Da settembre 2020 il Network di Percorsi di Secondo Welfare si è arricchito di un nuovo membro: Slow News. Fondata nel 2014, questa testata online si ispira alla filosofia del “giornalismo lento”. Con Secondo Welfare, Slow News condivide la convinzione dell’importanza di assicurare alla propria comunità di riferimento un’informazione attenta alle dinamiche di lungo periodo, documentata, rigorosa, sostenibile e facilmente accessibile. Una forte connessione con le rispettive comunità di lettrici e lettori assicura che le attività di informazione non perdano di vista l’obiettivo comune – declinato secondo modalità diverse – di essere “giornalismo di servizio”.
Ma che cos’è esattamente il movimento dello slow journalism a cui si ispira Slow News? E in questa prospettiva, quale può essere il suo contributo per interpretare e affrontare le sfide e le trasformazioni in atto nei nostri sistemi di welfare? Ne abbiamo parlato con Alberto Puliafito, fondatore e direttore di Slow News.
Alberto Puliafito, per iniziare puoi spiegarci in che cosa consiste il movimento dello slow journalism?
Lo slow journalism nasce in posti diversi quasi contemporaneamente all’inizio degli anni ’10 del 2000 prima di tutto come reazione al giornalismo “veloce”, quello che cerca di acchiappare clic, di fare rumore, di attirare disperatamente l’attenzione di lettrici e lettori, quel giornalismo che produce centinaia di contenuti tutti i giorni, che paga poco le persone che ci lavorano dentro, che non si prende il tempo per verificare, per approfondire, per uscire con gli articoli quando sono davvero pronti e accurati. E non mi riferisco a refusi o errori che possono sempre scappare. Mi riferisco alla superficialità e alla sciatteria che derivano direttamente dall’aver deciso che il giornalismo deve essere veloce e deve essere “volumetrico”, quantitativamente elevato.
Non si tratta solo di una reazione filosofica. Ci sono almeno quattro crisi del giornalismo contemporaneo – con meravigliose, illustri o anche meno note eccezioni – che devo per forza raccontare per spiegare, poi, le caratteristiche dello slow journalism.
Raccontiamo allora queste quattro crisi del giornalismo…
Innanzitutto, assistiamo a una crisi economica e di modello di business: la pubblicità cala, le vendite pure, gli abbonamenti sul digitale non compensano questi cali. Il modo in cui si è evoluta la tecnologia ed è cambiato lo scenario rispetto all’era industriale, quella in cui il giornalismo tutto sommato deteneva l’oligopolio dell’informazione, ha tagliato le gambe al vecchio modello di business e non c’è più un modello univoco per tutti che possa funzionare. La seconda è una crisi d’identità: la difficoltà di riuscire a trovare una dimensione nell’ecosistema digitale dove chiunque diventa produttore e diffusore di contenuti, avendo investito poco o niente in formazione permanente e in ricerca e sviluppo, con il risultato di avere spesso informazione digitale sciatta; danneggiando anche la carta, ovviamente. A questa si aggiunge una crisi che definisco professionale: in Italia, i posti fissi sono rimasti appannaggio di pochissimi, si è generato un solco e chi sta al di qua del solco si trova proposte di lavoro a 3 euro lordi a pezzo o meno per decine, centinaia di “pezzi” al mese. E anche i grandi player pagano pochissimo i loro collaboratori, che nella maggior parte dei casi sono quelli. L’innovazione latita e i concetti più contemporanei (come quelli della membership, cioè del creare un senso di appartenenza alla testata da parte di lettrici e lettori) latitano, mentre ci si perde in illusorie battaglie di retroguardia o addirittura del tutto fuori fuoco, come quella per proteggere con il copyright i pezzi giornalistici. Infine, una crisi di fiducia: i rapporti che analizzano la fiducia delle persone nelle istituzioni (come il rapporto Edelman) raccontano di una fiducia in calo ogni anno nel giornalismo e nei giornalisti così come in tutte le istituzioni
Le quattro crisi sono chiare. Ma quali sono le caratteristiche distintive dello slow journalism? E in che modo possono costituire una riposta a queste crisi?
Queste quattro crisi non si possono risolvere separatamente: sono collegate le une alle altre. Semplifico per chiarire: trovo un pezzo sciatto su un giornale mi fido un po’ meno, vorrò pagarlo un po’ meno, quel giornale rincorrerà più pubblicità, si interesserà un po’ meno a me, pagherà un po’ meno chi lavora. Tutto questo elevato alla quantità di testate-giornali-contenuti-lettrici-lettori.
Ora, se lo slow journalism è una reazione, propone anche soluzioni possibili a queste crisi. Le sue caratteristiche principali sono:
- visione del giornalismo come servizio e non come prodotto
- separazione totale fra giornalismo e pubblicità
- la tecnologia è un mezzo, il giornalismo aumenta di valore grazie ad essa
- l’obiettivo è fornire un servizio di valore per le persone e lavorare per la funzione primaria del giornalismo: essere uno dei pilastri della democrazia e dell’equità
- attenzione a bisogni, problemi, paure, sogni, desideri delle persone
- le persone sono competenti: la redazione “genitrice” smette di essere paternalista e scende dal piedistallo per parlare fra pari. Riconosce il valore delle competenze delle altre persone che può essere raccontato dal valore delle competenze giornalistiche
- relazionalità e conversazione: parte del lavoro richiede una modalità di ascolto e di conversazione nonviolenta con i pubblici, anche quelli che hanno visioni politiche diverse da quelle di chi propone il proprio giornalismo
- ecologia (digitale): tendiamo alla massima ecologia possibile dell’ecosistema che abitiamo, quindi anche quello digitale
- approccio olistico ai problemi: non viviamo in camere stagne dove prima risolvi il problema del sostegno alla povertà e dopo ti dedichi a quello del clima
- modello di business che punta prima di tutto alla sostenibilità (anche delle vite) di chi lavora e alla sostenibilità in senso più ampio: crescita lenta, strutturata e solida, con creazione di valore
- modello di business basato sulla membership: si chiede alle persone di pagare. In alcuni casi (come facciamo noi in Slow News) la scelta è addirittura di dire: «paga quanto ritieni giusto per leggerci», perché il giornalismo non può essere una questione di censo. Altrimenti rimane un giocattolo per ricchi
- modello di business che diversifica le fonti di entrata, ad esempio vendendo corsi di formazione, organizzando eventi dal vivo, agendo come service verso realtà che condividono i valori dello slow journalism, facendo attività consulenziali, partecipando a bandi, accettando donazioni da fondazioni o realtà che garantiscano assoluta indipendenza editoriale
- distacco dalla frenesia delle breaking news per concentrarsi su argomenti fondativi. Ad esempio: non parliamo del singolo vip che si ammala di Covid. Parliamo piuttosto dello stato dell’arte della sanità pubblica e di come si potrebbe migliorare. Facciamo reportage sui temi dell’Agenda 2030. E così via
- racconto dei problemi ma anche proposta di soluzioni sulla base di dati, analisi, esperienze. Pensiamo che fare i watchdog significhi dare alle persone tutti gli strumenti per acquisire informazioni e scegliere meglio
- contenuti revisionati, accurati, che diventano un vero e proprio asset da valorizzare nel tempo: per questo i contenuti si editano, manutengono, si arricchiscono, si ripropongono
- trasparenza nell’esplicitare i ricavi ma anche nel raccontare perché è stato scritto un pezzo
- ricerca della diversity, cioè di diversi punti di vista. Non vuol dire fare “le quote”. Vuol dire che, se devo raccontare storie, devo essere capace di rappresentarle anche secondo i punti di vista protagonisti di queste storie. Ci sono giornaliste e giornalisti di diverse provenienze sociali, culturali, geografiche, che si identificano in diverse comunità. Di solito, il giornalismo italiano è a forma di maschio-bianco-over-50-paternalista-autoritario
- co-creazione con chi ha sottoscritto la membership: co-creazione dei contenuti, delle storie, lettrici e lettori possono diventare anche advisory board dei pezzi in anteprima
- attenzione ai temi: parliamo di crisi climatica, di povertà, di lavoro, di infanzia, di vecchiaia, non perché balzano agli onori delle cronache ma perché sono storie che ci riguardano davvero e ci rendono più forti come comunità
Un vero e proprio “manifesto”. Forse è per questo che sul sito di Slow News lo slow journalism è definito una “rivoluzione”? Ma si può davvero usare questo termine?
Be’, se rileggo la risposta di prima mi sento di dire: sì. Ho fatto un elenco lunghissimo e sicuramente avrò tralasciato qualcosa. Portare questo approccio culturale, economico, di attenzione alla comunità umana (perché è di questo che stiamo parlando, prima ancora che di giornalismo) è una vera rivoluzione, se pensi che il giornalista tradizionale è quello che sa cosa è meglio per te, che spesso si trasforma in narratore onnisciente, che addirittura, in quel genere letterario tutto italiano che è il retroscenismo, ti racconta i pensieri dei politici.
Come vedi non c’è niente che abbia direttamente a che fare con la velocità e non c’è solamente una reazione, ma c’è una forte pars construens. C’è tantissimo che ha a che fare con il metodo. E si vedono gli SDGs dell’Agenda 2030 un po’ ovunque, anche se non li ho citati esplicitamente.
Quindi, sì, è una rivoluzione: non è un termine buttato lì a caso. Anzi, grazie per le due domande concatenate, perché mi sono servite.
Mi sembra che rifuggire da quello che definite “istantismo” e prestare attenzione alle dinamiche di medio-lungo periodo siano alcuni dei punti di contatto fra l’approccio dello slow journalism e quello adottato su questo sito. In base alla vostra esperienza, quali sono i nessi fra questo modo di fare informazione e i temi specificamente legati alle trasformazioni del welfare?
Eh, i punti di contatto sono proprio quelli che dicevamo prima: occuparsi di temi fondativi e importanti per la società cercando di dare un contributo, con attenzione generale ai grandi temi (e dunque, per esempio, agli Obiettivi di sviluppo sostenibile) senza dimenticarci della vita reale delle persone.
Provo a fare un esempio pratico: se il giornalismo continua a prendere in giro chi ha idee che appaiono balzane (pensa ai complottisti di ogni genere), invece di porsi, per esempio, il problema della povertà educativa, come può parlare a persone che non hanno avuto la possibilità di ricevere un’istruzione che consenta loro di essere pienamente integrati nella contemporaneità, o a persone che non vivono al di sopra della soglia di povertà? Continuerà a rimanere un prodotto per un’élite e il solco fra quel prodotto e quell’élite diventerà incolmabile. Continuerà a “blastare” [attaccare e zittire l’interlocutore dall’alto di una presunta superiorità intellettuale e morale; nda] i populisti senza chiedersi perché ci siano persone per cui quei populisti rappresentano qualcosa di solido a cui aggrapparsi. Ecco perché giornalismo slow e welfare sono strettamente legati.
Nel 2021 Secondo Welfare festeggerà i primi 10 anni di attività presentando il proprio Quinto Rapporto biennale. Slow News è un po’ più giovane, ma quali obiettivi si pone per l’anno venturo?
Stiamo costruendo una serie che si chiama Il Mondo Nuovo: più ci lavoriamo più ci rendiamo conto che diventerà il cuore di tutto il progetto e che è fortemente legata all’Agenda 2030 e ai suoi diciassette obiettivi.
Per l’anno venturo speriamo di raggiungere un po’ di stabilità economica: non manca moltissimo, avendo ridotto al limite i costi fissi, la nostra sostenibilità dipende solamente da quante persone crederanno nel nostro progetto a tal punto da darci anche un sostegno economico.
Per farlo, continueremo ad associare alla parte a pagamento del nostro sito (anche se, ripeto, è un “paga quanto puoi”) una parte di iniziative gratuite, di contenuti relazionali che parlino dei problemi reali alle persone, di “live” sui social anche insieme a voi, perché i vostri temi e il vostro lavoro riguardano uno dei pilastri del giornalismo slow.