Il presente articolo è stato pubblicato su Domani del 3 dicembre 2020 ed è qui riprodotto previo consenso dell’autore.
Fin dai giorni in cui si discuteva dell’introduzione del reddito di cittadinanza in Italia, della sua struttura e delle sue finalità, emergevano importanti criticità ignorate dagli estensori del provvedimento, per il carattere politico del provvedimento e per la fretta nella sua introduzione. Oggi, quasi due anni dopo quella fase, Luigi Di Maio, ai tempi ministro del Lavoro e principale sostenitore dello strumento, sembra riproporre esattamente queste critiche. L’accettazione tardiva di quelle che erano fin dall’inizio evidenze innegabili ha generato non pochi problemi per le politiche del lavoro nel nostro paese.
La doppia natura
Il problema principale è stato racchiudere in un unico strumento, il reddito di cittadinanza, diverse funzioni e in particolare sia la lotta alla povertà (nel frattempo per niente abolita) sia le politiche attive del lavoro. Nella mente degli ideatori quindi, la novità sarebbe stata proprio in uno strumento che da un lato supportava le persone in difficoltà economica potenziando le risorse già messe a disposizione dal Reddito di inclusione, creato tardi e con pochi finanziamenti, e, dall’altro, aiutava le persone che percepivano l’aiuto economico a trovare lavoro.
La retorica costruita per presentare lo strumento, e probabilmente per renderlo più digeribile dagli elettori dell’altro azionista di maggioranza, la Lega di Matteo Salvini, ruotava tutta intorno alla rassicurazione che nessuno sarebbe stato “sul divano”. Una retorica influenzata da un’antropologia negativa della povertà che implicava un enorme sforzo, presentato come l’obiettivo principe dello strumento, per formare le persone, rimetterle in gioco, trovare loro un lavoro. Obiettivo che fin da subito è parso a molti irrealizzabile, almeno fino a quando non si fosse messa mano alle fondamenta del poco performante (eufemismo) sistema dei servizi per il lavoro in Italia.
Per la fretta di introdurre subito il Reddito di cittadinanza senza alcuna sperimentazione, si è dato il via alla costruzione di un palazzo senza aver sistemato le fondamenta. Il paradosso è stato quello di procedere alla costruzione parallela di palazzo e fondamenta ossia all’avvio dell’erogazione del reddito nello stesso arco di tempo in cui si iniziava a capire come selezionare i navigator e a come potenziare i Centri per l’impiego.
Le due fasi
La prima ammissione di colpa indiretta è stata l’introduzione, non certo prevista dalla norma, di una Fase 1 di erogazione del reddito e poi, successivamente, di una Fase 2 che doveva coincidere con l’avvio di tutto il sistema delle politiche attive. Una distinzione che è stata fatta passare per normale e all’interno di un tradizionale processo di implementazione ma che in realtà tradiva il fallimento, già scritto sulla carta, di un provvedimento nato male. E il fallimento della Fase 2, che risuona nell’ammissione di Di Maio dei giorni scorsi, è la conferma di questo.
Abbiamo quindi tenuto in vita, con importante dispendio di risorse e di energie, un malato che sapevamo destinato alla morte, e lo abbiamo fatto consapevolmente. Quando la situazione politica è parsa invece favorevole, complice anche la pandemia, ad un allentamento delle posizioni ideologiche originarie, si è iniziato a staccare la spina, che resta però ad oggi ancora saldamente al suo posto.
Ma non dobbiamo solo misurare l’estensione delle macerie, prime tra tutte le politiche attive del lavoro che, mai implementate veramente, sono state bloccate definitivamente dal reddito di cittadinanza, salvo che in poche regioni virtuose.
L’urgenza oggi è quella di riformare rapidamente un modello che non funziona salvando il reddito minimo introdotto e che si è rivelato molto utile anche durante la pandemia, e scorporando tutta la parte di politiche attive. Nel far questo il primo passaggio dovrebbe essere il prendere atto del fallimento del ruolo dell’Anpal (l’Agenzia nazionale per le politiche attive) e quindi procedere alla sua abolizione, seguita da una riqualificazione dei navigator e del loro inserimento nella struttura dei Centri per l’impiego.
Ma soprattutto bisogna avviare un enorme sforzo per costruire ecosistemi territoriali entro i quali sviluppare delle politiche attive che non abbiano nell’attore pubblico l’unico perno. Questo vuol dire coinvolgere imprese, sindacati, scuole, università, agenzie private. Una impresa tutt’altro che facile ma che significherebbe un cambio di rotta vero e significativo, perché purtroppo buona parte del palazzo va demolita, e non certo ricostruita con lo stesso progetto.