Continuità nella discontinuità. È facile giocare con le parole, rischiando però di banalizzare una situazione di grave difficoltà che già riguarda e probabilmente riguarderà molte imprese, anche sociali, nei prossimi mesi. Le misure adottate dal governo sembrano destinate più ad anestetizzare piuttosto che a cercare di risolvere i problemi: la sospensione dei mutui, la cassa integrazione, i contributi a fondo perduto. Tutti interventi che, seppur utili, scontano due limiti importanti: il primo è la difficoltà, tutta burocratica, di implementare le misure per cui i soldi stanziati non arrivano tempestivamente e dove dovrebbero arrivare. Il secondo è il corto termine e in questo caso l’invocata continuità aziendale rischia di essere conservativa perché si tratta di misure di recovery atte più a tenere le imprese in linea di galleggiamento fino al porto di rimessaggio piuttosto che riattrezzarle per consentire di affrontare mercati le cui turbolenze nascondono insidie ma anche opportunità da cogliere. Conservare lo status quo rispondendo con misure a breve termine sembra quindi essere la soluzione per il periodo a venire. Non una grande strategia, soprattutto se all’orizzonte si profilano mutamenti a livello sistemico

In questo quadro di cambiamento l’innovazione rischia di finire fuori gioco. Non solo per mancanza di risorse che la finanzino e neanche per un deficit di propensione alla sperimentazione, ma soprattutto per difficoltà a mettere a regime cose nuove già prototipate. Un problema che chiama in causa le compagini imprenditoriali e manageriali che presidiano ricerca e sviluppo, progettazione, finanza e fund raising ma anche dipendenti, clienti e altri stakeholder capaci di restituire, se non proprio indicazioni precise, almeno un sentiment positivo rispetto alla possibilità di provare e soprattutto adottare il cambiamento. Dopo una prima fase in cui lo shock pandemico ha innescato innovazioni dal marcato carattere soluzionista e contestuale, dettate dal qui ed ora della crisi, nella “fase due” sembra prevalere una situazione di attesa. Forse per il fatto che molte imprese, soprattutto quelle colpite direttamente, sono esauste a livello di risorse ed effort o forse anche per il fatto che il futuro, anche immediato, si fa più incerto e ambivalente negli esiti rispetto a quando il problema “si è parato davanti” in modo drammatico. Ora si tratta di avviare una riprogettazione profonda verso una transizione che rischia di essere lunga e tormentata (con lo spettro di nuovi lockdown) per approdare a uno stato delle cose rispetto al quale “l’andrà tutto bene” tende a scemare in favore di un “andrà semplicemente un po’ peggio” come ricordava, da par suo, Michel Houellebecq. Complice la gestione non politica della crisi che si trascina, ormai come dato strutturale, una situazione di disallineamento istituzionale e di atavica inefficienza. Complice anche, va detto, uno iato sempre più evidente tra il vaticinio di un cambio di paradigma e la capacità – limitata – di portarlo a compimento attraverso processi di produzione e di governance alternativi che siano davvero all’altezza della sfida.
 
È forte quindi la tentazione di attendere gli eventi mettendo in stand by i laboratori di ricerca e sviluppo che nel frattempo si sono riempiti di prototipi rimasti colpevolmente allo stato larvale e a rischio di obsolescenza, poco utili per costruire e gestire la “nuova normalità”. Meglio quindi dirottare le energie residue su azioni di lobby finalizzate, da una parte, a influenzare le linee guida per il riavvio dei processi produttivi confidando (o autoilludendosi) che da esse vengano indicazioni chiare e definitive su come procedere. Dall’altra negoziare (o come si preferisce dire “coprogettare”) l’accesso a risorse già stanziate da accordi e contratti precedenti, magari prolungandone la durata oltre la scadenza naturale. Soluzioni comprensibili ma che hanno il fiato corto, non solo per il fatto che la (dura) realtà dice di risorse limitate sia nell’ammontare che nella capacità di allocazione, ma soprattutto perché è dietro l’angolo il rischio di cristallizzare ulteriormente routine e logiche organizzative desuete facendo precipitare l’imprenditoria, anche sociale, in una logica conservativa o di adattamento incrementale che non solo non è coerente rispetto all’intento trasformativo che la connota ma non è al passo con il carattere mutante questo tempo. Pensare di affidare la ripartenza a linee guida di tipo regolativo e affidarsi a soluzioni iper-mirate è una strategia di prima risposta all’emergenza ma siamo ben oltre il periodo di re-azione , questo è il tempo di imparare dalle strategie emergenti per costruire politiche di medio termine e dare una direzione chiara sul modello di sviluppo.
 
In sintesi quel che potrebbe succedere è una temporanea messa in sicurezza però al prezzo di smarrire il purpose imprenditoriale legato alla generazione di valore attraverso l’ars combinatoria delle risorse. Una perdita che rischia di essere ancor più evidente nel caso dell’impresa sociale perché il prolungamento dei contratti magari siglati poco tempo fa ma in un’“epoca precedente” dovrebbe misurarsi con una domanda di beni e servizi di utilità sociale profondamente mutata e, più in generale, con nuove concezioni di che cosa significa, oggi, perseguire obiettivi di “interesse generale”. Il desiderio di cambiamento che queste imprese stanno manifestando andrebbe cavalcato non solo con interventi che tamponano ma con politiche di ampio respiro che permettono di mettere a sistema il sostrato di esperienze, attivazioni, idee di futuro che si stanno prospettando in questa fase.
 
Che fare quindi? La sfida è di ricercare un modello crescita evitando la scorciatoia di uno status quo che rischia di trasformare la bassa crescita che in anni recenti ha progressivamente connotato anche l’imprenditoria sociale, in particolare quella impegnata nei mercati pubblici, in una situazione di pericoloso stallo. La crisi prossima ventura investirà infatti sia il versante della domanda che dell’offerta per effetto di un combinato disposto rappresentato dalla contrazione delle risorse e dal downgrade su beni e servizi essenziali. Il classico terreno di caccia per modelli di business come quelli delle piattaforme digitali in grado di operare in mercati polverizzati in micro-prestazioni e di ricavare profitto anche da settori a bassa marginalità, oppure come quelli di stazioni appaltanti orientate da strategie di acquisto ribassiste in termini economici e, inevitabilmente, di qualità. Parlare di sviluppo significa quindi prendere di contropelo le imprese chiedendo uno sforzo supplementare per mettere mano all’organizzazione non solo in termini di compliance della normativa pandemica e di agire, ancor più in profondità, sulle motivazioni che animano le compagini imprenditoriali e i loro stakeholder.
Ecco alcune proposte:
 
  • cimentarsi in progetti disruptive che in questa fase significa ricercare uno stretto legame tra marginalità economica e impatto sociale assegnando uno spazio prevalente al potenziale di scalabilità più che all’applicazione circoscritta.
  • trasferire in modo intenzionale know how e modelli di servizio direttamente a chi è in grado di metterli meglio in atto, ritagliandosi un ruolo di abilitatore che, a determinate condizione, sceglie di “perdere il controllo” su alcune delle proprie attività.
  • investire su figure professionali in grado di potenziare l’utilizzo di tecnologie agendo sia sulle modalità che sulle culture d’uso di queste ultime, identificando in questo ambito un bacino di nuova leadership.
  • ripresa del dialogo con gli stakeholder (lavoratori, utenti, comunità locali, istituzioni) allo scopo di rafforzare gli standard e il sentiment di sicurezza a ulteriore garanzia rispetto a quanto previsto dalle norme attraverso patti condivisi sulla gestione del rischio.