La Spagna lo ha alzato da pochi giorni. In Germania è stato uno dei temi della recente campagna elettorale. Di salario minimo, invece, in Italia sembra che non se ne discuta più.
Dopo che nell’ottobre del 2023, la Camera ha deliberato il rinvio in commissione lavoro della proposta di legge delle opposizioni per istituirne uno, il tema ha perso spazio nel dibattito nazionale. E il nostro Paese, insieme a Austria, Danimarca, Finlandia e Svezia, rimane uno dei cinque Stati dell’Unione Europea senza una legge in materia.
Eppure la questione dei salari, del potere d’acquisto e del costo della vita rimane di grande attualità, soprattutto nei centri urbani e, in particolar modo, a Milano. Qui, ad inizio febbraio, si è tenuto l’incontro “Basta Lavoro Povero”, organizzato dall’associazione Adesso! Insieme al think tank Tortuga.
“Nonostante la pioggia, la sala era piena, di sabato mattina”, dice Francesco Armillei, dottorando in Economia all’Università Bocconi e ricercatore di Tortuga, che è stato tra i relatori dell’evento. Dei circa ottanta partecipanti, molti erano giovani. E i dati che lo stesso Armillei ha presentato fanno capire perché.
Costo della vita più alto, per tutti
“Milano ha il costo della vita più alto di tutto il Paese” ci spiega Armillei, citando un fatto noto. Quel che rivela uno studio condotto da Tortuga sono le categorie di persone per le quali questo costo è ancora più elevato.
Analizzando i dati Istat più aggiornati sulle soglie di povertà, emerge che, per una famiglia con due genitori tra i 30 e i 59 anni e un figlio tra gli 11 e i 17 anni, l’aumento dei costi per l’acquisto del paniere di beni e servizi essenziali a Milano è del 20% più alto rispetto alle altre aree metropolitane del Paese, e del 29% rispetto agli altri comuni d’Italia.
Ma sono i single tra i 18 e i 29 anni la fascia a fare ancora più fatica. Per loro, il costo del paniere minimo in città è superiore del 23% rispetto alla media delle altre aree metropolitane del Paese, del 37% rispetto agli altri comuni sopra i 50.000 abitanti e del 39% rispetto agli altri comuni sotto i 50.000 abitanti.
Salari più bassi, per alcuni
I ricercatori di Tortuga, poi, hanno analizzato anche i dati ISTAT del RACLI, il Registro con informazioni su occupazione, retribuzioni, costo del lavoro e ore per la singola posizione lavorativa dipendente e relativa impresa. Elaborando i numeri del 2020 relativi alla Città metropolitana di Milano, emerge che il capoluogo lombardo “solitamente offre retribuzioni orarie lorde più alte rispetto al resto dell’Italia e della regione, ma ciò non è vero per tutti i lavoratori”, si legge nel report.
“Esistono delle specifiche porzioni di lavoratori che addirittura ricevono meno dei propri simili in altre aree del paese. In particolare, i lavoratori più poveri, i giovani, quelli con un titolo di studio meno elevato, gli operai e i lavoratori nelle imprese più piccole”, spiega Armillei.
“Per i lavoratori nel 10% più povero (quelli nel primo decile), il gap rispetto al resto della Lombardia è negativo, a tutte le fasce d’età”, spiega ancora il rapporto, aggiungendo che “la classe più in ‘difficoltà relativa’ sono i giovani sotto i 30 anni nel primo decile della distribuzione”.
Misure specifiche per Milano
Sia quelli sul costo della vita sia quelli sulle retribuzioni sono dati che fanno risuonare un’altra indagine, svolta dalla CISL Milano Metropoli lo scorso anno. Il sindacato ha intervistato 2.930 abitanti della Città metropolitana di Milano ed ha riscontrato un preoccupante deterioramento della capacità di mettere da parte risparmi.
Nel 2019 solo il 19,7% risparmiava meno del 5% del salario mentre nel 2023 questo dato ha riguardato il 44,3% degli intervistati (+124,5%). Sempre nello stesso anno, l’80% del campione ha dichiarato di aver attinto ai propri risparmi per fronteggiare l’aumento del costo della vita, un’azione che, secondo il sindacato, ha interessato maggiormente i giovani e le fasce di reddito basse.
Di fronte a questa situazione, Adesso! e Tortuga hanno deciso che avesse senso “pensare a misure specifiche” per Milano, anche perché, spiega Armillei “il dibattito nazionale sul salario minimo si è impantanato e la misura nazionale, a nostro parere, avrebbe comunque dei limiti”.
Così, è venuta l’idea di guardare a Londra, per copiare il “salario giusto” di cui la capitale britannica si è dotata ormai da tempo.
L’esempio di Londra
Nel Regno Unito esiste da vari anni un salario minimo a livello nazionale, approvato dal parlamento e obbligatorio per legge, a cui è affiancato un salario di sussistenza (“living wage” in inglese) ad adesione volontaria da parte delle imprese. Ne esiste uno nazionale e uno specifico per Londra.
Il salario di sussistenza esiste dal 2005, ma dal 2016 è stabilito da un unico ente costituito ad hoc, la Living Wage Foundation, che lo definisce attraverso dei tavoli di discussione con tutte le parti sociali interessate, tra cui datori di lavoro, governi locali e governo nazionale, sindacati ed esponenti dell’accademia.
Adesso! e Tortuga hanno proposto di replicare l’esperienza anche a Milano.
“Molti casi simili esistono anche negli Usa, ma abbiamo Londra perché consideriamo il contesto più simile a quello italiano e, soprattutto, perché l’adesione è volontaria e questo è un vantaggio visto che non si può fare una legge per il salario minimo a livello milanese”, commenta Armillei.
Un salario giusto per Milano
Nel 2023 il salario minimo nazionale britannico era fissato a 10,42 sterline, mentre il salario di sussistenza londinese arrivava a 13,15 sterline, una integrazione del 26%.
Secondo uno studio del 2012, l’introduzione del London Living Wage tra il 2005 e il 2011 ha coinvolto direttamente 11.000 lavoratori, a meno del 3% dei circa 450.000 lavoratori che nel 2005 non raggiungevano il salario di sussistenza. Tra loro, scrive Tortuga, “compaiono soprattutto donne e lavoratori non sindacalizzati e a basso reddito”.
I ricercatori di Tortuga, quindi, hanno anche calcolato quale potrebbe essere l’importo per un salario di sussistenza milanese. E lo hanno fatto definendo valori diversi per nuclei famigliari diversi.
Per esempio, per un single tra i 18 e i 59 anni, per il quale l’Istat calcola a Milano una soglia di povertà pari a 1.175 euro, si è stimato che il reddito lordo di questo lavoratore ipotetico dovrebbe essere di circa 1.400 euro. Assumendo che il lavoratore sia impiegato full-time e lavori quindi 40 ore a settimana, per 4,3 settimane al mese, possiamo dedurre un salario lordo orario di circa 8,3 euro.
Lo stesso procedimento è stato fatto anche per le coppie o per le famiglie con figli, arrivando a valori ovviamente maggiori.
Una volta trovato il valore orario per tutti i tipi di nuclei famigliari presi in considerazione, è stata fatta una media ponderata dei valori di tuti i nuclei, che ha portato a un salario di sussistenza milanese unico di 10 euro l’ora, uguale per tutti.
I prossimi passi
“Il salario minimo non è l’unica soluzione contro la povertà lavorativa. Essendo la povertà multidimensionale, ha senso immaginare più strumenti. La nostra proposta risolve un pezzetto del problema”, aggiunge Armillei.
Il suo pensiero è in linea con la Relazione del Gruppo di lavoro su “Interventi e misure di contrasto alla povertà lavorativa”. Istituito dal Ministero del lavoro nel 2021, il team di esperti aveva fatto una lista di politiche plurali e sinergiche da mettere in campo per affrontare il fenomeno. E, tra le proposte formulate, vi erano anche degli incentivi per un comportamento virtuoso da parte delle imprese, con il living wage britannico citato proprio tra gli esempi concreti già esistenti.
La proposta di Adesso! e Tortuga, però, nonostante un incontro tenutosi al Comune di Milano per discutere la proposta, non sembra aver trovato terreno particolarmente fertile in città. “L’amministrazione comunale si è mostrata restia. Non sembrano esserci spazi di manovra”, ammette Armillei. Che però non demorde.
“L’idea ora è di arrivare al salario minimo territoriale passando dalla contrattazione collettiva a livello locale”, spiega. “Lo Stato non fa il salario minimo, il Comune non fa il salario di sussistenza, allora facciamo almeno in modo che sul territorio l’interazione tra associazioni sindacali e datoriali sia più vivace per rispondere ai bisogni del costo della vita”, auspica il ricercatore. Una proposta di azione che si collocherebbe pienamente nel solco del secondo welfare.