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La pandemia di Covid-19 ha accelerato i processi trasformativi in molti settori e non ha di certo risparmiato il mondo dell’educazione e della scuola. Di fronte alla sfida di garantire contesti sicuri, si sono accesi da alcuni mesi i riflettori sulla cosiddetta dimensione outdoor dell’educazione, considerata particolarmente adeguata agli attuali standard di sicurezza per la salute (ve ne avevamo già parlato qui, ndr). Il timore per gli addetti ai lavori è che l’interesse verso questo approccio sia un fuoco di paglia, giusto il tempo di affrontare questa particolare situazione “andando fuori” e che sfugga l’occasione di approfondire le ipotesi pedagogiche valide e fondate che ne sono alla base.

I luoghi dove avvengono le esperienze educative hanno sempre fatto parte delle riflessioni in ambito pedagogico, non a caso si parla dello spazio come il “terzo educatore” e non come un mero confine dove accadono cose, un limite entro cui fare, ma un elemento che in quanto tale può contribuire allo sviluppo ed al benessere dei bambini e dei ragazzi. È inquadrato così come mezzo di apprendimento, veicolo di conoscenza perché “contenitore di storie” (urbanistiche, di natura, storiche…) e facilitatore di esperienze anche ad alto impatto emotivo e intensità fisica.

La nostra conoscenza passa attraverso il mondo, la nostra mente si costruisce mentre costruiamo quello che ci ruota intorno. Viste le caratteristiche, questo approccio si può sviluppare ovunque ed a qualsiasi temperatura perché può avere intensità diverse – non sempre fuori o sempre dentro – e si basa su tanti elementi: l’approfondimento dei materiali che offre il luogo in cui ci si trova, la conoscenza diretta della natura, l’apprendimento di principi sostenibili. La complessità che quindi si cela dietro la parola “outdoor” richiede un lavoro di ipotesi e di traduzione in pratiche educative capaci di interpretarlo e contestualizzarlo a seconda della fase evolutiva dei bambini come setting educativo, strumento di educazione e oggetto a cui educare.

Il Coronavirus, la pandemia globale, il lockdown e lo stato di emergenza sanitaria che ancora aleggia sopra di noi sono stati dei grandi momenti di rottura della quotidianità, imprevisti ed imprevedibili nelle loro cause e conseguenze. L’educazione alla natura ha il pregio di preparare all’imprevisto, fa comprendere che non tutto va sempre come immaginiamo, che ci sono eventi di discontinuità che noi non controlliamo e che possono generare effetti che non ci aspettavamo, anche catastrofici. Vaia – la tempesta che nel 2018 ha sconvolto il nord est del nostro Paese- è ancora un ricordo vivo nella nostra mente. Una lezione da imparare tutto sommato utile in questi tempi definiti oramai “dell’incertezza”. Educare a ciò che ci circonda e in cui siamo immersi, è inoltre il modo forse più semplice per portare le nuove generazioni a comprendere meglio l’era in cui stiamo vivendo, l’antropocene, e mettere a fuoco quanto nell’era dell’uomo “pesino” le attività antropiche sull’ecosistema globale e quindi portarli ad essere pronti per la sfida ecologica che li attente. È questa la via per crescere bambini empatici verso la natura e per gettare le basi per una prima alfabetizzazione ecologica (ma forse questa è un’azione che dovrebbe essere rivolta a fasce di età altre).

E per finire, senza aver la pretesa dell’esaustività, c’è un altro elemento in più per guardare con interesse all’outdoor education. Dall’inizio della dichiarazione dello stato di emergenza sono passati 53 giorni prima che i bambini ed i ragazzi fossero nominati in un discorso ufficiale, completamente esclusi fino alla fase due dal discorso pubblico. Invisibili. Riflettendo su quanto accaduto, vale la pena chiedersi se questi ultimi decenni, complice un importante calo della natalità e l’affermazione del figlio unico, non siano stati caratterizzati da una visione socio-urbanistica che in maniera sempre più netta ha separato gli spazi per i bambini da quelli per gli adulti, creando così “ isole felici” dedicate per i primi, ma poche opportunità per metterli nella condizione di vivere da persone competenti i luoghi della quotidianità: musei, teatri, vie, ristoranti, supermercati e avanti così.

Forse permettere ai bambini ed ai ragazzi di riappropriarsene, può contribuire a renderli più visibili e a lasciare tracce più evidenti della loro presenza rinforzando l’idea che il territorio e la comunità sono co-responsabili della loro crescita e del loro futuro – non si impara quindi né solo in classe, né solo con gli esperti – e che sono a tutti gli effetti titolari di diritti di cittadinanza. Cosa, questa, da non dare così per scontata e da ricordare in particolar modo in questi giorni in cui si celebra la Giornata mondiale dei diritti dei bambini.

 


Questo articolo è stato pubblicato su L’Adige del 20 novembre, ed è qui riprodotto previo consenso dell’autrice.