Negli ultimi anni, anche e soprattutto a seguito della crisi economica, il profilo degli homeless si è modificato, includendo persone tradizionalmente neppure considerate a rischio. Questo cambiamento ha fatto emergere nuove riflessioni sul fenomeno. Una recente indagine promossa dalla Città Metropolitana di Torino ha cercato per la prima volta di approfondire il fenomeno sul territorio metropolitano torinese.
Stereotipi e modificazioni
La figura del senza dimora oggi risulta molto distante dallo stereotipo del clochard totalmente “sganciato” dalla società, privo di qualsiasi abilità lavorativa e relazionale, che volontariamente permane in una situazione di miseria (Baroni e Petti 2014).
La crisi economica dell’ultimo decennio ha estremamente indebolito le tradizionali reti di supporto parentali e amicali e mutato di fatto il profilo di coloro che possono scivolare nella povertà più estrema perché non in grado di far fronte ad eventi traumatici della propria esistenza. In passato era comune associare la condizione del senza dimora ad un trascorso di profondo disagio che esponeva al rischio di finire per strada, ma oggi è più così e chiunque può cadere in tale condizione.
L’impoverimento di fasce della società tradizionalmente neppure considerate a rischio di dover richiedere prestazioni assistenziali ha favorito l’interesse verso studi comparati sul fenomeno dell’homelessness, suscitando quindi riflessioni circa la necessità di ridefinirne con maggior esattezza il profilo e di trovare nuove modalità di presa in carico e nuovi strumenti di policy per affrontare il problema (Busch-Geertsema et al. 2014).
Grazie all’approfondimento del fenomeno si è compreso come l’universo dei senza fissa dimora sia variegato e necessiti quindi di nuove modalità di intervento più flessibili e adattabili alle persone e ai contesti, più strutturali e non solo volte ad affrontare l’aspetto emergenziale della homelessness.
La Fédération Européenne des Associations Nationales Travaillant avec les Sans-Abri (FEANTSA), ovvero la federazione delle organizzazioni che si occupano dei senza dimora, ha messo a punto una classificazione molto dettagliata di vari grandi di homelessness, la European Typology on Homelessness and Housing Exclusion (ETHOS). Questa classificazione non si concentra solo sull’assenza dell’abitazione, ma prende in considerazione anche gli aspetti sociali e legali strettamente connessi a tale mancanza, individuando così diverse forme di povertà abitativa opportunamente classificate in gradi incrementali: “senza tetto”, “senza casa”, “sistemazioni insicure”, “sistemazioni inadeguate”, cui si associano delle sottocategorie specifiche per ogni situazione.
L’attenzione anche ai risvolti sociali e legali ha messo ancora più in evidenza la necessità di interventi tesi al raggiungimento di una autonomia a lungo termine per la persona homeless, attraverso un percorso partecipato di empowerment, cioè di potenziamento e sviluppo della capacità del soggetto che è momentaneamente portatore di bisogno (Folgheraiter 1998). Sono nati così gli approcci di intervento denominati housing led e housing first. I primi sono destinati a soggetti non cronici, mentre i secondi si rivolgono a persone che hanno vissuto a lungo un grave disagio. Entrambi partono dal concetto che l’accesso alla casa, intesa quale riparo sicuro, sia il primo passo per sviluppare insieme alla persona un percorso di integrazione sociale. La differenziazione avviene negli strumenti: nell’housing led si lavora solitamente su percorsi di formazione/reinserimento lavorativo e potenziamento delle reti formali e informali, mentre nell’housing first si predispone un percorso di accompagnamento più profondo volto a migliorare la salute fisica e mentale, a supportare psicologicamente la persona e a garantire una sua condizione di benessere. In quest’ultimo approccio non sempre è possibile una piena autonomizzazione delle persone, ma si può comunque garantire a lungo termine una certa stabilità e qualità di vita.
Cambiamento di visione
Le riflessioni circa il profilo e gli interventi hanno, dunque, portato anche ad un cambiamento di visione rispetto alle responsabilità degli attori che a vario titolo si occupano della popolazione homeless. Nonostante, infatti, il diritto all’assistenza da parte dello Stato per tutti quanti siano sprovvisti di adeguati mezzi di sussistenza sia ormai un diritto largamente affermato e non più demandato alla sensibilità e discrezione delle istituzioni caritative private, per questa categoria di persone esso fatica ancora oggi ad affermarsi come dovrebbe. Questo mancato riconoscimento ha innanzitutto ragioni storiche: l’assistenza ai poveri ed ai mendicanti era appannaggio esclusivo delle istituzioni caritative con ottiche piuttosto incompatibili con la moderna idea di cittadinanza sociale. È inoltre da evidenziare la “sfuggevolezza” che caratterizza la homelessness (Tosi 2009): le difficoltà nel definire e quantificare il fenomeno rendono più complessa la progettazione di politiche e interventi corretti e coerenti in questo ambito.
Sulla scia di tali considerazioni, in Italia, nel novembre del 2015 si sono redatte le Linee di Indirizzo per il Contrasto alla Grave Emarginazione Adulta, risultato di un accordo tra il Governo, le Regioni, le Province Autonome e le Autonomie locali in sede di Conferenza Unificata. Le Linee si concentrano sui nuovi approcci housing led e housing first che – in linea con la classificazione ETHOS – pongono un alloggio sicuro quale diritto primario e elemento necessario per uscire dalla situazione di homeless e ricostruire la propria vita.
Anche l’Europa, nel novembre 2017, ha riconosciuto ufficialmente le politiche di housing ed assistenza agli homeless come diritti fondamentali per tutti i cittadini, con l’approvazione del Pilastro Europeo dei Diritti Sociali.
Si è adottato, quindi, un capovolgimento di visione: l’obiettivo ultimo non è più soltanto dare un riparo, un tetto. Piuttosto un alloggio sicuro diviene il necessario punto di partenza per giungere a un obiettivo diverso, ovvero la piena autonomia e realizzazione dell’individuo che si trova in una condizione di estremo disagio sociale, economico ed abitativo ma che non per questo perde i propri diritti a realizzarsi ed a vivere una vita serena.
Necessità di conoscenza: il territorio metropolitano torinese
Come già sottolineato, conoscere il modificarsi del profilo degli homeless e, pertanto, delle modalità di intervento risulta oggi quanto mai fondamentale per affrontare questo fenomeno in chiave più strutturale.
Una recente indagine realizzata per Città metropolitana di Torino ha tentato di quantificare numericamente gli homeless presenti sui territori esterni alla città di Torino e facenti parte dell’ex provincia torinese (figura 1) ed al contempo di mappare la tipologia di strutture e gli interventi dedicati a queste persone.
Figura 1. Concentrazione territoriale homeless sul territorio metropolitano torinese
Fonte: Servizio Politiche Sociali e di Parità, Città Metropolitana di Torino.
L’indagine si è avvalsa del prezioso contributo degli Enti gestori delle funzioni socioassistenziali, enti che gestiscono in modalità associata i servizi sociali territoriali in Piemonte.
L’indagine ha posto in evidenzia che la popolazione homeless risulta più numerosa laddove è maggiore la presa di responsabilità degli enti territoriali e si attua una corretta presa in carico dell’utenza homeless con servizi di segretariato sociale, accompagnamento e progettazione personalizzata; il dato numerico aumenta poiché le presenze vengono annotate puntualmente. Dove invece la presenza di popolazione homeless è scarsa o addirittura assente non è perché non vi siano senza fissa dimora, ma probabilmente perché questi non riescono a giungere al circuito dei servizi pubblici e pertanto non vengono registrati. La non perfetta corrispondenza tra effettiva presenza di homeless e presenze registrate localmente è parsa più evidente attuando un confronto con alcuni dati forniti dalle associazioni di Terzo Settore presenti sugli territori interessati.
L’integrazione e la sinergia tra servizi sociali pubblici e Terzo Settore risultano essere molto scarse sui territori metropolitani torinesi: il 57,7 % delle strutture che si occupano a vario titolo dei senza dimora è gestito da enti appartenenti al Terzo Settore che non sono in alcun modo “in rete” con i servizi pubblici (v. figura 2). Ciò denota una grande difficoltà di coordinamento rispetto ad un fenomeno così complesso ma anche un problema di governance.
Figura 2. Suddivisione percentuale delle strutture pubbliche/private presenti sul territorio metropolitano torinese
Fonte: Servizio Politiche Sociali e di Parità, Città Metropolitana di Torino.
La situazione appare però diversa, se non del tutto capovolta, in alcuni territori anche distanti dal capoluogo o addirittura pedemontani dove invece la maggior parte dei servizi che si occupano di homeless sono pubblici. Se poi accanto alle strutture pubbliche si considerano quelle private gestite in rete con il pubblico, la copertura pubblica supera in alcune zone il 60%.
Secondo l’indagine, la forma di accoglienza più diffusa nei territori metropolitani non è il dormitorio, ma gli alloggi temporanei o housing sociali (nel 46,8% dei casi, v. figura 3). In queste strutture, spesso realizzate in immobili di proprietà dei comuni o di enti di Terzo Settore, è possibile vivere la propria quotidianità con ampie soglie di autonomia ed è prestata partico¬lare attenzione alla dimensione sociale degli ospiti, in linea con gli odierni orientamenti e soprattutto con una concreta possibilità di riappropriazione della propria dignità.
Figura 3: Distribuzione percentuale per tipologia delle strutture presenti sul territorio metropolitano torineseFonte: Servizio Politiche Sociali e di Parità, Città Metropolitana di Torino.
Tutti questi aspetti risultano particolarmente interessanti perché, come accennato, sono spesso presenti non solo in comuni limitrofi alla città di Torino ma anche in territori più distanti o addirittura in aree pedemontane. Questi contesti territoriali potrebbero quindi costituire casi paradigmatici da approfondire per comprendere meglio come riuscire ad aiutare a ricostruire la propria vita chiunque si trovi sulla strada.
I territori metropolitani e le piccole comunità locali: potenzialità e sfide
Le comunità ed i centri più piccoli, magari distanti dai grandi agglomerati urbani, sembrano presentare maggiori elementi di inclusività ed essere pertanto inizialmente più accoglienti, come dimostrerebbe anche il modello di accoglienza “diffusa” già sperimentato riguardo al fenomeno migratorio.
Laddove, infatti, mancavano servizi consolidati e di tipo istituzionale come dormitori o servizi di prima accoglienza si sono sviluppati gli housing sociali, servizi dalla dimensione più dignitosa, maggiormente in linea con la nuova visione con la quale di affronta il fenomeno dell’homelessness.
Il problema resta comunque cosa fare dopo la prima accoglienza. La riflessione più grande dovrebbe cominciare qui. Occorrerebbe valorizzare l’entrata in campo di soggetti diversi (Maino e Ferrera 2017) attraverso una governance adeguata e politiche apposite, valorizzando contemporaneamente le esperienze di welfare locali. Si muovono in tale direzione anche gli orientamenti di alcune politiche regionali, come ad esempio l’Atto di Indirizzo “WeCaRe” della Regione Piemonte.
La “rete” che dovrebbe costituirsi, oltre al pubblico ed al Terzo Settore, dovrebbe tenere conto del privato economico che già sta investendo in politiche di assistenza e di contrasto alla povertà e che però concentra la propria azione sul versante dell’accoglienza e non ancora abbastanza su quello dell’autonomizzazione delle persone senza dimora (De Albertis 2016).
In questo senso appare necessario il superamento della visione assistenziale, che potrebbe essere accompagnato valorizzando le potenzialità dei diversi contesti territoriali e favorendo l’occupabilità a lungo termine di categorie di persone svantaggiate. Il tema della ricostruzione della rete sociale e professionale, sulla quale già si lavora con tirocini di ricollocamento lavorativo e piani personalizzati di intervento, deve essere consolidato anche alla luce della recente misura del REI (Reddito di inclusione). Tirocini e piani personalizzati, da questo punto di vista, dovrebbero essere pensati e progettati per creare reali opportunità di stabilità e non solo la temporanea illusione di un lavoro. La ridefinizione di questi strumenti di intervento dovrebbe perciò riuscire a rafforzare gli strumenti previsti dal REI e, aspetto ancora più importante, raggiungere tutte quelle persone che non sono in possesso dei requisiti necessari per l’accesso alle misure del Reddito di inclusione.
Secondo tale chiave di lettura, la recente approvazione da parte della Regione Piemonte del Patto per lo sviluppo di comunità solidali rappresenta un’occasione particolarmente interessante per cominciare concretamente a mettere in atto il cambiamento di approccio e consentire quindi l’affermazione di una nuova visione di assistenza non più sbilanciata sull’aspetto emergenziale ma tesa a supportare ed accompagnare il superamento del bisogno e la realizzazione personale.
Riferimenti
Baroni W. e Petti A. (2014), Cultura della vulnerabilità. L’homelessness ed i suoi territori, Torino, Pearson.
De Albertis M. (2016), Le politiche di contrasto alla grave emarginazione abitativa: il modello a gradini, in Ires Piemonte, Salute e Territorio, Politiche Piemonte n. 44.
Folgheraiter F. (1998) , Teoria e metodologia del servizio sociale, Milano, Franco Angeli.
Tosi A. (2009), Senza dimora, senza casa: note di ricerca, in Brandolini A., Saraceno C. e Schizzerotto A. (a cura di), Dimensioni della disuguaglianza in Italia: povertà, salute e abitazione, Bologna, Il Mulino.