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L’Unione Europea ha capito l’importanza del welfare. Quasi senza rendersene conto, l’Ue che si prepara alle imminenti elezioni è entrata in una nuova fase di consenso per lo Stato Sociale. Oggi, infatti, nelle istituzioni di Bruxelles, vi è una maggiore consapevolezza che sistemi di protezione sociale robusti e ben disegnati svolgono un ruolo fondamentale per la costruzione di società coese ed economie solide.

È la tesi al centro del saggio “Who’s afraid of the welfare state now?” (Oxford University Press, 2024) curato da Anton Hemerijck, professore di scienze politiche e sociologia all’European University Institute di Firenze, e Manos Matsaganis, professore di Scienza delle finanze al Politecnico di Milano. Il volume è stato presentato lo scorso 20 maggio alla Fondazione Feltrinelli di Milano e, a partire dagli spunti emersi durante l’incontro, abbiamo dialocato con i due docenti per capire meglio le loro idee su Ue e welfare.

Come è cambiato il Welfare State

Un breve sguardo al passato è utile per comprendere meglio l’evoluzione europea tratteggiata da Hemerijck e Matsaganis. I sistemi di Welfare State europei sono stati costruiti gradualmente a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento e più sistematicamente dopo la Seconda guerra mondiale grazie alla robusta crescita economica dei trent’anni successivi alla fine del conflitto.

Questa prima fase, la cosiddetta Golden Age, si è però conclusa a partire dagli anni Settanta, con la crisi petrolifera, l’austerity e la recessione: “In quel momento – spiega Matsaganis – il welfare veniva visto come un problema. Le nuove idee liberiste diventarono dominanti e cambiò anche la retorica sullo Stato Sociale, che da pilastro dell’ordine economico e sociale iniziò a essere dipinto come fonte di ogni problema: dal debito pubblico fuori controllo alle tasse troppo alte”.

Queste idee sono riemerse con forza a partire dal 2007, quando i Paesi dell’Unione europea sono stati colpiti da una nuova crisi economico-finanziaria che è stata affrontata con tagli e ridimensionamenti allo Stato Sociale, di fatto, con una nuova austerità che ha colpito soprattutto gli stati più indebitati come la Grecia.

Secondo Matsaganis, però, nonostante il suo indebolimento, il Welfare State “ha svolto un ruolo fondamentale nel sostenere le fasce di popolazione maggiormente colpite dalla crisi. Di conseguenza, negli anni seguenti, anche all’interno della Commissione Europea il clima è cambiato: progressivamente si è avviata una svolta sociale che nessuno, negli anni precedenti, si sarebbe aspettato”.

Per il docente del Politecnico di Milano, uno dei momenti che ha certificato questo cambio di attitudine è stata la proclamazione del Pilastro europeo dei diritti sociali, decisa nel 2017 dalla Commissione Juncker per ridurre le disuguaglianze e rafforzare i diritti sociali nell’Unione europea.

Se la Grande recessione non ha avuto un esito ancora più drammatico innescando una depressione generalizzata dell’economia europea, il merito è stato anche dei sistemi di welfare che hanno permesso di assorbire lo shock.

Il Pilastro europeo dei diritti sociali: ambizioni e sfide

Sebbene siano stati molto criticati hanno fatto esattamente quello per cui erano stati disegnati. Con delle differenze, chiaramente: quelli più inclusivi, penso ad esempio ai Paesi Bassi, hanno retto meglio l’urto rispetto all’Italia che ha un sistema più frammentato”, spiega Anton Hemerijck.

“E poi ci sono sistemi di welfare che non solo permettono di reggere meglio gli urti, ma anche aiutare le persone ad affrontare le fasi di transizione nel corso della vita, ad esempio ad avere una famiglia. I Paesi scandinavi e la Germania fanno parte di questo gruppo e la Spagna oggi sta lavorando in quella direzione”, aggiunge il professore dell’European University Institute.

La spinta della pandemia

L’importanza dei sistemi di protezione sociale è diventata ancora più evidente con lo scoppio della pandemia da Covid-19.

Anton Hemerijck

Nel marzo 2021 l’autorevole e liberista settimanale britannico The Economist ha pubblicato un editoriale dal titolo “Come creare una rete di sicurezza sociale per il mondo post-covid”. Vi si leggeva che la spesa sociale “dovrebbe essere ricostruita attorno a politiche attive del mercato del lavoro che utilizzino la tecnologia per aiutare tutti, dai lavoratori dei negozi vittime di interruzioni, alle madri le cui competenze si sono atrofizzate e a coloro il cui lavoro è stato sostituito dalle macchine. I governi non possono eliminare i rischi, ma possono contribuire a garantire che, in caso di calamità, le persone si riprendano”.

Un tema che anche Secondo Welfare ha affrontato nel suo Quinto Rapporto, intitolato non a caso  “Il ritorno dello Stato sociale? Mercato, Terzo Settore e comunità oltre la pandemia“. “Nell’era pandemica – scrivevamo – il Pubblico sembra essere tornato con forza protagonista dell’arena del welfare, mettendo in campo risorse e competenze tali da tirare a sé le fila di ambiti di intervento che per anni erano rimasti ai margini della sua azione. Al contempo appare però chiaro che gli attori del secondo welfare non hanno fatto passi indietro, ma anzi sono diventati sempre più importanti per rispondere ai bisogni dei cittadini”.

Il cambiamento è stato veramente importante”, riprende Hemerijck. “Penso che oggi, anche politicamente, si riconosca il fatto che, nella misura in cui si vogliono tenere insieme le società, è necessario avere un robusto Stato sociale. E non solo per ragioni economiche”, aggiunge.

Quinto Rapporto sul secondo welfare

Il cambiamento descritto dal professore si è tradotto in interventi come l’approvazione della direttiva europea sul salario minimo e l’introduzione di uno strumento per mitigare i rischi di disoccupazione in caso di emergenze (Support to mitigate unemployment risks in an emergency – Sure). Ma soprattutto  ha raggiunto il suo culmine con l’approvazione del Next generation Eu, uno strumento da 750 miliardi di euro lanciato nel 2020 per sostenere i piani di ripresa post pandemica (come il PNRR italiano) grazie all’emissione straordinaria e finora unica di debito comune europeo.

Inoltre, nel maggio dell’anno successivo, i leader UE hanno firmato la Dichiarazione di Porto, rilanciando il Pilastro europeo dei diritti sociali del 2017 e impegnandosi a raggiungere alcuni obiettivi ambiziosi su occupazione, formazione e povertà entro il 2030.

Nonostante tutto, un Welfare State in buona salute

L’analisi di Hemerijck e Matsaganis mette poi in luce un ulteriore elemento. Non solo l’Europa ha superato la crisi economico-finanziaria dell’inizio degli anni Duemila grazie ai propri sistemi di protezione sociale (e alla politica del quantitative easing voluto dall’allora governatore della Banca centrale europea, Mario Draghi), ma i principali indicatori socio-economici hanno registrato dei miglioramenti tra il 2007 e il 2019.

Dopo Porto, l’Unione Europea sarà più sociale?

Pur senza ignorare i danni causati dalle politiche di austerità, Hemerijck e Matsaganis evidenziano come in questi anni è cresciuta la spesa sociale, sia in termini assoluti sia come quota del prodotto interno lordo. In quasi tutti i Paesi europei è aumentata l’occupazione femminile, passata nell’Unione Europea dal 57% del 2007 al 63% del 2019. La quota di bambini da zero a tre anni che accedono a servizi formali per l’infanzia registra un più 9%. Mentre il numero di europei che non possono accedere alle prestazioni medico-sanitarie perché troppo costose nel 2019 ha raggiunto il suo valore più basso: meno dell1%.

Ovviamente – precisano gli autori – si tratta di dati medi che, inevitabilmente, nascondono grandi differenze tra i diversi Paesi. Cui si sommano alcuni elementi critici che dovranno necessariamente essere affrontati nel prossimo futuro. Per esempio, i due docenti citano lo sbilanciamento dei sistemi di welfare a sfavore dei più giovani o il sotto-finanziamento cronico della sanità pubblica in Paesi come l’Italia, che hanno dimenticato troppo in fretta le promesse fatte nei drammatici mesi della pandemia da Covid-19.

Manos Matsaganis

Nel suo insieme, però, il modello sociale europeo è uscito rafforzato dalla crisi ed è entrato in quella che gli autori hanno definito una terza fase in cui “il welfare non fa più paura” e di conseguenza è meno oggetto di contestazioni.

Penso ci sia stata un’evoluzione particolarmente significativa nel corso degli ultimi quarant’anni. Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta gli slogan di certe forze politiche erano: fermare l’avanzata dello Stato nell’economia e farla finita con le prestazioni sociali che permettono alle persone di vivere di sussidi. Oggi non è più così”, spiega Matsaganis.

“Quello che osservo, invece, è una sorta di sciovinismo del welfare da parte di forze xenofobe e nazionaliste che chiedono l’esclusione dei ‘nuovi arrivati’ a tutto vantaggio dei ‘nativi’. A volte sono fin troppo favorevoli a una forma di welfare di vecchio stampo e di tipo compensativo. A mio avviso si tratta della linea di demarcazione più significativa in vista delle prossime elezioni europee”, riflette.

Il nodo del finanziamento

Resta da sciogliere la questione più spinosa, quella legata al finanziamento dello Stato Sociale, che è compito dei singoli Paesi nel quadro comune delle regole dell’Unione Europea. Durante la pandemia le norme di bilancio del Patto di stabilità e crescita sono state sospese e gli stati hanno potuto spendere per fini sociali, senza tenere conto di deficit e debito.

A fin aprile, è stata approvata in maniera definitiva la riforma del Patto di stabilità e crescita, che entrerà in vigore a partire dai bilanci degli stati per il 2025. Secondo alcune analisi, come quelli dei sindacati europei, si tratta di norme troppo rigide, che non consentiranno a molti Paesi di fare gli investimenti ambientali e sociali di cui avrebbero bisogno.

Matsaganis è più ottimista: “anche con uno spazio di manovra più limitato i governi nazionali – sostiene – possono scegliere dove investire. Il Governo italiano, ad esempio, ha speso miliardi di euro per il Superbonus 110%, avrebbe potuto destinare parte di quella somma per investire su un welfare più moderno, con maggiori servizi alle famiglie, come gli asili nido, investimenti sul capitale umano, istruzione e formazione continua. È vero: le regole sono più strette di quanto avremmo voluto, ma esistono ancora ampi margini per le scelte dei Governi”.

 

 

Foto di copertina: Oliver Cole, Unsplash