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Un recente studio dell’OCSE dal titolo “How’s Life?” – elaborato nell’ambito dell’iniziativa “Better Life”, in occasione del 50esimo anniversario dell’istituzione – mette in luce i fattori che più influenzano oggi il benessere degli individui, e in particolare: stato di salute; reddito e ricchezza; abitazione; professione; equilibrio tra vita e lavoro; educazione; relazioni sociali; impegno civico; qualità dell’ambiente; sicurezza personale; percezione soggettiva del benessere. I risultati ci dicono che, in termini generali, lo stato di benessere della popolazione nell’area OCSE è migliorato nel corso degli ultimi quindici anni sotto tutti i profili presi in considerazione. Tuttavia, emergono con chiarezza anche trend preoccupanti per quanto riguarda la forbice delle disuguaglianze, che si va ampliando. Gli individui con livelli di istruzione bassi, privi delle skills richieste da un mercato del lavoro sempre più competitivo, faticano a perseguire condizioni di benessere: sono qui in azione processi cumulativi di progressiva esclusione sociale che impediscono a queste persone, alle loro famiglie e, soprattutto ai loro figli, di godere di condizioni di benessere riferibili alla globalità dei fattori considerati.

Tra gli indicatori più interessanti, in particolare per il caso italiano, si conferma il tema dell’equilibrio tra vita e lavoro, che condiziona in modo decisivo la possibilità degli individui di raggiungere livelli elevati di benessere. In primo luogo, il fattore “work-life balance” rileva rispetto agli squilibri demografici che si stanno verificando nei paesi lontani dai tassi di ricambio: se il trade-off tra la cura dei figli e la garanzia di un reddito adeguato rimane marcato, troppe coppie saranno spinte verso la sindrome del “bambino negato” (si desiderano mediamente due figli ma ci si ferma ad uno). In secondo luogo, la ricerca di un difficile equilibrio tra vita e lavoro produce ancora troppo spesso effetti negativi sull’occupazione femminile. Da molti anni l’OCSE e l’Unione Europea sottolineano i vantaggi di competitività che derivano da una forte presenza femminile nel mercato del lavoro. L’occupazione femminile ha però altri cruciali risvolti. Oltre a quelli più ovvi, legati al tema della lotta alla disuguaglianza di genere, non si deve dimenticare quello della povertà infantile: i figli di una coppia in cui entrambe i genitori lavorano hanno probabilità tre volte inferiori di essere al di sotto della soglia di povertà, rispetto a quelli in cui uno soltanto dei genitori è occupato. Il tema della povertà infantile è tornato negli ultimi decenni in primissimo piano in tutta l’area OCSE: tra il 1995 e il 2005, l’indice di povertà infantile (cioè la percentuale di bambini che vivono in famiglie con reddito equivalente inferiore al 50 per cento della mediana nazionale) è aumentato in 17 dei 24 paesi dell’area, ed in molti di questi le percentuali si attestano su valori superiori al 10%. L’Italia, da questo punto di vista, non si trova in una buona posizione.

 

Indice di povertà infantile: percentuale di bambini che vivono in famiglie con reddito equivalente inferiore al 50 per cento della mediana nazionale
[Fonte OCSE, “Doing Better for Families”, 2011]

 

 

Rapporto tra tasso di occupazione femminile e tasso di fertilità nell’area OCSE, 2009
[Fonte OCSE “Doing Better for Families”, 2011]

 

L’OCSE sottolinea alcuni aspetti critici del caso italiano, ed in particolare la circostanza che il 49% delle madri di figli che frequentano la scuola ha un lavoro retribuito, contro il 66% della media OCSE. Questo è chiaramente un segno delle difficoltà di conciliazione incontrate dalle donne italiane che hanno dei figli. Nei tre fondamentali indicatori dell’equilibrio familiare e cioè occupazione femminile, tassi di fertilità e povertà infantile, il punteggio dell’Italia risulta altamente insoddisfacente. Si pensi soltanto al fatto che il 24% delle donne italiane nate nel 1965 non hanno avuto figli, contro solamente il 10% di quelle francesi. Il quadro è compromesso anche da altri fattori che incidono fortemente sul work-life balance:
• il congedo parentale è scarsamente remunerato (30% della retribuzione);
• i servizi pubblici per la prima infanzia nella maggior parte delle regioni sono lontani dai target di Barcellona (33% di copertura per la fascia 0-3 anni);
• la flessibilità dell’orario di lavoro non è ancora abbastanza diffusa nella cultura aziendale: meno del 50% delle imprese con più di 10 dipendenti offre orari flessibili ed il 60% dei dipendenti non ha alcun margine di flessibilità sulla distribuzione delle ore nell’arco della giornata.

L’indicazione dell’OCSE, per garantire un maggiore equilibrio tra vita e lavoro in Italia, riguarda tanto il potenziamento della spesa per le politiche familiari (che oggi si attesta intorno all’1,4%, rispetto ad una media OCSE del 2,23% del PIL), quanto la diffusione di una adeguata cultura conciliativa nella contrattazione di secondo livello. Curiosando nella classifica scopriamo, senza troppo stupore, che al primo posto si posiziona un paese scandinavo, la Danimarca. Qui, il 78% delle donne con figli che vanno a scuola lavora, segno che le madri danesi riescono davvero a conciliare attività professionale e cura dei propri bambini. Il punteggio elevato della Danimarca nel work-life balance è confermato dal fatto che i danesi lavorano meno ore della media OCSE e sono in grado di dedicare più tempo alle attività familiari e sociali. Questo quadro dimostra che, quando in un sistema economico post-industriale avanzato come quello danese si consolida la cultura conciliativa, le ricadute sulla qualità della vita dei lavoratori e dei loro figli non vanno a discapito della produttività ma, con tutta probabilità, la alimentano. Del resto l’OCSE sottolinea le ricadute positive del work-life balance sulla salute psicofisica degli individui.

Al terz’ultimo posto, prima di Messico e Turchia, si posiziona un paese economicamente molto avanzato come il Giappone. Qui, l’organizzazione del lavoro nelle aziende, i costi per la casa e per i servizi di cura – ma anche il complesso delle norme sociali sulla famiglia che condizionano ancora in modo rilevante il ruolo femminile all’interno della società nipponica – pongono ai giovani giapponesi significativi problemi di conciliazione tra vita e lavoro. La maggior parte di loro sceglie comunque la carriera, posticipando il matrimonio e la filiazione. La fertilità del paese si conferma anche negli ultimi anni tra le più basse dell’area OCSE. Inoltre, la percentuale di lavoratori giapponesi che trascorre un numero elevato di ore al lavoro è la più alta nell’OCSE dopo la Turchia (31,37%). L’organizzazione del lavoro in Giappone impedisce quindi adeguati sistemi di conciliazione, e molte donne giapponesi, come quelle italiane, risolvono i dilemmi conciliativi della maternità abbandonando il posto di lavoro. Queste scelte, che spesso sono determinate dalle circostanze, e non derivano da un effettivo desiderio di “domesticità”, hanno ricadute importanti e negative sul benessere delle donne, degli uomini e dei bambini, come chiaramente sottolineato dall’OCSE in questo studio.

 

Riferimenti

Il sito dello studio “Work-Life Balance”

Sintesi in italiano del rapporto OCSE “Doing Better for Families”

Il profilo dell’Italia nello studio OCSE “How’s life”

Il profilo della Danimarca nello studio OCSE “How’s life”

Il profilo del Giappone nello studio OCSE “How’s life”

L’articolo di Maurizio Ferrera “Se il Fattore D resta un accessorio”

Cnel, Atti del convegno "Stati generali sul lavoro delle donne in Italia"
 

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