Come può un Paese ricco chiudersi a riccio di fronte al dramma dei profughi? C’è qualcosa di marcio nello Stato di Danimarca, diceva Marcello nell’Amleto di Shakespeare. Ma c’è una spiegazione più prosaica: la presenza di un agguerrito partito xenofobo in parlamento.
L’attuale premier conservatore Rasmussen guida un monocolore di minoranza e non può ignorare il peso di questa formazione (più del 20%), di marca neo-populista. I leader politici di qualità sanno naturalmente rimodellare gli orientamenti delle loro opinioni pubbliche. Evidentemente questo non è il caso delle élites danesi. La Danimarca ha uno dei sistemi di welfare più generosi del mondo, emblema di solidarietà universalistica e pari opportunità.
Ma ha anche qualche scheletro nell’armadio. Nel boom del dopoguerra, questo Paese aveva bisogno di manodopera, ma si guardò bene di aprire le porte agli immigrati (la via tedesca). Il problema fu risolto spingendo le donne nel mercato del lavoro e sviluppando un welfare basato sui servizi alle famiglie che fosse funzionale a questa soluzione. L’altra faccia del solidarismo interno è stata insomma la chiusura verso l’esterno.
L’economia danese è piccola e competitiva, ha bisogno di libertà di commercio. Il problema è che non si può avere insieme questo mondo (l’apertura economica che porta vantaggi) e quell’altro (la chiusura delle frontiere per non avere fastidi). I Paesi scandinavi sono diventati membri di un più ampio spazio europeo che consente la libera circolazione in entrambi i sensi: uscite ed entrate. Nell’impero romano i rapporti fra le province erano disciplinati dallo ius hospitii , il diritto di ospitalità reciproca. Alla fine della tragedia shakespeariana, Amleto confessa: preferirei essere romano piuttosto che danese. Ci riflettano oggi i suoi conterranei.
*Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera dell’11 settembre 2015