3 ' di lettura
Salva pagina in PDF

Vent’anni fa un coraggioso giudice della Corte europea di giustizia, Francis Jacobs, affermò in una sentenza che la cittadinanza dell’Ue conferisce diritti inviolabili di non discriminazione. Quando valica una frontiera nazionale, chiunque possegga il passaporto color porpora può dire civis europeus sum e invocare il rispetto di questi diritti. La sentenza uscì appena dopo il Trattato di Maastricht (che istituiva, appunto, la cittadinanza Ue). Da allora nell’Unione sono entrati 16 nuovi Paesi e si sono firmati tre nuovi Trattati: Amsterdam, Nizza e Lisbona. Quest’ultimo ribadisce a chiare lettere i diritti di libera circolazione e non discriminazione. Ma la formula civis europeus sum sta rapidamente perdendo la propria efficacia. A essere sotto attacco è soprattutto l’accesso al welfare da parte dei non nazionali provenienti da altri Paesi membri. I governi di Berlino, Londra, Vienna e l’Aia hanno chiesto formalmente a Bruxelles di cambiare le norme vigenti per combattere il cosiddetto «turismo sociale»: gli spostamenti da un Paese all’altro in cerca dei sussidi più generosi. Dietro la richiesta si nasconde un malumore profondo, che riguarda il processo di integrazione in quanto tale. E che spinge a ristabilire i tradizionali confini, a «proteggere i diritti e gli interessi legittimi dei nativi»- come candidamente recita la lettera dei quattro governi. In tempi di crisi, malumori e paure in seno all’opinione pubblica sono comprensibili. Ma se i governi le cavalcano, cosa resterà dell’Europa? Se va bene, solo le fredde regole di «mutua sorveglianza» fiscale, neanche fossimo in una prigione. Se va male, potrebbe non restar nulla, i sogni e gli sforzi di tre generazioni andrebbero irrimediabilmente perduti. 

Tutti i dati e le ricerche disponibili indicano che non c’è nessun turismo sociale di massa. Vi è, certo, un discreto numero di cittadini Ue che risiedono in Paesi membri diversi dal proprio: la loro quota è di circa il 2%, con punte sopra il 3% in Irlanda, Belgio, Gran Bretagna, Austria e Germania. La crisi ha accresciuto un po’ i flussi da Sud a Nord e da Est a Ovest. Si tratta però di persone attratte da opportunità di lavoro, anche manuale. Se prendiamo come riferimento la popolazione residente con più di 15 anni, scopriamo che sette migranti Ue su dieci hanno un’occupazione, di contro a 5 o 6 nazionali. Se perde il lavoro, il migrante riceve il sussidio pubblico solo se ha pagato tasse e contributi, esattamente come i nazionali. I governi firmatari della lettera sostengono che l’obiettivo dei cosiddetti «turisti sociali» sono soprattutto le prestazioni di assistenza finanziate dal gettito fiscale, come il reddito minimo. La Commissione europea ha però calcolato che i migranti Ue sono meno del 5% del totale di beneficiari di queste prestazioni. In alcuni casi (quelli che fanno più notizia) ci sono frodi o abusi. Ma si tratta di fenomeni che si possono contrastare con piccoli accorgimenti legislativi e controlli più efficaci. Non vi è sicuramente bisogno di mettere sotto accusa i principi di parità di trattamento e di libera circolazione—i quali peraltro, sempre secondo lo studio della Commissione, fanno bene anche al Pil.

Che dire degli immigrati che provengono dai Paesi extra Ue? I barconi di Lampedusa hanno di nuovo acceso i riflettori su di loro. Dopo il cordoglio e la compassione, sono ricominciate a circolare accuse di «opportunismo sociale» ancor più pesanti rispetto a quelle rivolte ai migranti Ue. Anche nel caso degli extracomunitari e del loro accesso al welfare valgono però le stesse considerazioni relative ai migranti Ue. Un recente studio Ocse stima che nella maggioranza dei Paesi europei (Italia compresa) il saldo fra ciò che gli extracomunitari versano allo Stato e ciò che ricevono in termini di prestazioni e servizi è meno favorevole rispetto a quello dei nazionali. Il contributo dell’immigrazione al Prodotto interno lordo (Pil) è inoltre positivo: nessun «pasto gratis», dunque.

Comprendere questa realtà può essere controintuitivo. E capire non significa dover accettare tutti gli effetti che l’immigrazione da Paesi lontani e diversi produce sul piano sociale, culturale e dei costumi. Teniamo però presente che le dinamiche di globalizzazione riservano a noi europei un futuro di «mixité»: una di mescolanza fra popoli e culture che potremo temperare e regolare ma non evitare. Per questo è fondamentale che l’Ue resista oggi ai ripiegamenti nazionalistici che avvengono al proprio interno. La civiltà che ha inventato l’idea di cittadinanza non può fallire nel trasferirla ora dal livello nazionale a quello sovranazionale.

Sull’edificio che ospita il Consiglio dei ministri Ue, a Bruxelles, spicca la scritta latina Consilium. Aggiungere la formula civis europeus sum potrebbe finalmente dare un’anima e una missione simbolica a questa istituzione, che oggi parla solo con i governi e ha smarrito la capacità di comunicare con i sui più importanti interlocutori. I cittadini d’Europa, appunto.

 

Questo articolo è stato pubblicato anche sul Corriere della Sera del 28 ottobre 2013

 

Potrebbe interessarti anche: 

Quattro Paesi UE insieme per rifituare il welfare ai comunitari 

La Gran Bretagna verso un welfare meno inclusivo per gli stranieri

In Olanda calerà il sipario sul welfare state?

 

Torna all’inizio