Il dato sulle nascite nel 2020 appena pubblicato dall’Istat contiene due conferme negative. La prima è il suo porsi in continuità con il declino degli anni precedenti. La seconda è l’ulteriore accentuazione al ribasso causata dalla crisi sanitaria. L’esito è un numero di nati ai minimi storici (404 mila) che rende ancor più ampio il divario record rispetto ai decessi (-342 mila). È dalla recessione del 2008, arrivando fino all’impatto della pandemia, che collezioniamo record negativi per la demografia del nostro paese: siamo scesi al livello più basso di nascite di sempre; abbiamo più che dimezzato il livello del baby boom; per la prima volta la popolazione è in declino; siamo entrati in fase di continua riduzione delle potenziali madri e delle fasce centrali lavorative. È, allora, forse arrivato il tempo di chiedersi perché questo grande tema continuiamo ad affrontarlo con toni di forte preoccupazione quando vengono pubblicati ogni anno nuovi dati negativi, per poi lasciarlo scivolare ai margini del dibattito pubblico e dell’azione politica. È diventata la grande questione rimossa del nostro paese.
Quando nel 2015 l’Istat rese pubblico il dato sulle nascite avvenute nel 2014, la notizia di aver raggiunto il punto più basso dall’Unità in poi (pari a 503 mila nati) conquistò ampio spazio sui giornali e sui media in generale. Forniva, infatti, evidenza dell’allargarsi di squilibri che già ci avevano resi dagli anni Novanta uno dei paesi più vecchi al mondo, il primo a vedere il sorpasso degli over 65 sugli under 15. Si poteva però ancora sperare che l’uscita dalla fase acuta della recessione – unitamente alla consapevolezza di dover portare le politiche familiari e di promozione delle nuove generazioni sui livelli delle economie più avanzate – avrebbe favorito un’inversione di tendenza della fecondità.
Le cose, come oggi sappiamo, sono andate ben peggio del previsto: nei cinque anni precedenti la pandemia ad ogni nuova uscita dei dati ufficiali Istat i giornali hanno continuato a titolare in modo allarmante che era stato superato al ribasso il record negativo di nascite di sempre, mentre nulla di efficace si faceva per contenere il continuo crollo. È poi arrivato il Covid-19 che nel 2020, come abbiamo detto, ha prodotto un saldo negativo record nel bilancio demografico. Non solo per l’aumento dei decessi ma anche per l’ulteriore abbassamento delle nascite. Ma ancor più basso, possiamo già anticiparlo, sarà il dato del 2021, che porterà le conseguenze maggiori del freno ai nuovi nuclei e ai concepimenti nel 2020.
Dopo una lunga scia di record negativi e le evidenze dell’impatto della pandemia, l’Italia continua a non avere una vera strategia di risposta alla sfida demografica. Se vogliamo agire sulle cause di squilibri sempre più profondi serve una urgente e forte azione di riduzione del divario tra numero di figli desiderato e realizzato. Se invece pensiamo che la denatalità non sia un problema o sia troppo tardi per agire efficacemente, dobbiamo prendere in considerazione gli scenari peggiori sugli squilibri demografici e decidere come gestirne le conseguenze.
È come se il nostro paese si trovasse tra la terza e la quarta fase del noto modello di Elisabeth Kübler-Ross utilizzato per rappresentare il processo di reazione di fronte a una possibile perdita irreparabile. La prima fase è quella della negazione. Tradotta al nostro caso, è quella in cui ci si illude che il crollo delle nascite non sia poi così grave. Si minimizzano le conseguenze e si afferma, anzi, che con meno persone si sta anche meglio. Poi – una volta capito che non è il calo della popolazione la questione, ma i costi economici e sociali di un rapporto relativo reso sempre meno sostenibile tra popolazione anziana e generazioni più giovani (tanto più in un paese con enorme debito pubblico) – inizia a farsi largo la rabbia per le misure mancate o meno efficaci rispetto a quanto adottato in altri paesi demograficamente meno compromessi.
La terza fase è quella della negoziazione. Si diffonde un ampio consenso nell’opinione pubblica della necessità di intervenire prima che sia troppo tardi. Il contraccolpo della recessione del 2008 e il record negativo di nascite raggiunto nel 2014 hanno dato una buona spinta all’entrata del nostro paese in questa fase. A partire dal 2015, anche considerando il contributo dell’immigrazione, il numero di residenti è iniziato a diminuire. Gli squilibri sono diventati tali che contenere la riduzione della natalità e sostenerne la ripresa non comporta più un aumento degli abitanti della nostra penisola. Acquisito, a questo punto, che saremo sempre di meno, si tratta di stabilire se si concorda sulla necessità di favorire un andamento più positivo delle nascite che consenta di contenere il peggioramento strutturale interno, ovvero di rendere meno insostenibili, in prospettiva, gli squilibri tra popolazione anziana e attiva. Nessuna azione efficace risulta, però, messa in atto in questa fase, tanto che le nascite sono andate continuamente a contrarsi negli anni successivi, fino ad arrivare al drammatico impatto della pandemia.
Il rischio è ora che la combinazione tra carenze passate di politiche efficaci, da un lato, e nuove complicazioni e fragilità aperte dal quadro di emergenza sanitaria, dall’altro, ci faccia entrare nel pieno della quarta fase: quella della depressione come anticamera dell’accettazione definitiva del fallimento. Ovvero della rassegnazione ad adattarsi a vivere in un paese in cui diventa sempre più difficile generare nuovo benessere, garantire pieni diritti di cittadinanza e rendere sostenibile il welfare pubblico. Una depressione che, nei percorsi individuali, porterebbe a rivedere definitivamente al ribasso i progetti di vita, che già prima della pandemia risultavano maggiormente rinviati in Italia rispetto agli altri paesi e ora sono ancor più esposti a rischio di rinuncia definitiva. Una depressione, inoltre, che assieme alla riduzione strutturale delle potenziali madri potrebbe portare a ridursi (alcuni segnali già ci sono) anche il numero desiderato di figli, accelerando ancor più l’avvitamento verso il basso delle nascite.
Esiste però un’ultima possibilità per scongiurare lo scenario peggiore, che può arrivare dalla combinazione dell’azione di Next Generation Eu e Family act, ovvero tra un solido piano di investimento sulle opportunità formative e professionali delle nuove generazioni integrato con politiche familiari di sostegno e promozione delle scelte di vita che impegnano positivamente verso il futuro.
Ma è una scommessa che parte già persa se il Piano nazionale di ripresa e resilienza non mette la questione demografica al centro delle sfide del paese, e se il primo passo del Family act – l’assegno unico e universale, rimasto in lunga attesa al Senato – parte tardi rispetto agli effetti prodotti dalla crisi e si limita a riordinare le misure esistenti senza produrre una differenza sostanziale per le famiglie con figli di un ceto medio sempre più vulnerabile.
Questo articolo è stato pubblicato sul Sole 24 Ore del 27 marzo 2021 ed è qui riprodotto previo consenso dell’autore. Il testo è disponibile anche sul sito di Alessandro Rosina.