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L’Europa, spesso richiamata solo a proposito del rigore nei conti pubblici, negli ultimi anni ha svolto un ruolo importante nello spingere il nostro Paese ad adottare politiche di contrasto alla povertà. Anche grazie all’azione dell’Unione Europea, infatti, l’Italia si è finalmente dotata di un piano nazionale di contrasto alla povertà e di una misura – il ReI (Reddito di Inclusione) – ti stampo universalistico. Per approfondire questa questione, vi proponiamo l’articolo "Ce lo chiede l’Europa" di Daniele Ferrocino – presidente di Federsolidarietà Puglia e presidente del Consorzio Emmanuel – uscito all’interno del numero 2/2018 della rivista Welfare Oggi.

In Italia non è ancora maturata una coscienza sufficiente riguardo al ruolo giocato dall’Unione europea nella definizione delle politiche di contrasto delle povertà di questi ultimi anni. Pertanto, raccontarne la storia può rappresentare una buona occasione per riflettere sia su alcune dimensioni oggi poco in voga della cittadinanza europea, sia sulle dinamiche istituzionali che possono poi portare o meno a compimento alcuni processi legislativi.

Ma procediamo con ordine. I primi progetti pilota della “Comunità Economica Europea” (come allora si chiamava) sul tema della povertà risalgono al 1975 e per oltre un ventennio si sono susseguiti fra polemiche e contrasti stante la mancanza di una base giuridica – cioè di una norma di diritto europeo che impegna gli Stati membri e che di solito è contenuta in un trattato dell’Unione – che definisse la competenza della Comunità Economica Europea rispetto a questo ambito. Dal 1999, a seguito del Trattato di Amsterdam, la situazione è mutata in quanto l’eradicazione dell’esclusione sociale è diventata uno degli obiettivi della politica sociale comunitaria.

Attualmente la base giuridica per la lotta contro la povertà e le discriminazioni è contenuta negli articoli 19 e da 145 a 161 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (T.F.U.E.). In particolare, l’art. 153 esplicita che l’Unione stessa debba, fra l’altro, sostenere e completare le azioni degli Stati Membri negli ambiti dell’integrazione delle persone escluse dal mercato del lavoro e della lotta contro l’esclusione sociale. In sostanza questo articolo prevede che l’inclusione sociale sia perseguita mediante la cooperazione non legislativa attraverso il metodo di coordinamento aperto (M.C.A.). Tale metodo si applica nei domini in cui la potestà legislativa appartiene ai singoli Stati per cui le istituzioni europee non possono intervenire con propri atti normativi. In tali casi, per “allineare” le politiche degli Stati in ambito europeo, si fissano in comune gli obiettivi da perseguire; poi ogni Stato membro deve volontariamente definire le proprie norme ed i propri atti necessari per il loro raggiungimento.

Non essendo prevedibili sanzioni per gli Stati eventualmente inadempienti, l’unica forma di pressione è rappresentata dalla comparazione statistica e dalle graduatorie sui risultati conseguiti dai singoli governi nazionali. In materia di contrasto delle discriminazioni, invece, la formulazione dell’articolo 19 TFUE attribuisce direttamente all’UE la facoltà di intervenire con propri provvedimenti, ad esempio offrendo protezione giuridica alle potenziali vittime, oppure adottando misure di incentivazione.

Nell’ambito delle politiche in questione, va rammentato che dal 2000 è attivo un Comitato per la protezione sociale finalizzato a promuovere la cooperazione tra gli Stati membri e con la Commissione e dallo stesso anno è in vigore la “strategia di Lisbona” che prevede un meccanismo di monitoraggio e coordinamento in materia di misurazione della povertà (grazie ad una serie di indicatori e parametri di riferimento) e di orientamenti indirizzati agli Stati membri per l’adozione di piani d’azione nazionali contro la povertà. Inoltre, con regolamento europeo n. 1177/2003 è stato introdotto il progetto Eu Silc – European Union Statistics on Income and Living Conditions (Indagine sulle condizioni di vita e di reddito) – che monitora la situazione sociale e la diffusione della povertà nei Paesi membri. Esso è imperniato su metodi armonizzati e su definizioni standardizzate dei dati, il che consente sia di avere risultati comparabili fra Paesi, che analisi longitudinali per valutare nel tempo gli andamenti dinamici dei fenomeni di deprivazione attraverso l’indicatore di persistenza in povertà. I dati così raccolti consentono di avere dei rapporti periodici indispensabili per il monitoraggio degli obiettivi di politica sociale nel contesto della strategia Europa 2020.

Per agevolare il perseguimento dei suddetti obiettivi politici, nel dicembre 2010 la Commissione ha varato la Piattaforma europea contro la povertà e l’esclusione sociale che, dal 2011, attraverso la Convenzione annuale, riunisce i responsabili politici, i principali portatori d’interesse e persone che hanno fatto esperienza della povertà. Ulteriori interventi si sono poi avuti nell’ottobre 2013 quando la Commissione ha rivisto il quadro di valutazione degli indicatori sociali (uno strumento analitico per individuare le situazioni all’interno dell’UE che richiedono un monitoraggio più accurato e che comprende attualmente otto indicatori chiave) e a partire dall’esercizio del semestre europeo 2014 tale quadro di valutazione è stato inserito nella relazione comune sull’occupazione, che è parte integrante dell’analisi annuale della crescita, la quale fissa a sua volta le priorità strategiche in materia di politica economica.

Da ultimo (aprile 2017), il tema della convergenza verso migliori condizioni di vita e di lavoro in mercati del lavoro sempre più flessibili, la Commissione ha approvato il Pilastro europeo dei diritti sociali i cui principi e diritti sono articolati in tre categorie (pari opportunità e accesso al mercato del lavoro, condizioni di lavoro eque e protezione ed inclusione sociale). In attuazione di questi principi, strategie e norme, fin dal 1992 tanto il Consiglio europeo quanto la Commissione europea hanno ripetutamente emanato raccomandazioni e richiami volti a definire criteri comuni in materia di risorse per i sistemi di protezione sociale.

In questa linea si colloca per esempio la comunicazione COM (2005) 706 “Lavorare insieme, lavorare meglio: un nuovo quadro per il coordinamento aperto delle politiche di protezione sociale e di integrazione nell’Unione europea” che, come detto, ha introdotto il Metodo Aperto di Coordinamento nei settori della protezione sociale e dell’inclusione sociale e definito fra i propri obiettivi la garanzia dell’inclusione sociale attiva di tutti, promuovendo la partecipazione al mercato del lavoro e la lotta contro la povertà e l’esclusione sociale. Nella medesima direzione si è mossa anche la decisione del Consiglio del 7 luglio 2008 sugli orientamenti per le politiche dell’occupazione degli Stati membri, con la quale l’Unione europea ha proposto, tra l’altro, di migliorare l’integrazione sociale, lottare contro la povertà, prevenire l’esclusione dal mercato del lavoro e favorire l’integrazione dell’occupazione delle persone svantaggiate.

Sulla scorta di tali basi giuridiche ed orientamenti e per dare ancora maggiore incisività alle pressioni sugli Stati membri, il 3 ottobre del 2008 la Commissione europea ha emanato una propria raccomandazione relativa all’inclusione attiva delle persone escluse dal mercato del lavoro il cui punto 1 vale la pena di richiamare integralmente. Esso contiene infatti l’invito a tutti i governi nazionali ad “elaborare e applicare una strategia globale e integrata a favore dell’inclusione attiva delle persone escluse dal mercato del lavoro, combinando un adeguato sostegno al reddito, mercati del lavoro in grado di favorire l’inserimento e l’accesso a servizi di qualità. Le politiche di inclusione attiva dovrebbero facilitare l’integrazione delle persone in posti di lavoro sostenibili e di qualità di coloro che sono in grado di lavorare e fornire a coloro che non ne sono in grado risorse sufficienti per vivere dignitosamente, sostenendone la partecipazione sociale”. In maniera ancora più esplicita, il punto 4, lettera a) di tale raccomandazione prevede “un’adeguata integrazione del reddito – Riconoscere il diritto fondamentale della persona a risorse e prestazioni sufficienti per vivere conformemente alla dignità umana, nel quadro di un dispositivo globale e coerente di lotta contro l’esclusione sociale”.

L’Italia e le politiche europee di contrasto delle povertà

A fronte di indicazioni così chiare rivenienti dai Trattati e dalle massime istituzioni europee, l’Italia aveva continuato a mantenere negli anni politiche di contrasto alla povertà assolutamente insufficienti. Il gap fra quanto richiesto dalla partecipazione all’Ue e quanto concretamente realizzato nel nostro Paese è infine emerso in tutta la sua drammaticità a seguito della grande crisi esplosa nel 2007-08. Non sorprende dunque che il position paper del novembre 2012 elaborato dai servizi della Commissione europea relativo all’Accordo di Partenariato e dei Programmi per l’utilizzo dei Fondi Strutturali e di Investimento Europei per il periodo 2014-20 abbia concentrato l’attenzione anche su questo aspetto.

È utile rammentare che il position paper, sulla scorta di una rigorosa analisi quantitativa e qualitativa, individua le sfide specifiche per singolo Paese e presenta i pareri preliminari dei Servizi della Commissione sulle principali priorità di finanziamento attraverso i fondi strutturali e di investimento che ogni Stato membro deve perseguire per favorire una spesa pubblica volta a promuovere la crescita e la coesione sociale. Nel caso specifico dell’Italia, si legge che fra le priorità di finanziamento vanno individuate anche la lotta all’esclusione sociale e alla povertà in quanto queste rimangono ancora una priorità per il Paese; in particolare viene raccomandato che “una porzione consistente delle risorse disponibili sia dedicata alla promozione dell’inclusione attiva” così come definita nella citata Raccomandazione del 2008.

Queste raccomandazioni specifiche rivolte all’Italia si affiancavano peraltro alle normative generali emanate nel contempo nell’ambito del Quadro Finanziario Pluriennale e della strategia “Europa 2020” volta a sostenere una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva. Tale strategia ha individuato fra i propri cinque obiettivi principali due obiettivi di spiccato carattere sociale: riscattare 20 milioni di persone dal rischio di povertà entro il 2020 e raggiungere un tasso di occupazione del 75% nella fascia di età tra i 20 e i 64 anni; fra le “iniziative faro” previste dalla strategia, in questa sede conviene ricordare l’Agenda per nuove competenze e per l’occupazione, il programma Gioventù in movimento e la Piattaforma europea contro la povertà e l’esclusione sociale già citata. In particolare, va rammentato che il Regolamento 1304/2013 relativo al Fondo Sociale Europeo ha previsto che almeno il 20% delle risorse del fondo stesso siano destinate all’obiettivo tematico 9 inerente all’inclusione sociale e alla lotta alla povertà.

Queste normative ed indicazioni provenienti dall’Unione Europea hanno così portato all’Accordo di Partenariato dell’Italia inerente ai PON ed ai POR per l’utilizzo dei fondi strutturali, attraverso il quale sono stati destinati 3,1 miliardi di euro (considerando FSE e FESR congiuntamente) all’obiettivo tematico suddetto (risorse così ripartite: 799 milioni per le Regioni più sviluppate, 130 milioni per quelle in transizione e 2,3 miliardi per le Regioni meno sviluppate).

Questo vincolo di destinazione relativo al Fondo Sociale Europeo (FSE) non è la sola misura di incentivazione finanziaria volta a contrastare la povertà. Occorre anzi ricordare che fin dal 2007 la Commissione europea ha integrato tutti i programmi comunitari di finanziamento diretto esistenti nel settore dell’occupazione e degli affari sociali nell’ambito del programma “Progress”, rendendo in tal modo più evidente l’obiettivo di dedicare risorse specifiche per creare occasioni di lavoro a favore di soggetti in condizioni di povertà. Tale programma è stato poi ulteriormente razionalizzato ed incluso come uno dei tre assi (2.3.2) nell’attuale programma EaSI per il periodo 2014-2020.

Nel contempo, nell’ambito delle procedure del “semestre europeo” si è sviluppato un processo concomitante volto a definire una riforma strutturale delle politiche italiane in materia di lotta alla povertà. Al riguardo occorre precisare che il “semestre” segue un preciso calendario in base al quale gli Stati membri ricevono consulenza a livello dell’UE (“orientamenti”) e presentano successivamente i loro programmi (“programmi nazionali di riforma” e “programmi di stabilità o di convergenza”) per una valutazione a livello dell’UE. Dopo la valutazione di tali programmi, gli Stati membri ricevono raccomandazioni individuali (“raccomandazioni specifiche per Paese”) riguardo alle loro politiche nazionali di bilancio e di riforma. Gli Stati membri devono quindi tener conto di tali raccomandazioni quando definiscono il bilancio dell’esercizio successivo e quando prendono decisioni relative alle politiche economiche, occupazionali, in materia di istruzione, ecc. Per quel che riguarda il tema qui in esame, va rammentato che la Raccomandazione emanata dal Consiglio europeo, valutando il PNR italiano per il 2014, sosteneva che per far fronte al rischio di povertà e di esclusione sociale bisognava estendere gradualmente il nuovo regime pilota di assistenza sociale, in conformità degli obiettivi di bilancio, assicurando un’assegnazione mirata, una condizionalità rigorosa e un’applicazione uniforme su tutto il territorio e rafforzandone la correlazione con le misure di attivazione; migliorare l’efficacia dei regimi di sostegno alla famiglia e la qualità dei servizi a favore dei nuclei familiari a basso reddito con figli.

Il Programma Nazionale di Riforma (PNR) è un documento, presentato dai Governi nazionali insieme al Documento di Economia e Finanza (DEF), che ha una doppia valenza sia sul fronte delle politiche nazionali sia nel rapporto dei singoli Paesi con l’Unione europea. Il PNR illustra annualmente gli interventi messi in atto dalle amministrazioni nazionali e regionali, la loro coerenza con gli orientamenti dell’Unione europea e il loro impatto atteso; inoltre il PNR presenta un’agenda di interventi, previsti per i mesi successivi, con cui si definisce il percorso attraverso il quale il Paese intende conseguire gli obiettivi definiti a livello europeo, garantendo la stabilità delle finanze pubbliche. Nel 2016 la Raccomandazione del Consiglio sul PNR di quell’anno esplicitava al punto 4 la necessità per il nostro paese di adottare ed attuare la strategia nazionale di lotta contro la povertà e rivedere e razionalizzare la spesa sociale.

Il ruolo dell’Unione Europea nel piano nazionale di contrasto alla povertà

L’analisi degli atti, delle norme e delle procedure europee fin qui sommariamente descritti lascia chiaramente intuire come non sia assolutamente vero quello che si è spesso sentito dire in Italia riguardo alle politiche di rigore economico dell’Unione europea: non sono state certo le istituzioni comunitarie a chiederci di tagliare le spese sociali! È vero che ci è stato chiesto di tenere “in ordine” i conti pubblici, ma mai negli atti e nelle raccomandazioni che ci sono stati rivolti tali richieste hanno messo in dubbio il fatto che il nostro Paese dovesse adeguarsi agli standard europei in materia di contrasto alla povertà e di inclusione sociale.

Si deve viceversa riconoscere che il d.lgs. 147/2017 recante “Disposizioni per l’introduzione di una misura nazionale di contrasto alla povertà” ed istitutivo del ReI (Reddito di Inclusione) ha rappresentato invece il logico coronamento di un obbligo di vecchia data che l’Italia aveva formalmente nei confronti dell’UE e che per un troppo lungo tempo era rimasto disatteso. Si può a ragione sostenere che in realtà nell’adozione del provvedimento in questione il nostro Governo si è trovato stretto nella duplice morsa rappresentata da una parte dalle istituzioni comunitarie e, dall’altra, dall’Alleanza contro la Povertà che ha messo in atto una forma di pressione congiunta che ha coinvolto praticamente tutta la società civile italiana. E si può facilmente immaginare che in assenza di un’adeguata pressione da parte dell’Unione europea, sarebbe stato molto problematico riuscire ad individuare nel bilancio dello Stato risorse per un miliardo di euro per la misura di sostegno al reddito in una fase in cui le risorse pubbliche sono chiaramente insufficienti rispetto ai bisogni collettivi.

Dovrebbe dunque essere evidente che il ruolo svolto dall’Unione europea in materia di contrasto delle povertà non può essere limitato alla sola considerazione delle risorse destinate alla lotta all’esclusione sociale veicolate attraverso il programma EaSI o attraverso il FSE che in Italia si è concretizzato in particolare attraverso il PON (Programma Operativo Nazionale) Inclusione. Viceversa, si deve ritenere che tale programma operativo possa oggi esprimere le proprie potenzialità proprio perché in contemporanea si è svolto un processo di riforma strutturale che ha permesso all’Italia di avere finalmente delle vere politiche di contrasto alla povertà, processo che ha potuto aver luogo anche in virtù di ripetute ed incisive sollecitazioni pervenute dalle varie istituzioni e normative europee.

Al riguardo va anche sottolineato che il PON Inclusione ha tutte le caratteristiche dei programmi finanziati dai Fondi Strutturali ed in particolare quella di essere una misura aggiuntiva rispetto alle politiche ordinarie. In futuro, infatti, le risorse oggi veicolate attraverso questo PON dovranno essere rinvenute nel bilancio ordinario in quanto la funzione principale di questo programma è proprio quella di promuovere ed avviare il sistema di base per la definizione dei LEA nell’ambito della lotta alla povertà.

Ed è in questa prospettiva che vanno lette le varie misure e azioni contenute nel PON Inclusione ed orientate a definire il sistema di governance multilivello degli interventi di contrasto alla povertà, l’implementazione e l’interconnessione delle reti locali dei servizi sociali, lo sviluppo di sistemi informativi uniformi, la standardizzazione di profili professionali e lo sviluppo delle competenze degli operatori. Il tutto finalizzato a creare un sistema diffuso su tutto il territorio nazionale per la presa in carico omogenea e per lo sviluppo di progetti personalizzati di inclusione attiva in cui venga superato l’approccio caritativo per dare invece preminenza alle interazioni fra servizi assistenziali, educativi, formativi e per il lavoro.

Infine, ulteriori tessere di questo puzzle sono date dalle misure di contrasto alle marginalità estreme e che si concretizzano nella strategia “housing first” per i senza fissa dimora, negli interventi per l’integrazione socioeconomica delle comunità Rom, Sinti e Caminanti e per la distribuzione di beni alimentari e di prima necessità (Programma FEAD).

Le imprese sociali ed il contrasto delle povertà

A completare il quadro complessivo di interventi e misure destinati alla lotta alla povertà, le risorse e le normative comunitarie promuovono anche il sostegno alle imprese sociali quali possibili strumenti per incrementare le occasioni di inserimento lavorativo di soggetti fragili e per migliorare l’accesso a servizi di qualità in ambito sociale e sanitario (servizi educativi per l’infanzia e per la non autosufficienza, sanità territoriale ed ospedaliera, alloggi sociali e servizi abitativi e di supporto all’abitare assistito).

Al riguardo particolarmente significativa risulta essere la raccomandazione della Commissione COM (2013) 83 “Investire nel settore sociale a favore della crescita e della coesione, in particolare attuando il Fondo Sociale Europeo nel periodo 2014-2020” che rappresenta il perno del cosiddetto “pacchetto d’investimenti sociali” (composto anche dalla raccomandazione della Commissione intitolata “Investire nell’infanzia: rompere il circolo vizioso dello svantaggio sociale” e da una serie di documenti di lavoro dei servizi della Commissione).

Vale la pena soffermarsi su tale raccomandazione; essa parte dall’assunto che le politiche sociali svolgano tre funzioni: investono nel settore sociale, garantiscono la protezione sociale e stabilizzano l’economia. Per cui esse non hanno solo effetti immediati, ma anche effetti durevoli, positivi nel tempo, in particolare per l’occupazione e i redditi da lavoro. A tal fine però, continua la Raccomandazione, è necessaria una modernizzazione delle politiche sociali affinché le misure di attivazione svolgano un ruolo più importante consentendo anche alle persone più fragili, nella misura delle loro capacità, di partecipare attivamente alla società e all’economia. In questo contesto gli enti di Terzo settore e in specifico le imprese sociali possono integrare gli sforzi del settore pubblico e compiere un’opera pionieristica nella creazione di nuovi mercati. Tuttavia la raccomandazione evidenzia come il sostegno che esse ricevono attualmente sia insufficiente, per cui le stesse dovrebbero essere ulteriormente incoraggiate a sfruttare il potenziale d’investimento sociale.

La Commissione considera la modernizzazione delle politiche sociali una questione di interesse comune a livello dell’Ue e di conseguenza l’innovazione sociale diventa un elemento essenziale degli investimenti sociali, considerando che le politiche sociali devono essere costantemente adattate in funzione di nuove sfide. Il Terzo settore e in particolare le imprese sociali possono a questo proposito integrare lo sforzo pubblico e compiere un’opera pionieristica nella creazione di nuovi servizi e di nuovi mercati per i cittadini e per le amministrazioni pubbliche; ma per far questo esse hanno bisogno di acquisire competenze, essere adeguatamente assistite e di poter operare in un ambiente regolamentare favorevole.

Alla luce di tali considerazioni, la Commissione europea con la Raccomandazione citata invita gli Stati membri:

  • a dare maggiore importanza agli investimenti sociali al momento dell’allocazione delle risorse e nell’ambito della struttura globale delle politiche sociali, puntando maggiormente sui servizi di custodia dei bambini, l’istruzione, la formazione, le misure attive del mercato del lavoro, l’assistenza all’alloggio, il reinserimento e i servizi sanitari;
  • ad elaborare strategie concrete per l’innovazione sociale, come le partnership che raggruppano i settori pubblico e privato e il Terzo settore, aiuti finanziari e mezzi di formazione, di messa in rete e di tutoring;
  • a sostenere gli imprenditori sociali prevedendo misure di incentivazione per la creazione e lo sviluppo di imprese;
  • ad esplorare e ad elaborare soluzioni innovative volte ad ottenere fondi privati supplementari per gli investimenti sociali, ad esempio grazie alle partnership pubblico-privato;
  • a destinare le risorse della politica di coesione e di sviluppo rurale allo sviluppo del capitale umano, che comprende in particolare l’occupazione, l’inclusione sociale, la riduzione delle disuguaglianze geografiche, l’invecchiamento attivo, l’accessibilità dei servizi sociali, educativi e sanitari, nonché l’istruzione e la formazione permanenti;
  • a rispondere, mediante un’azione coordinata dei Fondi strutturali e di investimento europei, alle molteplici esigenze delle persone sfavorite, comprese quelle che vivono nelle zone povere e isolate;
  • a presentare proposte volte a rafforzare la dimensione sociale della strategia Europa 2020.

Questa Raccomandazione è stata di grande importanza in particolare nella predisposizione dei programmi operativi regionali a valere sui fondi FSE: infatti in ciascuna regione sono state previste misure specifiche per la promozione dell’imprenditorialità sociale ed il sostegno all’innovazione sociale (si consideri che i POR vantano in questo ambito risorse per circa 3,5 miliardi di euro a cui dovrebbero poi sommarsi anche le risorse previste per l’obiettivo tematico 8 “Occupazione” di portata più generale, non essendo limitato alle sole persone in condizioni di povertà). D’altro canto va anche evidenziato come tali misure siano nella stragrande maggioranza delle Regioni ancora ferme al palo ed anzi in alcuni casi le risorse loro destinate in origine sono state già distolte ed attribuite per altre finalità.

Conclusioni

In sostanza si deve ritenere che il quadro complessivo presenti sia luci che ombre. Per un verso va riconosciuto che, anche grazie all’azione dell’Unione europea, finalmente l’Italia si è dotata di un piano nazionale di contrasto delle povertà, di una misura come il ReI che ha natura di LEA e si connota come misura universalistica per il contrasto della povertà assoluta, di un PON Inclusione che getta le basi per strutturare una sistema capillarmente diffuso su tutto il territorio italiano di presa in carico delle persone in condizioni di indigenza.

Certo, si tratta di iniziative che, per quanto riguarda il nostro Paese, sono ancora in via di implementazione e consolidamento, sia rispetto al ReI – e per questo si rimanda al precedente numero 1/2018 di Welfare Oggi, sia rispetto al PON Inclusione che risulta ancora in fase di avvio; e c’è da scommettere che in molti territori non sarà per nulla facile portarlo a regime.

Tuttavia, se la situazione è questa, non si può certo dire che il problema sia da imputare al rigore delle politiche economiche imposto dall’Europa. Al contrario, l’insieme di norme, politiche e risorse rivenienti dall’Unione europea in materia di lotta alla povertà di cui si è detto (con una ricostruzione peraltro sommaria ed incompleta, per motivi di spazio), può essere utile a comprendere quanto errata sia la concezione che vede nelle istituzioni comunitarie solo burocratismo esasperato e rigore nelle politiche economiche. Al contrario proprio gli operatori sociali dovrebbero trarre ispirazione da quanto sta avvenendo in questo ambito ed imparare a dedicare maggiore attenzione alle scelte che si compiono a Bruxelles. Infatti spesso proprio nell’ambito delle politiche e delle istituzioni europee maturano le soluzioni ai tanti limiti ed alle tante incoerenze che, purtroppo, continuano a connotare una buona parte delle politiche sociali italiane.