Nell’ultimo mese la guerra in Ucraina si è seriamente inasprita. Gli scontri di terra sono raddoppiati, fra il 29 dicembre e il 2 gennaio Putin ha lanciato una quantità di missili e bombe pari a due mesi di produzione. Le forze armate di Kiev si trovano sotto crescente pressione, dati anche i ritardi degli aiuti occidentali. Intanto le opinioni pubbliche europee sono sempre più tiepide nei confronti dell’ Ucraina. I sondaggi segnalano un calo di attenzione e preoccupazione per la guerra.
In Italia un terzo degli elettori preferirebbe interrompere le forniture belliche. I favorevoli sono ancora in maggioranza (il 47%, quattro punti in meno dello scorso aprile, secondo Swg), ma gran parte di loro ritiene che Kiev dovrebbe negoziare con Putin, anche al prezzo di cedere in tutto o in parte i territori occupati. Crescono anche coloro che si dichiarano equidistanti fra Russia e Ucraina, e circa il 10% si schiera apertamente dalla parte di Putin.
Sappiamo che in democrazia l’attenzione politica segue cicli brevi, il protrarsi di un problema tende a generare fastidio, soprattutto se causa costi per la collettività. Oggi l’unica cosa che sembra contare è la fine delle ostilità, quale che sia l’esito per le parti in gioco. L’impazienza genera un circolo vizioso: la gente si informa meno e così perde sia la memoria sulle responsabilità della guerra sia la percezione della minaccia. Nei primi mesi dopo l’invasione, tutti seguivano giornalmente gli avvenimenti. Ora gli italiani informati sulla guerra sono meno del 40%. La minaccia è però tutt’altro che passata. Il leader del Cremlino continua a lanciare messaggi ostili alla Ue, in particolare alla Finlandia e ai Paesi Baltici. Il ministro della Difesa tedesco ha dichiarato lo scorso 18 dicembre che non si può escludere uno scontro diretto fra Ue e Russia entro la fine del decennio.
Per capire perché, esattamente, Putin rappresenta un pericolo occorre tenere bene a mente qual è la natura del regime da lui instaurato. L’ultimo rapporto di Freedom House (una delle dieci più affidabili istituzioni di valutazione politica occidentali, secondo l’Università di Oxford) fornisce a questo proposito indicazioni inquietanti. Nei territori occupati continua la sequenza di uccisioni di civili, violenze sessuali, saccheggi da parte dei militari russi. I prigionieri sono trattati in modo disumano, in violazione di tutte le convenzioni internazionali. Un numero impressionante di residenti sono sottoposti a umilianti procedure di «filtraggio» per valutare la loro «affinità» con il regime russo. I non affini sono deportati, molti spariscono, le famiglie vengono separate. Il tutto, ricordiamo, per «denazificare» l’Ucraina.
Dopo l’invasione, Putin ha introdotto una vera e propria ondata di leggi repressive che hanno definitivamente soffocato i pochi barlumi di libertà e democrazia rimasti in Russia. In tutto il Paese vige di fatto la legge marziale. I media e le ong non «organiche» sono state chiuse, migliaia di dissidenti (o persone comuni accusate di esserlo) imprigionati, ogni manifestazione di critica è diventata reato. «La violenza di Stato priva di ogni limite è oggi la caratteristica distintiva del regime russo», sostiene Freedom House. Ricordiamo peraltro che, quando parliamo di Russia, possiamo riferirci soltanto a Putin e a una ristretta cerchia di politici e militari che assistono il presidente nel prendere ogni decisione. Il popolo ucraino sta in realtà combattendo contro un manipolo di despoti, che hanno un seguito solo nella misura in cui fanno valere le loro smisurate risorse di coercizione.
Come possiamo assuefarci a tutto questo? Settant’anni e più di pace, democrazia e welfare hanno fatto perdere ai cittadini Ue la consapevolezza che alla base della politica c’è sempre la minaccia della violenza. Come diceva Norberto Bobbio, la pace tiene a bada il massimo dei mali (la morte violenta, appunto) ma non persegue il massimo dei beni. Innanzitutto perché i valori sono tanti e non tutti compatibili fra loro. In secondo luogo, perché quando qualcuno perpetra violenza gratuita (come in una guerra di aggressione) è lecito difendersi, e non lo si può fare solo con i «paternostri». Certo, occorre favorire il negoziato, cercare il compromesso, il quale implica sempre cessioni reciproche fra le parti. In situazioni di guerra, il realismo impone a volte di accettare anche cessioni asimmetriche (la giustizia del più forte) pur di minimizzare il massimo dei mali. Ma anche le scelte basate sul calcolo delle conseguenze, ispirate dall’etica della responsabilità, hanno le loro linee rosse: condizioni su cui non si può transigere.
Questo è ben chiaro alla stragrande maggioranza degli ucraini, che non sono disposti a rinunciare all’autodeterminazione e alla propria sovranità. Due anni fa sembravano obiettivi condivisi anche in Europa. Oggi la posta in gioco è ancora più alta: riguarda il confronto a tutto campo tra regimi democratici e autoritari. L’asse fra Russia e Cina si sta infatti allargando alla Corea del Nord e all’Iran che riforniscono Putin di armamenti. Da che parte stanno i cittadini dell’Unione europea, che fra qualche mese avranno il privilegio di esprimere liberamente un voto per il proprio Parlamento democratico?
Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera del 6 gennaio ed è qui riprodotto previo consenso dell’autore. |