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Oggi entra il vigore il Reddito d’inclusione (Rei). Si tratta di una nuova prestazione rivolta alle persone in condizione di povertà. A seconda della situazione economica e familiare, si potrà ricevere un trasferimento (massimo)di 485 euro al mese. I Comuni predisporranno dei «progetti di attivazione» sociale e lavorativa. Non sarà quindi un semplice sussidio, ma un pacchetto di misure personalizzate che cercherà di accompagnare i beneficiari verso l’autonomia.

Strumenti simili per il contrasto alla povertà esistono da decenni nella maggioranza dei Paesi Ue. Nelle nazioni in via di sviluppo (dal Brasile alla Costa d’Avorio), il welfare viene oggi costruito partendo proprio da questo tassello, che si rivolge ai poveri indipendentemente dall’età. L’Italia ha seguito il percorso inverso. Nel passato ha sempre privilegiato le pensioni, con formule di calcolo molto generose, mentre ha trascurato i bisognosi, compresi i bambini. Non è un caso se i nostri tassi di povertà minorile sono fra i più alti d’Europa. Certo, in molte Regioni e Comuni già esistevano misure contro l’esclusione sociale. Ma erano costruite su sabbie mobili, in particolare dal punto di vista finanziario. Il Rei è invece una misura «strutturale», ossia una voce permanente del bilancio pubblico. E chi soddisfa i requisiti avrà una spettanza tutelata dalla legge. Di questi tempi è raro che vengano introdotti nuovi diritti. Eppure è successo, per una volta possiamo rallegrarci.

Il reddito minimo garantito era già stato raccomandato dalla Commissione Onofri nel 1997. Oggetto di varie sperimentazioni, la sua introduzione non era però mai riuscita a entrare sul serio nell’agenda politica. Senza sminuire la sensibilità e il contributo dell’attuale governo e dei due precedenti, buona parte del merito va riconosciuto all’Alleanza contro la povertà, un gruppo di 35 organizzazioni della società civile costituitosi nel 2013 (www.redditoinclusione.it). L’Alleanza non si è limitata ad aggregare interessi e consensi, ma ha anche formulato utili proposte. Una vicenda in controtendenza rispetto a quel declino dei corpi intermedi di cui tanto si parla. E anche un esempio, diciamolo, di buona politica, osservato con attenzione da molti osservatori stranieri.

Il Rei risolverà il problema della povertà? Certamente no, è solo un primo passo. Le risorse non sono molte (è previsto un loro graduale incremento), le prestazioni hanno importi modesti. I requisiti sono stringenti, di fatto i beneficiari saranno solo la metà più povera dei poveri. Quanto ai Comuni, saranno capaci di realizzare progetti di attivazione efficaci? È un grosso punto interrogativo. La legge sul Rei prevede il potenziamento dei servizi e la formazione degli operatori locali. Su questo fronte è bene però che si attivino anche gli attori del «secondo welfare», a cominciare proprio dalle associazioni che fanno parte dell’Alleanza. Il successo del Rei dovrà essere misurato non solo in termini di alleviamento temporaneo della povertà, ma soprattutto in termini di recupero dell’autonomia.

C’è poi una questione più ampia. Il nostro Paese ha alti livelli di povertà anche perché mancano i posti di lavoro. Non è tanto colpa della crisi, né certo della riforma Fornero. È un deficit cronico che ci portiamo dietro dagli anni Cinquanta: i nostri livelli di occupazione sono sempre stati circa dieci punti più bassi rispetto alla media Ue. Quel che è peggio, mancano posti di lavoro in quei settori del terziario che possono dare occupazione a chi ha basse qualifiche. Nei servizi alla persona e alle famiglie (la cosiddetta economia sociale) in Francia ci sono almeno due milioni di posti di lavoro in più a confronto con l’Italia.

La lotta alla povertà va condotta su più fronti. Welfare e lavoro innanzitutto. E poi istruzione, formazione, conciliazione, servizi per le famiglie, incentivi alla creazione di nuovi mercati. Una sfida complessa, ma ineludibile; che richiede molte riforme ora, con effetti lenti e graduali. Purtroppo stiamo entrando in una lunga fase elettorale. Sul tema povertà si abbatterà il polverone del «reddito di cittadinanza» cavalcato dai Cinque Stelle. Sarà fin troppo facile dire che 780 euro a tutti (spesso si omette di precisare che si tratterebbe solo dei più bisognosi) sono meglio di 485. E altrettanto facile sarà rilanciare sciorinando bonus, o promettendo pensioni minime a mille euro. Di lavoro, capitale umano, nuovi mercati, investimenti (e come finanziarli), non ci sarà invece tempo di parlare. La cattiva politica si tiene lontana dal lungo periodo: che ci pensino pure le prossime generazioni.


Questo articolo è stato pubblicato su "Buone Notizie", inserto gratuito del Corriere della Sera, del 1 dicembre e qui riprodotto previo consenso dell’autore.