“É stato così bello e intenso che ho staccato totalmente”, dice Edoardo Cavalcabò del periodo che ha trascorso lontano dal lavoro dopo la nascita di suo figlio.
Già prima che arrivasse il piccolo, Cavalcabò aveva deciso di usufruire del congedo che Nestlé, l’azienda per cui lavora, mette a disposizione dei neo-papà in aggiunta ai dieci giorni previsti dalla legge. “All’inizio credevo che uno o due mesi sarebbero stati sufficienti e che sarebbe stato difficile restare a lungo lontano dal lavoro. Anche mia moglie era d’accordo, anche per non penalizzare la mia carriera”, ricorda oggi.
E, invece, alla fine, è rimasto a casa per 12 settimane, tutte quelle disponibili.
Cavalcabò, Head of corporate communications & public affairs di Nestlé Italia, parla con entusiasmo e tenerezza di quei tre mesi – fra aprile e giugno 2024 – trascorsi accanto alla moglie Claudia e al piccolo Gianfilippo. Un periodo intenso che, racconta, ha permesso alla giovane famiglia di vivere con maggiore serenità la costruzione di nuovi equilibri.
#ConciliazioneUnicornoQuesto articolo è parte della serie di Secondo Welfare sulla conciliazione vita-lavoro, che sempre più spesso, soprattutto per alcune categorie di persone, appare inafferrabile, rara, quasi mitologica. Neanche fosse un unicorno. |
“Il primo mese è stato il crollo totale: anche se mio figlio è stato molto bravo, è stato faticoso. Io mi sono dedicato molto a mia moglie, poi ho iniziato a essere maggiormente coinvolto. Stiamo vivendo ancora oggi una genitorialità molto positiva, anche per merito di quei primi tre mesi”, continua.
Aziende grandi e virtuose
La “Nestlé baby leave” è stata istituita dalla multinazionale a marzo 2022 e prevede un congedo di 12 settimane retribuito al 100% per i papà lavoratori (o il secondo caregiver in caso di coppie omogenitoriali) in occasione della nascita di un figlio o dell’adozione di un minore. Il congedo deve essere usufruito in un’unica soluzione entro i 6 mesi di vita del bambino. L’iniziativa ha riscosso fin da subito un grande successo tra i dipendenti: appena un anno dopo, il 78% dei neo-papà l’aveva scelto.
“Gli ultimi dati ci dicono che la percentuale è salita ancora, al 95%. Parallelamente si è allungato anche il periodo di congedo, passato da una media di 30 giorni il primo anno agli attuali 52”, aggiunge Giacomo Piantoni, HR director di Nestlé Italia. L’obiettivo principale di questa iniziativa, continua, è “scardinare lo stereotipo che vede ricadere sulle spalle delle madri tutto il tema della genitorialità. Una condizione che impatta sulle opportunità delle donne di accedere al mondo del lavoro”.
Quello di Nestlé non è un caso isolato. Quantomeno tra le grandi imprese. Tra le aziende che hanno esteso in maniera significativa il congedo di paternità ci sono ad esempio Barilla, che riconosce fino a 10 settimane e mezza, Novartis con 6 mesi retribuiti all’80%, mentre la multinazionale farmaceutica Haelon ha istituito la “Fully equal parental leave”: 26 settimane retribuite al 100% per tutti i neo-genitori. Realtà come Enel, Carrefour, Avenade, Coop e Danone hanno invece aggiunto dai 10 ai 30 giorni di congedo retribuito in più rispetto a quanto previsto per legge.
“Fare il papà”, un’esperienza per pochi
Le storie che abbiamo raccontato in #ConciliazioneUnicorno mettono in evidenza come il bilanciamento tra il lavoro fuori dalle mura di casa e il lavoro domestico di cura sia ancora un tema che riguarda quasi esclusivamente la componente femminile.
Lo aveva spiegato chiaramente Linda Laura Sabbadini, statistica ed esperta delle politiche di genere, nella prima puntata delle nostra serie: sono le donne a pagare il prezzo più alto di un doppio svantaggio legato, da un lato, all’assenza di politiche di congedi parentali e servizi di cura adeguati (su tutti, gli asili nido) e, dall’altro, allo sbilanciamento dei carichi del lavoro di cura all’interno del nucleo familiare.
Ma quali strumenti ha a disposizione un lavoratore che, dopo la nascita di un figlio, decidesse di essere più coinvolto nella vita familiare? Pochi, purtroppo. E poco efficaci in un’ottica di conciliazione. Il congedo di paternità obbligatorio, ad esempio, è previsto per i soli lavoratori dipendenti. Quando è stato istituito, per gli anni 2013-2015 in maniera sperimentale aveva una durata di appena un giorno, che è stata progressivamente aumentata fino a raggiungere, nel 2021, i 10 giorni tutt’ora in vigore.
“L’estensione è stata prevista dal recepimento della direttiva dell’Unione europea sulla conciliazione vita-lavoro. Purtroppo l’Italia ha fatto solo il minimo richiesto mentre altri Paesi hanno colto l’occasione per fare un notevole balzo in avanti”, sottolinea Maddalena Cannito, ricercatrice presso il dipartimento di Sociologia e ricerca sociale dell’Università di Torino. Il caso più eclatante, probabilmente, è quello spagnolo: nel 2021 il governo di Madrid ha portato da 12 a 16 le settimane di congedo obbligatorio per i padri.
Nonostante il congedo di paternità italiano sia molto distante da quello spagnolo, in questi anni la percentuale di chi ha scelto di utilizzarlo è cresciuta in maniera significativa: dal 19% degli aventi diritto nel 2013 al 64% del 2023.
Numeri che fotografano un trend positivo, ma che fanno anche sorgere una domanda: se stiamo parlando di un congedo obbligatorio (almeno sulla carta) come quello di maternità, perché la percentuale di chi ne usufruisce non è del 100%? “La legge non obbliga i lavoratori a usufruirne”, risponde Cannito ricordando che la normativa prevede solo una sanzione amministrativa per i datori di lavoro che rifiutano ai loro dipendenti di prendere i 10 giorni cui hanno diritto quando diventano padri. Per chi sceglie di continuare a lavorare, senza far richiesta del congedo, non ci sono sanzioni. “Nel mondo del lavoro ci sono alcuni diritti obbligatori, come quello alle ferie. Le aziende sono sanzionate se i lavoratori non le esauriscono entro un determinato periodo di tempo. Questo anche per evitare forme di sfruttamento o auto-sfruttamento. Ma per il congedo di paternità, questo non è stato previsto”, continua la ricercatrice.
Il XXII rapporto annuale Inps, riferito all’anno 2022, ha dedicato un ampio approfondimento all’utilizzo del congedo di paternità. A fruirne sono soprattutto i neo-padri che lavorano in aziende di dimensioni medio-grandi, dove il tasso di utilizzo è del 77% tra gli aventi diritto e si scende progressivamente fino al 45% nelle realtà con 15 dipendenti o ancora più piccole.
Anche il reddito influisce sulla fruizione: “ad avere un tasso di utilizzo del congedo più alto sono i padri con un reddito compreso tra 28mila e 50mila euro”, si legge nel rapporto. La quota, invece, diminuisce tra chi ha un livello di reddito annuo superiore ai 50.000 e, ancora di più, tra chi non arriva ai 15.000 euro. Nel primo caso, l’instituto scrive che “ciò potrebbe dipendere dalle maggiori responsabilità associate ai lavori che offrono tali livelli di reddito, che potrebbero indurre i padri a fare meno ricorso al congedo”. Nel secondo, invece, l’Inps non ne ha ancora comprese le cause.
Un congedo che non conviene
Anche Michele Cascio è un giovane padre che ha deciso di prendersi un congedo parentale di 3 mesi per stare accanto al suo secondo figlio, che oggi ha un anno: “sentivo fortemente la voglia di farlo, per stare accanto ai miei figli. Dopo aver concluso la maternità, mia moglie si è presa altri 3 mesi di congedo. Poi, quando lei è rientrata al lavoro, io ho iniziato il mio”, racconta.
Cascio ha raccontato la propria esperienza sui social network attraverso il suo profilo Instagram, ma soprattutto su quello di TikTok @ilsabbatico. Nei suoi video ha condensato le gioie e le fatiche della sua esperienza di genitore full time impegnato nella gestione di un bambino di cinque anni e di un neonato di pochi mesi: “Ho potuto vivere una dimensione familiare molto bella, fatta anche di piccole cose. Ma ho anche capito che stare in congedo non significa semplicemente cambiare pannolini: si tratta di fare management della vita familiare a tempo pieno. Per me una cosa completamente nuova”, racconta.
Il neo-papà non ha avuto particolari problemi ad avere il via libera dalla sua azienda, ma non ha potuto beneficiare di un’integrazione dello stipendio: per i tre mesi in cui non è andato in ufficio, Cascio ha ricevuto un’indennità pari al 30% dello stipendio, come previsto dalla normativa al momento in cui ha preso il congedo. Una decurtazione che non tutte le famiglie sono in grado di sostenere.
E così, quando arriva il momento di fare i conti per valutare anche la sostenibilità economica di un congedo sono soprattutto le donne – che mediamente ricevono stipendi più bassi rispetto ai loro mariti e compagni – a usufruirne per non compromettere eccessivamente i bilanci familiari. Lo dimostrano in maniera molto netta i dati dell’ultimo rapporto annuale Inps: nel 2023 le madri che hanno chiesto il congedo parentale sono state 264.184 (per un totale di 14.458.618 ore) mentre i padri sono stati 96.586 (per un totale di 2.176.823 ore).
La buona notizia è che la legge di Bilancio 2023 ha portato a due i mesi in cui la quota indennizzata è pari all’80% dello stipendio e questo ha portato a un leggero aumento dei padri che hanno usufruito del congedo parentale: la quota maschile è passata dal 3,29% dell’ultimo trimestre 2022 al 4,11% dei primi tre mesi del 2023. Pochi mesi fa, la legge di Bilancio 2025 ha aggiunto un ulteriore mese all’80%.
Un aumento importante, ma non sufficiente per cambiare rotta. Lo sostiene Maddalena Cannito nel suo saggio “Fare spazio alla paternità. Essere padri in Italia tra nuovi modelli di welfare, lavoro e maschilità” (Il Mulino). Cannito scrive che, oggi, in Italia, il congedo di paternità e il congedo parentale, per come sono strutturati, “non spingono verso un effettivo coinvolgimento del padre nella condivisione del lavoro di cura domestico”.
Inoltre, a suo avviso, il motivo principale per cui gli uomini non utilizzano questi strumenti è ancora legato a fattori culturali. “Siamo ancora immersi in un modello culturale in cui il ‘bene del bambino’ viene identificato con le cure in famiglia. Da parte della madre, ovviamente. E solo quando non ci sono nonne o sorelle su cui fare affidamento, in estrema ratio, c’è il padre”, riflette Cannito.
Infine, bisogna fare i conti con la scarsa informazione degli uomini in materia. Il 24% degli intervistati da Swg per una ricerca commissionata da “Osservatorio D” ha dichiarato di non sapere dell’esistenza di un congedo di paternità obbligatorio. Una percentuale che sale al 29% tra le persone che vivono al Sud e al 31% tra chi dichiara difficoltà economiche.
Storie che sfidano gli stereotipi
In tal senso, quando Michele Cascio ha deciso di creare il profilo @ilsabbatico lo ha fatto anche con l’obiettivo di portare un piccolo cambiamento culturale e far conoscere l’esperienza del congedo parentale: “In diversi padri mi hanno scritto di averlo preso dopo aver visto i miei reel”, racconta.
Nei video in cui racconta la sua quotidianità, Cascio smonta diversi stereotipi sulla vita di un genitore a tempo pieno impegnato nella gestione di due bambini piccoli.
A partire da quello che considera questo impegno come meno faticoso rispetto al “vero” lavoro in fabbrica o in un ufficio. “Oggi – ha raccontato in uno dei suoi reel più efficaci – ho pranzato con una tazza di tè freddo e una merendina. E mi sono sentito in colpa perché la merendina è del figlio grande”.
Non sono mancati nemmeno commenti pungenti, critiche e persino insulti. Cascio è andato a spulciare questi profili, scoprendo che molti sono stati scritti da uomini anche relativamente giovani, fra i 35 e i 40 anni, ancora convinti che la sua sia stata una scelta eccentrica e che avrebbe dovuto essere sua moglie a restare a casa con i figli.
Cascio ha dovuto dedicare tempo ed energia per spiegare i motivi della sua scelta anche nella vita reale. Se da un lato familiari e amici l’hanno accolta positivamente e in molti casi hanno mostrato curiosità “è stata dura far capire che non era una richiesta che veniva da mia moglie, ma era una mia iniziativa”.
Anche Edoardo Cavalcabò ha affrontato commenti ironici parlando della sua decisione con amici e conoscenti. “Ti dicono che stai andando a fare la bella vita. Ma quando è nato mio figlio, molti amici che erano già padri mi hanno fatto i complimenti per come ero in grado di gestirlo e di prendermene cura. Questo mi ha ripagato immensamente”, ricorda.
Cavalcabò ha riscontrato aspetti positivi anche in ambito lavorativo: “ho capito che cosa vuol dire empowerment. Ho lasciato tutto nelle mani delle persone che lavorano con me e quando sono tornato era tutto a posto. Ho visto il mio team in maniera diversa e per me è stato un elemento di ulteriore motivazione”, aggiunge.
Che la gestione di un congedo di poche settimane non impatti particolarmente sulla vita di un’azienda lo dimostrano anche gli esiti di un sondaggio realizzato dal centro studi Tortuga nell’ambito del rapporto Verso una genitorialità condivisa. L’analisi si è concentrata su 24 grandi aziende italiane che già hanno esteso i congedi di paternità ben oltre i 10 giorni previsti dalla legge. Il 63% delle imprese è riuscito a gestire le assenze senza costi aggiuntivi, riorganizzando il lavoro internamente e ottenendo in molti casi anche un miglioramento della produttività.
L’esperienza virtuosa di queste grandi aziende, tuttavia, è difficilmente replicabile nelle micro imprese e nelle Pmi che rappresentano rispettivamente il 95% e il 4,78% dei 4,4 milioni di aziende attive nel nostro Paese. Le storie delle lavoratrici che avevamo raccontato nel secondo episodio della nostra serie evidenziano come il problema sia soprattutto organizzativo e culturale. In una realtà artigianale o imprenditoriale con pochi dipendenti, un’assenza anche di poche settimane può essere difficile da gestire.
Cambiamenti in corso
Insomma, casi come quelli di Michele Cascio ed Edoardo Cavalcabò, in Italia, sono ancora rari, ma tra gli uomini (in particolare tra i più giovani) sta crescendo la consapevolezza che siano necessari maggiori strumenti per conciliare la vita lavorativa con quella familiare. A partire proprio dal congedo di paternità: fra gli intervistati da SWG, tre su cinque giudicano insufficienti i dieci giorni previsti dalla legge. Il 38% vorrebbe un congedo di almeno 1-3 mesi e il 24% di cinque mesi, al pari di quello di maternità.
E il cambiamento sembra essere avvenuto in un arco di tempo decisamente breve. Quando, nel 2013, venne istituito per legge il congedo di paternità obbligatorio di un solo giorno, Nestlé decise di portarlo a dieci: “l’adesione fu bassissima. Forse non avevamo comunicato bene l’iniziativa. O forse quella generazione non era ancora pronta per fare quel passo”, ricorda il responsabile risorse umane Piantoni.
Per quanto prezioso, il congedo di paternità non è uno strumento sufficiente a garantire l’equità dei carichi di cura in famiglia. Può rappresentare però un primo passo in questa direzione e, di conseguenza, dare un contributo a un miglliore equilibrio vita-lavoro sia per i singoli genitori sia per il nucleo famigliare nel suo complesso.
Anche in questo caso, dunque, l’unicorno della conciliazione non è semplice da trovare. Servono servizi pubblici, tempi flessibili e anche una buona capacità di adattamento.
La moglie di Cavalcabò, per esempio, è una libera professionista ed è tornata a lavorare part-time. «Per fortuna siamo riusciti a trovare un posto al nido», ragiona il dipendente di Nestlé. Come accade a un numero crescente di famiglie, Cavalcabò e sua moglie non hanno i nonni vicini o sempre disponibili e così tocca arrangiarsi.
«Oggi – racconta Cavalcabò – mia moglie ha avuto un’emergenza sul lavoro e tornerà molto tardi. Fortunatamente ho una flessibilità nella gestione degli orari che mi permette di gestire la vita familiare. Farò un paio di call mentre sono in macchina durante il viaggio verso casa».