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Il 25 marzo si è aperto l’ultimo click day del decreto flussi, lo strumento con cui il Governo italiano pianifica gli ingressi di immigrati nel Paese per motivi di lavoro. Per tutta la giornata, le imprese hanno fatto domanda per far entrare in Italia lavoratori da Paesi extra UE: sommando tutti i click day del 2024, sono arrivate quasi 700.000 richieste, a fronte di 151.000 posti disponibili. Pochi rispetto alla domanda, ma comunque in aumento rispetto agli ultimi anni.

L’apertura ai flussi migratori è talvolta vista come soluzione al calo demografico, un problema enorme in Italia che impatta anche sulla sostenibilità del welfare. Ma aumentare gli ingressi regolari di persone straniere contrasta davvero la denatalità? E come stiamo gestendo il fenomeno in Italia?

Secondo Welfare ne ha parlato con Livia Ortensi, responsabile statistica della Fondazione Iniziative e Studi sulla Multietnicità (ISMU) e Ferruccio Pastore, autore del libro “Migramorfosi. Apertura o declino” e direttore di FIERI, associazione torinese che fa ricerca sui fenomeni migratori.

Le migrazioni in Italia: il contesto storico

Secondo gli ultimi dati ISMU aggiornati a inizio 2023, in Italia ci sono 5.775.000 stranieri, in leggero calo rispetto all’anno precedente. Di questi, tre quarti vengono da Paesi extra UE. Nel numero complessivo, ISMU comprende anche una stima delle persone irregolarmente presenti sul territorio italiano, che sarebbero l’8% del totale (458.000 persone), in diminuzione grazie all’avanzare delle ultime sanatorie. Negli ultimi 10 anni, il numero di stranieri presenti in Italia è rimasto sostanzialmente stabile, ma non è sempre stato così.

Il lavoro migrante è insostenibile?

L’Italia è diventata un Paese di immigrazione straniera senza averlo previsto, senza calcolo e programmazione e senza nemmeno accorgersene spiega Pastore in riferimento ai grandi flussi in ingresso tra gli anni ‘80 e i primi anni ‘2000. Questi arrivi derivavano sia da dinamiche di mercato, come la precarizzazione di lavori sempre meno appetibili per gli italiani, e sia da fattori esterni, come la chiusura di altri sbocchi migratori tradizionali, per esempio la Francia ai marocchini.

Lungo gli anni Ottanta, Novanta e Duemila, spiega Pastore, non c’è stato un ragionamento politico sulle implicazioni demografiche delle migrazioni, solamente nei decenni più recenti si è cercato di dare risposta alla domanda di lavoratori e lavoratrici di cura per il crescente numero di anziani.

Quale impatto sulla natalità?

Mentre la prima ondata di migrazioni in Italia era in maggioranza maschile, dal 2000 sono arrivate soprattutto donne, in parte per ricongiungimento familiare, in parte per nuovi flussi da aree con migrazioni tipicamente femminili, come l’Est Europa, il Sud America o le Filippine.

Livia Ortensi - Foto: ismu.org
Livia Ortensi 

L’arrivo delle donne ha fatto emergere il fenomeno dei nati di cittadinanza straniera spiega Livia Ortensi di ISMU. “Intorno al 2007, c’è stato un piccolo baby boom da parte delle persone straniere, dovuto a una questione storica di flussi che sono arrivati tutti insieme e nascite concentrate a seguito di un grande numero di ricongiungimenti e di formazione di nuove famiglie”.

La migrazione ha così giocato un ruolo importante nel rallentare l’inverno demografico italiano, e in parte lo gioca ancora: i 393.000 nati in Italia nel 2022, riporta ISMU, sono il 27% in meno rispetto al 2002, ma sono il prodotto di un aumento del 56% dei nati stranieri e una diminuzione del 33% di nati italiani. Tuttavia, questo impatto va gradualmente attenuandosi nel tempo, con il tasso di natalità (il numero medio di figli per donna) della popolazione straniera che si avvicina un po’ alla volta a quello degli italiani. Un fenomeno riscontrato anche da studi nel resto d’Europa.

“Gli italiani fanno in media 1,2 figli per donna, gli stranieri 1,9. Ma siccome per rimpiazzare una generazione il numero medio di figli per donna deve essere 2,1 gli stranieri di fatto non sono in grado di rimpiazzare nemmeno loro stessi dal punto di vista demografico spiega ancora Ortensi. In sintesi: è vero che, per una serie di ragioni, gli stranieri fanno più figli degli italiani, ma non questo non basta a risolvere i problemi di natalità italiani. Si limita a mitigarli.

Politiche per i giovani e immigrazione: il Portogallo prova a gestire la crisi demografica

“Le migrazioni possono e devono dare un contributo, essere un ingrediente in una strategia di contrasto all’invecchiamento e di mantenimento di una sostenibilità demo economica, cioè una congruenza tra assetto della popolazione e assetto produttivo” aggiunge Pastore di FIERI. Ma per contrastare davvero l’inverno demografico, continua, servirebbe combinare l’apertura alle migrazioni, che porta benefici sulla demografia più immediati, con delle politiche per la natalità, i cui effetti sono visibili sul lungo periodo.

Nel caso dell’Italia, secondo Pastore, sarebbe inoltre utile investire nel contrasto all’inattività dei tanti giovani e donne stranieri già presenti, un capitale umano ora poco attivo ma con un alto potenziale produttivo.

Gestire la migrazione: il decreto flussi funziona?

Riconosciuto che i flussi migratori hanno un ruolo nel mitigare la denatalità dell’Italia, come li stiamo gestendo? Per gli ingressi per lavoro, in Italia vige dal 1998 il modello del cosiddetto “decreto flussi”, che pianifica su base triennale delle quote di ingresso di lavoratori stranieri (con flessibilità, perché le quote possono subire integrazioni). Nato come un “modello proattivo di politica migratoria”, questo sistema, secondo Pastore, si è rivelato un “capolavoro di disfunzionalità”. Vediamo perché.

Ferruccio Pastore
Ferruccio Pastore

Come funziona? Ci sono alcune giornate, per facilità indicate come click day, in cui le imprese o le famiglie possono fare richiesta di un nulla osta per l’assunzione di lavoratori di Paesi extra UE su un portale ministeriale. Le richieste sono sempre più dei posti disponibili (nel 2024, sono state oltre il quadruplo) e l’ordine con cui sono valutate dipende dall’ora a cui sono presentate, cioè da chi clicca prima. Anche se formalmente è possibile presentare richieste fino a fine anno, le quote disponibili si esauriscono nei primi minuti di ogni click day, che sono divisi per tipologia di lavoro (stagionale, non stagionale, assistenza familiare).

Una volta inviate le richieste, parte una serie di verifiche che, se vanno a buon fine, danno alla persona straniera il nulla osta. Con questo documento, il lavoratore può ottenere nel suo Paese di origine il visto, quindi entrare in Italia per firmare il contratto di lavoro e, quindi, poter chiedere il permesso di soggiorno in Questura.

Un percorso così articolato ha tempi molto lunghi che mal si conciliano con il mercato del lavoro, soprattutto stagionale, e genera dinamiche di irregolarità. C’è un livello di inefficienza della procedura pazzescospiega Pastore – e ogni volta che c’è inefficienza si crea un margine per gli attori illegali”. Molti datori di lavoro fasulli estorcono infatti soldi alla persona straniera per fare la richiesta di nulla osta a suo nome, senza poi mandare avanti la procedura e i successivi controlli.

C’è inoltre un’enorme ipocrisia di fondo: il decreto flussi si basa sull’idea di reclutamento dall’estero, ma spesso è un modo di regolarizzare chi è già in Italia. Non c’è infatti una vera piattaforma di contatto tra le piccole imprese italiane e i lavoratori stranieri, che di solito entrano in contatto con il datore perché già presenti in Italia, irregolarmente o con altri permessi. Questo aggiunge complicazioni: per ottenere il visto, il lavoratore straniero dovrebbe tornare nel suo paese di origine e poi rientrare in Italia, con costi non sempre sostenibili e ulteriore spreco di tempo.

“Costringiamo le persone a far finta di entrare e di uscire dall’Italia, per far credere di essere state reclutate dall’estero” aggiunge Livia Ortensi di ISMU. “È una gestione fatta sapendo di creare distorsioni infinite”. Distorsioni che, secondo la ricercatrice, sono dovute al “non riconoscersi o non volersi riconoscere come un Paese di immigrazione”.

Che fine ha fatto l’accoglienza diffusa

Tutte queste inefficienze si riflettono nei pochi contratti di lavoro (e quindi permessi di soggiorno) prodotti dal decreto flussi: nel 2023, come denunciato dal nuovo rapporto della campagna Ero Straniero, le domande di ingresso per lavoro sono state oltre 6 volte le quote stabilite, e meno di una quota su quattro (23.52%) si è convertita in un contratto di lavoro e permesso di soggiorno. Nel 2022, il tasso di conversione era stato maggiore (35,32%), ma rispetto a un minor numero di quote.

“Ancora una volta – si legge nel rapporto – emerge chiaramente che solo una parte di lavoratrici e lavoratori che entrano in Italia con il decreto flussi riesce a stabilizzare la propria posizione lavorativa e giuridica, ottenendo lavoro e documenti. Il resto delle persone è destinato a scivolare in una condizione di irregolarità e quindi di estrema ricattabilità e precarietà.”

Come si migliora?

Se è vero che il sistema del decreto flussi presenta molte fragilità e distorsioni, come potrebbe essere superato? La pianificazione dei flussi migratori è un tema complesso e non c’è una risposta facile.

Una possibile è l’introduzione dei visti d’ingresso per ricerca lavoro. Il Portogallo, che ha una situazione demografica simile a quella italiana, ha abolito le quote d’ingresso e introdotto questo tipo di visti nel 2022. L’Italia aveva fatto una piccola sperimentazione in questo senso a fine anni ‘90 con il sistema dello “sponsor”, che dava al cittadino extra UE un visto di ricerca di lavoro di un anno, a patto di avere uno sponsor italiano (un cittadino, uno straniero regolarmente presente, un’associazione o un Comune) che offrisse per lui una serie di garanzie.

Secondo Pastore, il tentativo era promettente ma è stato troppo limitato per trarre conclusioni: lo sponsor venne abolito nel 2002 dalla Bossi-Fini1, dopo appena 4 anni di esistenza. Oggi, è una delle proposte che le associazioni della Campagna Ero Straniero chiedono come alternativa al decreto flussi.

L’accoglienza dei profughi ucraini e il secondo welfare, un anno dopo

Altra politica di gestione delle migrazioni per lavoro sono le Talent Partnership europee. Si tratta di un programma di accordi tra l’UE e alcuni Stati terzi, in particolare del Nord Africa, per formare del personale qualificato nei Paese extra UE e mandare poi una parte di quei lavoratori in Europa attraverso canali legali.

L’idea è che questo investimento comune nella costruzione di un capitale umano transnazionale sia dual use, cioè utile sia per il mercato locale sia per la migrazione” spiega Pastore. “Questa è un’idea sulla carta molto sensata, nella pratica è ancora una sperimentazione”continua. Il programma è stato infatti lanciato nel 2021 e ha ancora numeri bassi: l’Italia per esempio, ha stretto accordi per formare 2.000 lavoratori edili in Tunisia e 500 lavoratori nel settore della meccatronica in Marocco.

Guardando all’estero, un esempio d’interesse per Pastore è la Western Balkans Regulation tedesca, una legge che permette ai cittadini dei Paesi dei Balcani Occidentali di convertire un’offerta di lavoro in Germania in un permesso di soggiorno. Questo regolamento è stato introdotto a fine 2015 come risposta alla pressione migratoria dalla rotta balcanica, in particolare dei siriani, per ridurre il numero di richiedenti asilo aumentando quello dei lavoratori stranieri.

In generale, spiega Pastore “in Germania le politiche migratorie sono considerate un’infrastruttura vitale per l’interesse nazionale di Paesi sviluppati e demograficamente declinanti. Questa idea semplice, abbastanza banale e ovvia, in Italia non c’è”.

O, se c’è, viene nascosta, o comunque non rivendicata, a livello di comunicazione politica: lo stesso governo Meloni, che sulla lotta alla immigrazione ha costruito tanto consenso elettorale, ha di fatto aumentato le quote di ingresso di lavoratori stranieri del decreto flussi.

Un’agenda concreta per agire (velocemente) sulla natalità italiana

L’aumento di quote non cambia tuttavia le inefficienze di un sistema che, come visto, offre risultati modesti e lascia spazio a molte irregolarità. Eppure, se il decreto flussi non è stato modificato in quasi 30 anni da nessun governo è realistico pensare che il trend non sarà invertito a breve.

Lo stesso vale per la sfida demografica. Una maggior apertura ai flussi di lavoratori stranieri potrebbe portare alla creazione di nuove famiglie, come avvenuto nel primo decennio del 2000. Potrebbe, quindi, rallentare il declino. Ma per invertire la tendenza servono maggiori investimenti in politiche per la natalità efficaci, che vadano a beneficio sia di chi vive da sempre nel nostro Paese sia di chi ci è appena arrivato.

 

 

Note

  1. La Bossi-Fini è una legge del 2002 del governo Berlusconi, ricordata con il nome dei suoi primi due firmatari, Umberto Bossi e Gianfranco Fini. Ha introdotto misure più restrittive per l’ingresso e la permanenza di persone straniere in Italia, tra cui il vincolo del permesso di soggiorno alla stipula di un contratto di lavoro.
Foto di copertina: John Rodenn Castillo - Unsplash