Il 28 e il 29 marzo si è tenuto a Roma “Rewind! Ricomincio da reddito”, evento promosso dalla campagna “Ci vuole un reddito” durante il quale esperti, operatori e accademici hanno affrontato argomenti rilevanti intorno al tema del reddito minimo, come la connessione tra reddito garantito e politiche salariali, la presa in carico delle persone in marginalità da parte dei servizi pubblici, il legame con la violenza di genere e la povertà alimentare.
In questo contesto Percorsi di secondo welfare ha presentato il report “Costruire un futuro più equo: il reddito minimo per combattere la povertà“, frutto di una ricerca commissionata dall’associazione “Nonna Roma” grazie ai finanziamenti europei del progetto “The Care” di Action Aid e Fondazione Realizza il Cambiamento.
Attraverso l’analisi dei dati, della letteratura e della documentazione di riferimento, il report mette in evidenza perché anche nel nostro Paese è necessario uno strumento di reddito minimo garantito.
Il nostro Focus sulla povertàPercorsi di secondo welfare vuole contribuire a sostenere il dibattito e far conoscere le azioni che attori pubblici, privati e non profit stanno sviluppando per contrastare la povertà. Tutti gli approfondimenti sono disponibili qui. |
Perché un reddito minimo
La povertà oggi è un fenomeno sempre più diffuso, multidimensionale e che affonda le sue radici in un modello economico che sfugge sempre di più al controllo degli Stati, incapaci di gestirne gli effetti negativi sui cittadini.
In sostanza lo Stato Sociale, distorto e mutilato, fatica a rispondere a rischi e bisogni emergenti e questo in un contesto in cui, a seguito dei cambiamenti culturali e demografici, le famiglie non riescono più a svolgere quel ruolo di ammortizzatore sociale che per anni ha contribuito a mitigare la povertà nel Paese.
In uno scenario di questo tipo appare indispensabile prevedere un reddito di ultima istanza – ovvero un trasferimento economico rivolto agli indigenti, che tiene conto della condizione del nucleo familiare ed è perlopiù associato alla richiesta di disponibilità a lavorare e/o ad adottare determinati comportamenti -, che possa sostenere le persone soprattutto in quelle fasi in cui, per motivi spesso imprevisti, scivolano in povertà. Ma l’implementazione di un simile strumento è tutt’altro che scontata nel nostro sistema.
Il ritardo italiano e la continua incertezza delle misure
Il contrasto alla povertà è stato per lungo tempo marginale nell’agenda politica italiana e storicamente delegato alle organizzazioni della società civile. Inoltre, l’assetto istituzionale “occupazionale” del modello italiano ha fatto sì che le politiche di lotta alla povertà rimanessero a lungo fuori dall’attenzione politica.
Solo negli ultimi 15 anni il contrasto alla povertà ha assunto maggiore centralità, ma è stato affrontato ricorrendo perlopiù a sperimentazioni e misure discontinue. Di fatto, praticamente a ogni cambio di legislatura sono state riviste le caratteristiche delle misure, i criteri di accesso, le modalità di erogazione e i modelli di governance. Nell’arco di questo periodo si sono susseguite 5 misure – Carta Acquisti, Sostegno per l’Inclusione Attiva, Reddito per l’Inclusione, Reddito di Cittadinanza, Assegno di Inclusione/Supporto formazione lavoro – che nella maggior parte dei casi hanno subito modifiche non incrementali, ma radicali.
Questo approccio ha conseguenze molto negative sulle possibilità di istituire un efficace sostegno al reddito, perché impedisce di apprendere dall’esperienza, di valutare i risultati e apportare le necessarie modifiche.
Le politiche per la povertà non sono politiche per il lavoro
Le misure di contrasto alla povertà, in Italia come in altri Paesi europei sono state progressivamente orientate al paradigma dell’attivazione lavorativa, assumendo che buona parte dei beneficiari siano occupabili e che il lavoro garantisca automaticamente la fuoriuscita dall’indigenza. Questo approccio, che sovrappone politiche di contrasto all’indigenza e politiche del lavoro, costituisce una criticità, perché queste politiche sono indirizzate a platee differenti e si fondano su principi, obiettivi e strumenti distinti.
Inoltre, in un Paese in cui il tasso di working poor ha toccato gli 11,5 punti percentuali e dove è proprio il lavoro povero ad alimentare le fila dei vulnerabili, è necessario iniziare a chiedersi quale efficacia possa avere concentrare il contrasto alla povertà sulla condizionalità senza che sia avviata una riflessione più generale sulla qualità del lavoro, sulla sua stabilità, sui salari e sulla conciliazione tra vita privata e vita lavorativa.
Il rischio è infatti che l’occupazione non funzioni più come soluzione alla povertà, ma anzi produca individui impegnati in lavori precari, malpagati e inconciliabili con gli impegni familiari (dunque lavoratori/trici sì, ma comunque poveri/e).
Adempimenti disfunzionali: l’esempio dell’occupabilità
In questo quadro, il report mette in evidenza un altro elemento importante: i percorsi di attivazione dovrebbero essere personalizzati e mirati al miglioramento delle competenze, per consentire a chi ha perso il lavoro di mettere a frutto la propria esperienza, trovando una nuova occupazione o avviando un percorso di autoimprenditorialità. Nella fase attuale, siamo invece lontani da questo obiettivo e un punto critico riguarda la valutazione relativa all’occupabilità dei beneficiari.
Ad esempio, nel caso del Sostegno Formazione Lavoro, essa non è identificata sulle competenze spendibili nel mercato del lavoro da parte del beneficiario, quanto in relazione alle caratteristiche del suo nucleo familiare (chi non ha familiari disabili, minori o è over 60 è considerato, di fatto, automaticamente occupabile).
In sostanza, la partecipazione ai percorsi di inserimento lavorativo, tanto per il Reddito di Cittadinanza che per le nuove misure, appare più come un obbligo adempimentale, o come un deterrente a quei comportamenti opportunistici che spesso sono addotti come argomentazione contro tali misure, piuttosto che un investimento nella costruzione di competenze del beneficiario.
La mancanza di dati
Dal report emerge poi un altro tema da tenere in considerazione: le politiche contro la povertà hanno bisogno di trasparenza. Allo stato attuale, i dati disponibili non consentono di effettuare un monitoraggio, e di conseguenza una valutazione delle misure, né per i tempi né per la qualità con cui sono rilasciati (una criticità di cui abbiamo parlato recentemente anche affrontando il tema del non-take-up, ndr).
Un monitoraggio continuo e completo sugli interventi effettuati, sui loro destinatari e sui percorsi da essi intrapresi consentirebbe di raggiungere due importanti obiettivi. Innanzitutto valutare le misure e correggerle di conseguenza. Inoltre, la disponibilità di dati contribuirebbe ad alimentare un dibattito informato su politiche fortemente inficiate da posizioni ideologiche e soggette a dinamiche politico-elettorali.
A questo proposito, sarebbe possibile incrementare i controlli e misurare quando tali politiche abbiano effettivamente dato luogo a comportamenti opportunistici, essendo questa una delle principali argomentazioni a sfavore di misure di reddito minimo.
Lo strumento di cui avremmo bisogno
In questo contesto, quali caratteristiche dovrebbe avere un reddito minimo nel nostro Paese?
A nostro avviso, anzitutto deve essere basato sui meccanismi dell’universalismo selettivo, cioè rivolto a tutti quanti versino in condizioni di bisogno, indipendentemente da altre caratteristiche dell’individuo o della famiglia. In grado quindi di tutelare tutti quegli individui e famiglie non raggiunti dagli altri schemi di assicurazione sociale (come le pensioni o le indennità di disoccupazione).
Deve essere di importo e durata sufficiente a garantire una effettiva fuoriuscita dalla povertà. Un elemento che dovrebbe essere scontato ma che non lo è, poiché sono diverse le misure implementate negli anni che non hanno tenuto realisticamente conto del costo della vita e della composizione del nucleo familiare al momento dell’erogazione.
Infine, deve essere stabile: nessuna misura può essere valutata e corretta se non le si dà il tempo sufficiente per mostrare punti di forza e debolezza.
Tali riflessioni, e il relativo contesto sopra descritto, possono essere approfondite nel report di Percorsi di secondo welfare “Costruire un futuro più equo: il reddito minimo per combattere la povertà“, scaricabile qui.