possibile superare queste fragilità?

Il tema che oggi – anche alla luce della pandemia – si sta dimostrando cruciale è proprio l’assenza di un sistema effettivamente strutturato. A fronte di una tragedia che sta colpendo tutti, è importante sottolineare che queste differenze territoriali determinano e determineranno un allargamento delle disuguaglianze all’interno delle comunità e tra i diversi contesti territoriali. Come Ordine professionale in questi mesi stiamo portando avanti un’attività di advocacy volta proprio a sottolineare questo rischio drammatico. Una risposta a questo problema, aggravato dalla pandemia, può certamente essere l’attesa approvazione dei livelli essenziali di assistenza [previsti nella l.n. 328/2000 e mai approvati, NdR]. Si tratta di un passaggio importante e necessario, sebbene non possiamo considerare i livelli essenziali come la panacea di tutti i mali.

Secondo te quali altri temi sono prioritari, oltre ai livelli essenziali di assistenza?

Provo a fare un paragone: devo costruire una macchina. I livelli essenziali sono il progetto di questa macchina, le indicazioni che mi dicono come costruirla. Oltre al disegno, però, devo avere le energie per assemblare i pezzi e, successivamente, la benzina per fare in modo che la macchina possa partire. Le risorse – economiche e umane – rappresentano le energie e il carburante necessari per il funzionamento della macchina.

Una prima riflessione deve dunque riguardare le risorse economiche. Innanzitutto devono essere adeguate. Nella nostra esperienza come assistenti sociali, tuttavia, spesso ci rendiamo conto che l’offerta gratuita di servizi stimola una domanda non sempre appropriata. Prendiamo l’esempio del Trentino, dove abito: si tratta di un territorio in cui il welfare è sempre stato uno dei pilastri fondamentali della comunità territoriale. Per anni molte prestazioni sono state offerte quasi gratuitamente e questo, in alcuni contesti e settori, ha determinato un accesso incondizionato, esponenziale e improprio agli interventi. La riflessione sulle risorse economiche non dovrebbe limitarsi alla compartecipazione dei beneficiari, ma tendere a una riorganizzazione di tutti gli interventi economici (l’invalidità, l’assegno di accompagnamento, ecc.) e alla sperimentazione di strumenti innovativi come i budget di cura.

E per quanto riguarda le risorse umane che dovrebbero permettere alla “macchina” dei servizi di mettersi in moto?

Mi sembra che ci siano due aspetti da tenere in considerazione. Innanzitutto dobbiamo riconoscere che ci sono dei limiti nelle competenze degli assistenti sociali. A vent’anni di distanza dovremmo ragionare sulle capacità che sono attualmente necessarie e auspicabili per la nostra figura professionale: competenze nella gestione del Terzo Settore, nella gestione delle organizzazioni, una maggiore specializzazione rispetto ad alcuni ambiti di intervento. In molti casi i programmi formativi degli assistenti sociali si basano su testi scritti negli anni Settanta: se l’impianto valoriale della professione è giustamente rimasto lo stesso, non si può dire altrettanto dei contesti in cui operiamo.

Il secondo aspetto che mi preme sottolineare è quello della precarietà dei servizi e dei professionisti. Negli ultimi anni le variazioni nei bilanci sono state significative, perciò la programmazione dei servizi e delle risorse è diventata quasi impossibile. Attenzione, non è una questione “sindacale” e di tutela dei lavoratori: l’Ordine professionale ha il dovere di garantire ai cittadini che la professione sia correttamente esercitata. Se ogni due mesi cambia l’assistente sociale che segue quella famiglia, se quel bambino allontanato dai genitori continua a cambiare operatore di riferimento, se non posso garantire che fra tre mesi ci sarà ancora il servizio di segretariato sociale… il risultato è che noi danneggiamo quelle persone alimentando l’idea che qualcuno possa aiutarli, quando questo qualcuno non esiste.

Torniamo al tema delle competenze con cui arricchire il profilo dell’assistente sociale: tu pensi che ci possa e debba essere uno spazio per questa figura professionale in nuovi processi come il crescente coinvolgimento di soggetti privati nel sistema di welfare?

Non esiste una risposta semplice e lineare a questa domanda. La 328 in realtà lascia ai singoli territori grandi spazi di co-progettazione, allargati anche grazie alla Riforma del Terzo Settore e a varie norme e pronunciamenti sulla co-progettazione. Sicuramente la 328 è una norma che è stata scritta vent’anni fa; tuttavia secondo me ha avuto il pregio di fotografare alcune dinamiche già esistenti e, al tempo stesso, di aprire degli spazi sul futuro. Peraltro bisogna fare una premessa: a volte sembra che il Terzo Settore e il mondo del profit attento alle questioni sociali siano fioriti in questi anni… ma non è così! Una buona parte del welfare italiano è nata proprio dal Terzo Settore e dal privato: se avessimo aspettato il pubblico forse ci ritroveremmo ancora con le strutture istituzionalizzanti. Perciò, alla luce di queste considerazioni, la vera sfida è creare una governance condivisa per valorizzare il welfare pubblico e il privato – sia profit che no profit – a favore delle persone. Penso sia necessario attribuire delle responsabilità. Il pubblico, dal mio punto di vista, ha il ruolo di indicare gli obiettivi e le priorità e pianificare di conseguenza: eleggiamo dei nostri rappresentanti per questo, no? In questo processo devono ovviamente essere coinvolti il Terzo Settore e il privato, cercando di valorizzare il loro apporto non solo in termini economici (e di risparmio per la pubblica amministrazione), ma anche in termini immateriali e di arricchimento del tessuto sociale della comunità.

Pensi che la figura professionale dell’assistente sociale possa essere coinvolta anche in interventi di welfare aziendale, specialmente in quei progetti che cercano di aprirsi al territorio andando al di là della popolazione aziendale?

Secondo me bisogna considerare due aspetti fondamentali. Da un lato dobbiamo prendere atto del mondo che cambia e che, coi suoi mutamenti, sfida le organizzazioni e i singoli professionisti. Servirebbe una rivoluzione culturale nella testa degli assistenti sociali: dobbiamo smetterla di pensarci solo ed esclusivamente nel ruolo pubblico, anche perché questo rischia di essere l’anticamera del prestazionismo. Forse si tratta di una mancanza di “sogni professionali” che, a causa di molti motivi (tra cui la già citata precarizzazione del lavoro sociale), ha portato gli assistenti sociali a ridurre le aspettative sul loro potenziale?

L’altro elemento da sottolineare, nel campo del welfare aziendale, è quella che io chiamo “competizione indotta” tra pubblico e privato: se io metto delle risorse per incentivare fiscalmente il welfare aziendale tolgo queste risorse da qualche altra parte, dove magari avrebbero garantito la tenuta di un sistema sempre più frammentato. Anche qui emerge un problema di disuguaglianza: la situazione di un mio concittadino dipendente di Luxottica, che accede a un piano di welfare aziendale generoso e in più vive in un contesto territoriale in cui c’è un welfare molto strutturato, probabilmente non è paragonabile a quella di chiunque altro in qualsiasi altra regione d’Italia. Sicuramente ci sono ampi margini di risparmio nel pubblico, anche a fronte delle nuove tecnologie che permettono di risparmiare tempo e risorse; tuttavia le scelte politiche in questo campo dovrebbero essere più ragionate e, possibilmente, giustificate da rilevazioni e valutazioni.


Un’ultima domanda: in quali aspetti, secondo te, andrebbe aggiornata la 328 in modo che possa rispondere alle priorità dei prossimi anni?

Credo che siano importanti i temi richiamati sopra: le risorse economiche, la compartecipazione dei beneficiari, l’aggiornamento delle competenze professionali degli assistenti sociali, l’approvazione dei livelli essenziali di assistenza. Guardando al prossimo anno penso che avremo raggiunto un buon risultato se – come annunciato recentemente dalla ministra Catalfo – riusciremo a stabilire chiaramente almeno due o tre livelli essenziali di assistenza. Un altro elemento interessante è questo: una delle priorità espresse dal governo italiano per l’impiego del Recovery Fund è il raggiungimento di una maggior coerenza e integrazione tra le politiche sociali e sanitarie.

Guardando ai prossimi vent’anni, invece, ammetto di non avere prospettive ottimistiche. In occasione delle celebrazioni del ventennale della 328 rischiamo di cadere nel falso ottimismo dell’“Andrà tutto bene”: abbiamo già visto che non andrà tutto bene. La retorica dell’ottimismo per forza può essere utile per reggere in una situazione estrema, dopodichè dobbiamo ricordarci che il nostro Paese ha un enorme debito pubblico e che le risorse che arriveranno per far fronte alla pandemia sono di fatto dei prestiti, che si trasformeranno in ulteriore debito pubblico… siamo sicuri che fra vent’anni questi debiti non si ripercuoteranno, ancora una volta, sulle fasce più fragili di popolazione? Un bonus non può risolvere tutto, la beneficenza non è sufficiente: serve avere oggi un’idea di quello che sarà fra vent’anni. E questa visione sarà possibile solo mettendo insieme tutte le risorse – economiche e umane – che abbiamo.