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I dati della profonda crisi demografica verso la quale ci stiamo dirigendo sono ampiamente condivisi in ambito scientifico. L’evidenza dei numeri è tale che mette d’accordo tutti. Più complicata – e per ora infruttuosa – è la riflessione sulle contromisure da adottare in tempi brevi per affrontare, o quantomeno mitigare, i problemi che ci troveremmo davanti. Personalmente credo che l’anello da afferrare e tirare con forza sia quello della maggiore partecipazione al lavoro. Si formano poche giovani coppie perché all’età giusta non si è ancora in grado di finanziare adeguatamente un nucleo familiare autonomo.

È il mancato ingresso nel mercato del lavoro la causa prima che porta a rinviare sine die i progetti di vita. L’anno che sta iniziando vede la reintroduzione degli incentivi statali alle assunzioni di giovani che solo per il 2018 riguarderanno gli under35 (dal 2019 la platea si restringerà agli under30). Si tratta di sgravi contributivi per i datori di lavoro privati che impiegheranno un giovane con contratto a tempo indeterminato.

Funzioneranno? C’è sicuramente da sperarlo. Negli anni passati gli incentivi avevano spinto molte aziende a stabilizzare i loro precari o comunque ad allargare la pianta organica, successivamente esaurita la spinta dei bonus abbiamo visto le imprese utilizzare massicciamente i contratti a termine. Cambierà qualcosa? Dovrebbero bastare tre o quattro settimane per capirlo ma – lo ribadisco – la partecipazione al lavoro mi sembra la conditio sine qua non per poter mettere in campo politiche demografiche che aumentino significativamente la natalità e consentano ai giovani di programmare il loro itinerario. Sono però convinto che dietro la drastica diminuzione delle nascite non vi siano solo questioni materiali, legate a fattori economici.

Sicuramente dei provvedimenti di sostegno alle famiglie numerose sarebbero un segnale forte, farebbero capire a tutti che la politica ha scelto di combattere la “battaglia demografica” e di non rassegnarsi al declino irreversibile della natalità. Ma ci sono fattori sociologici altrettanto forti che vanno analizzati e in qualche maniera contrastati. L’idea che si è fatta largo ed è divenuta maggioritaria soprattutto tra le nuove generazioni riguarda il rapporto tra stili di vita, libertà personale e procreazione. Quando poi queste tendenze culturali si sommano a modelli organizzativi cittadini che non si possono definire children friendly il mix diventa estremamente negativo.

Il caso di Milano, anche da questo punto di vista, è estremamente significativo. L’alta partecipazione delle donne al lavoro pari all’80 per cento delle adulte – anche in posizioni non ghettizzate nelle professionali tradizionali della scuola e della sanità – la rende simile a Londra e più avanti rispetto a Stoccolma ma ha il corrispettivo di un’elevata percentuale di single. Tra le residenti in città meno della metà, ovvero il 47%, ha figli. La risposta che davanti a questi dati viene spontanea chiama in causa le carenze dei servizi pubblici (dagli asili nido in avanti) ma una buona ricerca sul campo sulle motivazioni di scelte di vita così nette ci potrebbe fornire molti elementi di conoscenza in più.

Questo articolo è stato pubblicato all’interno dell’inserto del Corriere della Sera, Buone Notizie, del 10 gennaio e qui riprodotto previo consenso dell’autore