Una delle conseguenze dell’aumento della povertà assoluta e relativa in Italia a seguito dell’emergenza pandemica è la difficoltà di accedere ad un cibo adeguato sotto il profilo quantitativo, nutrizionale e sociale. Ad oggi, non esistono stime appropriate sulla diffusione del fenomeno della povertà alimentare, mentre il numero di persone che si rivolgono agli enti di assistenza alimentare rappresenta è solo la punta dell’l’iceberg di un fenomeno molto più diffuso che dovrebbe essere misurato.
Povertà alimentare: un problema (non solo) definitorio
Le ragioni della mancanza di dati attendibili risiedono, da un lato nella oggettiva difficoltà di definire in cosa consista la povertà alimentare; dall’altro per la tendenza a considerarla come una mera conseguenza della povertà economica, perdendo così di vista le molteplici dimensioni che la caratterizzano.
Le conseguenze sul piano delle politiche di contrasto sono evidenti: prevale un approccio quantitativo che mira al soddisfacimento del bisogno e non all’affermazione del diritto. Il cibo, infatti, come la casa, il lavoro, la salute ecc., è un diritto umano fondamentale previsto dall’art.25 della Dichiarazione Universale sui diritti umani, dall’ Articolo 11 del Patto internazionale sui diritti economici sociali e culturali (ICESPR) e adottato in successive dichiarazioni internazionali, costituzioni e leggi nazionali.
Riconcettualizzare la povertà alimentare
Nell’ultimo rapporto pubblicato da ActionAid, “La fame non raccontata. La prima indagine multidimensionale sulla povertà alimentare in Italia e il Covid-19”, il fenomeno della povertà alimentare viene riconcettualizzato e indagato sul territorio metropolitano di Milano per mezzo di interviste qualitative a oltre 50 famiglie distribuite su quattro enti di assistenza alimentare1.
Oltre alle dimensioni materiali, scarsa quantità ma soprattutto qualità del cibo – il cui driver fondamentale è quello della mancanza di reddito – emergono con forza quei fattori cosiddetti immateriali, come la socialità e la dimensione psico-emozionale, che pur essendo più complessi da cogliere, sono incidono in modo determinante sulla qualità della vita e il benessere delle persone che soffrono di povertà alimentare e richiedono una risposta.
Il profilo delle persone colpite
Dall’indagine realizzata da ActionAid è emerso come la povertà alimentare abbia una natura prevalentemente femminile: le donne tendono a svolgere i ruoli principali nella preparazione e nella organizzazione del cibo, a farsi carico dello stress legato alla mancanza di risorse per l’acquisto dei prodotti alimentari, e sono anche le prime che rinunciano al cibo per il loro figli. La povertà alimentare non è tanto e non solo un problema di quantità di cibo – anche se durante il primo lockdown si sono concentrati i casi di riduzione drastica del cibo assunto – ma di qualità e di possibilità di scelta. Una questione di dignità che viene minacciata dalla consapevolezza che non ti puoi concedere altro.
Le famiglie di origine straniera sono particolarmente esposte a questo fenomeno, rappresentando quasi il 60% del campione intervistato. Parliamo di famiglie regolarmente residenti in Italia a cui andrebbero aggiunti quegli irregolari, gli invisibili, che gli enti di assistenza alimentare cercano di intercettare ma che non godono di alcuna rete di protezione sociale. La pandemia ha segnato un aumento nel numero di richieste di aiuto pervenute agli enti di assistenza, ma a rivolgersi a questi centri sono in maggioranza famiglie che già vi facevano riferimento prima, anche se non sono pochi i casi, il 37% degli intervistati, che si sono rivolti ai centri di assistenza successivamente.
Le conseguenze sociali
Ansia, stigma e vergogna sono una costante nelle persone intervistate con conseguenze sul piano psicologico che in alcuni casi hanno richiesto l’intervento di cure specifiche. Tutte le famiglie hanno ridotto le loro opportunità di socialità; il cibo, infatti, è un mezzo fondamentale per la cura delle proprie relazioni sociali: non poter uscire a cena, non poter ospitare persone a casa, non poter portare i propri figli a mangiare una pizza, determina un autoisolamento che contribuisce alla solitudine e all’esclusione sociale. Infine, una dieta sana e adeguata dal punto di vista sociale e culturale costa relativamente molto e queste famiglie non se la possono permettere.
Gli elementi su cui le istituzioni devono ragionare
Queste evidenze interrogano le istituzioni e la loro capacità di fornire risposte efficaci in termini di politiche di contrasto che oggi in Italia appaiono assenti o per lo più inefficaci. La strategia attualmente adottata è, infatti, quella di distribuire più cibo possibile, ne consegue che i programmi, le normative e le politiche si concentrano sul rafforzamento delle filiere di assistenza alimentare attraverso l’impiego di risorse finanziarie e, soprattutto, la redistribuzione delle eccedenze, sebbene non sia ancora dimostrato l’impatto che questi approcci sono in grado di produrre in termini di riduzione della povertà alimentare.
Prevenzione e risposta
Possiamo inquadrare le misure e i programmi di contrasto alla povertà alimentare in due macro-categorie: quelle preventive e quelle di risposta. In Italia osserviamo la prevalenza di queste ultime, a dimostrazione della scarsa capacità di risposta strategica e della prevalenza di un orientamento degli interventi focalizzato sui bisogni delle persone e non sui loro diritti.
Ne sono un esempio le risorse per l’acquisto di derrate alimentari stanziate attraverso il Fondo per il finanziamento dei programmi nazionali di distribuzione di derrate alimentari (Fondo nazionale indigenti) e il Fondo di aiuti europei agli indigenti (FEAD), terminato il 31 dicembre 2020 (con riferimento al ciclo pluriennale finanziario europeo 2014-2020).
A questi due programmi si aggiunge la un’altra importante misura improntata al potenziamento delle filiere di assistenza alimentare, ovvero la Legge Gadda (Legge 19 Agosto 2016, n. 166), nota anche come “legge antisprechi”; i suoi obiettivi vanno oltre l’assistenza alimentare e mirano alla riduzione dello spreco di cibo, favorendo la redistribuzione delle eccedenze per finalità solidaristiche. La legge prevede una serie di agevolazioni amministrative e fiscali per i donatori attraverso la semplificazione delle procedure di donazione rispetto alla distruzione, introducendo inoltre la possibilità per i Comuni di incentivare la donazione alle organizzazioni non profit con una riduzione della tassa dei rifiuti. La logica di fondo di questa misura è la possibilità di creare un meccanismo win-win con cui si fa bene all’ambiente, riducendo lo spreco, e alle persone, redistribuendo le eccedenze a chi ne ha bisogno.
Il nodo delle eccedenze
Le eccedenze alimentari sono diventate una fonte di approvvigionamento fondamentale nell’ambito delle filiere di assistenza alimentare; nel 2020 hanno rappresentato il 68% di prodotti distribuiti del Banco Alimentare Lombardia.
Identificare nella riduzione dello spreco alimentare, attraverso la redistribuzione delle eccedenze, uno strumento chiave per la riduzione della povertà alimentare, oltre a non avere evidenze solide in termini di impatto, contribuisce a promuovere una visione “de-responsabilizzante” delle istituzioni che si limitato a programmi di tipo solidaristico creando un contesto favorevole alla redistribuzione di eccedenze che altrimenti rappresenterebbero un costo ambientale ed economico per il Paese.
La povertà alimentare viene così ridotta a un bisogno materiale e ne consegue che l’intervento di contrasto mira esclusivamente al soddisfacimento di quel bisogno e non alla soluzione del problema di cui quel bisogno è un sintomo, e non sempre il più importante. La distribuzione territoriale di questi prodotti alimentari è, inoltre, garantita da una fitta rete di enti no-profit che rappresentano la spina dorsale dell’assistenza alimentare in Italia, evidenziando ancora una volta il ruolo limitato svolto dalle istituzioni nell’ambito delle politiche di contrasto al fenomeno della povertà alimentare.
I buoni spesa: oltre l’emergenza
Un’ulteriore misura sul fronte delle azioni di risposta è quella dei buoni spesa: 1,3 miliardi di euro da destinare, tra gli altri, all’acquisto di beni alimentari per famiglie in difficoltà.
Una misura ampiamente analizzata nel rapporto di ActionAid che arriva alla conclusione che non rappresentino un efficace strumento di contrasto, da un lato per la logica con cui sono stati pensati, ovvero la loro natura emergenziale, l’accesso eccessivamente selettivo, le risorse scarse, il progressivo allargamento delle maglie di spesa e la logica di intervento una tantum; dall’altro per l’assenza di un quadro strategico di contrasto di riferimento e la scarsa integrazione con le politiche di welfare locale.
Tuttavia, conclude il rapporto, qualsiasi serio dibattito nel nostro Paese sulle politiche di contrasto alla povertà alimentare dovrà inevitabilmente partire da una valutazione delle lezioni apprese attraverso l’esperienza di questa misura che propone una modalità, quella del voucher alimentari, interessante dal punto di vista del superamento di un approccio meramente di stampo assistenziale.
La debolezza della prevenzione
Ma è sul fronte delle azioni preventive che emerge la debolezza e l’assenza di un quadro strategico a livello di istituzioni nazionali capace di dare una risposta alle cause della povertà alimentare.
Il fulcro di queste misure è il sostegno al reddito. Le misure attualmente in vigore, come il Reddito di Cittadinanza, pur rappresentando un aiuto fondamentale per le famiglie povere, sono tuttavia insufficienti a garantire l’accesso a un cibo adeguato ed è fondamentale che vengano significativamente rafforzate – in linea con i costi di un paniere di beni, anche alimentari, necessari a condurre una vita dignitosa – e non smantellate.
Un’altra fondamentale misura di prevenzione della povertà alimentare è la mensa scolastica (di cui Franca Maino e Celestina Valeria De Tommaso si sono recentemente occupate qui). Il pasto a scuola è uno strumento fondamentale di welfare e di inclusione, oltre che di contrasto alla dispersione scolastica. Tuttavia, trent’anni di progressivo smantellamento dello Stato sociale hanno configurato la questione del pasto a scuola in termini di salute e non di welfare. Una politica di contrasto alla povertà alimentare non può prescindere dalle mense scolastiche, per questo è fondamentale che l’accesso sia garantito senza nessuna esclusione per tutti i bambini, configurandolo come servizio essenziale, e non più a domanda individuale, e assicurandone la gratuità per le fasce più povere.
Un fenomeno complesso che richiede risposte inclusive
In conclusione, è importante andare oltre una visione monodimensionale e spesso “buonista” della povertà alimentare. Siamo di fronte a un fenomeno estremamente complesso, che ha radici profonde e diverse sfaccettature che vanno ben oltre l’espressione di un bisogno materiale, inizialmente il più evidente. La povertà alimentare come abbiamo visto è un fenomeno in aumento che riguarderà molte famiglie nel nostro Paese nei prossimi anni.
Per questo la sfida da raccogliere è quella di sviluppare politiche di contrasto che superino la mera logica della distribuzione alimentare in favore di modelli in grado di garantire un reddito sufficiente a condurre una vita dignitosa.
In questo ambito la solidarietà gioca ancora un ruolo chiave, è un elemento fondamentale per creare comunità coese e inclusive. E gli attori del privato sociale devono essere rafforzati e meglio integrati all’interno dei sistemi di welfare territoriale, sebbene non possano sostituirsi allo Stato nelle pratiche di contrasto alla povertà alimentare: garantire il diritto umano a un cibo adeguato, sano e giusto è in ultima battuta un dovere delle Istituzioni e le nuove politiche dovranno tener conto delle complessità per vincere questa sfida.