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Aprendo la porta di casa una volta la settimana trovo una cassetta di frutta e una di verdura, provenienti da un produttore ecologico del territorio e depositate prima dell’alba da un trasportatore di cui conosco solo il nome: Marcos. Chiara l’origine, ispanica. È passato il 1° maggio, e in vari commenti sono stati ricordati i lavoratori oggi giustamente definiti “essenziali” che stanno assicurando servizi di vitale importanza per la nostra sopravvivenza in questo tempo sospeso. Lavoratori spesso umili, malpagati, dall’occupazione precaria se non addirittura irregolare.

I riflettori però non si sono accesi compiutamente sulle origini di questi lavoratori: su quanto cioè tra i lavoratori essenziali incida la componente di origine immigrata. Se complessivamente gli immigrati rappresentano il 10,6% dell’occupazione regolare del nostro paese (in cifre, 2,45 milioni), proprio nei settori cruciali per il funzionamento quotidiano della società e nei lavori manuali che li sostengono il loro lavoro è ancora più determinante. L’agricoltura è il caso più noto: 17,9%, senza contare l’occupazione non dichiarata. Allo stesso livello i servizi alberghieri.

Ma il dato s’impenna in quelli che l’ISTAT definisce “servizi collettivi e personali”: 36,6%. Troviamo qui il fenomeno delle assistenti familiari, dette riduttivamente badanti, ma anche altre categorie non adeguatamente riconosciute: in molte regioni, per esempio, gli addetti alle mansioni ausiliarie della sanità e dell’assistenza residenziale. Ricordiamo giustamente i medici in prima linea, spesso gli infermieri (in Lombardia, anche fra di loro uno su tre è immigrato), ma se gli ospedali e le RSA funzionano è anche grazie al lavoro semi-nascosto di questi operatori di base, che pure si sono esposti al rischio di contagio per attendere ai loro compiti. Pulizie, magazzini, servizi di recapito sono altri settori ad elevata incidenza di lavoro immigrato: di tutti stiamo scoprendo la necessità, la scarsa visibilità pubblica, le modeste ricompense. Non sempre l’origine di chi li svolge: se si vuole, il colore.

Negli Stati Uniti, un rapporto del Center for Migration Studies di New York uscito proprio il 1° maggio ha reso noto che gli immigrati stranieri forniscono 19,8 milioni di lavoratori ai settori strutturalmente essenziali, concentrati proprio negli Stati più colpiti dalla pandemia. Sono per esempio il 33% dei lavoratori della sanità dello Stato di New York e il 32% in California. “Nel mezzo della pandemia e nei luoghi in cui sono più necessari, gli immigrati stanno lavorando per fermare la diffusione del COVID-19 e per sostenere i loro concittadini statunitensi, spesso con grande rischio personale – ha dichiarato Donald Kerwin, direttore esecutivo del Centro. Questi stessi lavoratori saranno essenziali per la ripresa economica. Meritano il nostro sostegno e la nostra gratitudine”.

Impegniamoci anche noi, prima di tutto a riconoscere ora il loro apporto più di quanto non sia fin qui avvenuto, poi a non dimenticarcene quando usciremo dall’emergenza, e infine a rimuovere ingiustizie e discriminazioni. Per esempio nelle norme sulla cittadinanza. La società sta insieme e funziona se le sue diverse componenti collaborano e si sostengono a vicenda.

Questo articolo è stato pubblicato su Avvenire del 7 maggio ed è stato qui riprodotto previo consenso dell’autore.