Lo sfruttamento in agricoltura
L’obiettivo 8 dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile dell’ONU recita: “Incentivare una crescita economica duratura, inclusiva e sostenibile, un’occupazione piena e produttiva ed un lavoro dignitoso per tutti”. Un obiettivo quanto mai ambizioso in un contesto sociale ed economico nel quale il lavoro ha subito un lungo processo di impoverimento e precarizzazione. L’Italia, da questo punto di vista, presenta un quadro particolarmente critico, si pensi alla diffusione del lavoro povero e di quello irregolare e senza tutele.
In questo quadro fosco, il settore agricolo presenta specifiche criticità dal punto di vista contrattuale e delle condizioni di lavoro. Si tratta infatti di un settore particolarmente esposto a contratti di breve durata, anche a causa della stagionalità che lo caratterizza (come ricorda il quaderno dell’Osservatorio Placido Rizzotto) e che presenta uno dei tassi di irregolarità e di grave sfruttamento più elevati nel mercato del lavoro.
L’Italia, in particolare nell’ambito agricolo, è inoltre caratterizzata dalla capillare diffusione del fenomeno del caporalato. Il termine viene dai cosiddetti caporali, intermediari illegali preposti all’arruolamento della manodopera e spesso anche al suo sfruttamento. I caporali generalmente sottraggono ai lavoratori somme di denaro per gli spostamenti, per il vitto e l’alloggio, lasciando a chi lavora paghe orarie bassissime. Questo fenomeno si lega a ghettizzazione e degrado.
Il quadro delle politiche
Quindici anni fa, il tema del caporalato era poco dibattuto e conosciuto (o sembrava relegato in un lontano e arcaico passato). Nel 2011 viene organizzato il primo sciopero dei braccianti a Nardò in Puglia da Yvan Sagnet, ora scrittore e attivista, e qualcosa inizia a cambiare. Negli anni successivi l’azione di advocacy dei sindacati e dell’associazionismo, oltre al clamore mediatico suscitato da alcune morti nelle campagne e scioperi, portano nel 2016 all’approvazione della Legge contro il caporalato.
La Legge 199/2016 punisce sia coloro che reclutano forza lavoro per lavori che si svolgono in condizioni di sfruttamento sia coloro che impiegano la manodopera in tali condizioni e rappresenta per tutti gli esperti una conquista fondamentale. Per Jean-Renè Bilongo, capo Dipartimento Politiche migratorie, Inclusione e Solidarietà Sociale della FLAI CGIL e presidente dell’Osservatorio Placido Rizzotto: “è importante sottolineare l’efficacia dell’impianto repressivo della Legge. Tuttavia, la Legge prevede anche una parte preventiva con l’istituzione della Rete del lavoro agricolo di qualità che però stenta a decollare nei territori” (si veda qui per saperne di più).
Di grande importanza è stata l’istituzione nel 2018 da parte del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, del Tavolo nazionale di contrasto al fenomeno del caporalato e dello sfruttamento lavorativo in agricoltura, basato sulla concertazione di diversi attori istituzionali a livello centrale e decentrato in rappresentanza dei lavoratori, imprenditori agricoli e del Terzo Settore. Riferimenti cardini nel contrasto allo sfruttamento sono il “Piano triennale di contrasto al caporalato” e “Le linee guida nazionali in materia di identificazione, protezione, assistenza alle vittime di sfruttamento lavorativo in agricoltura”.
Di recente, il PNRR ha stanziato 200 milioni ai Comuni per il superamento degli insediamenti abitativi informali. Sul piano delle politiche è importante inoltre fare riferimento ai cambiamenti intervenuti anche a livello europeo, ad esempio con l’introduzione della clausola sociale nella Politica Agricola Comune che entrerà in vigore nel 2023, prevedendo sanzioni per le aziende che non rispettano i diritti dei lavoratori (si veda qui). Inoltre, è importante ricordare in questo quadro la proposta di direttiva europea sugli obblighi delle imprese in tema di ambiente e diritti umani (la Direttiva Due Diligence).
Tra advocacy e interventi sociali
Alla conoscenza del fenomeno, ha contribuito in questi anni realtà come l’Osservatorio Placido Rizzotto della FLAI CGIL che ha raccolto dati sulla sua diffusione, spiegando come lo sfruttamento in agricoltura sia diffuso in tutta la penisola e, non solo a Sud, e coinvolga sia lavoratori stranieri sia lavoratori italiani.
Negli anni sono cresciute inoltre la sensibilità e la conoscenza del funzionamento complessivo della filiera del cibo. L’associazione Terra con inchieste giornalistiche, podcast e campagne informative ha raccontato, ci dice Maria Panariello, come “l’iniqua distribuzione dei costi lungo la filiera agricola favorisca il diffondersi di forme di sfruttamento, spingendo i produttori agricoli a comprimere il costo del lavoro. Da questo punto di vista l’abolizione delle aste al doppio ribasso ha significato un importante conquista nella direzione di un sistema più equo”. L’associazione ha inoltre contribuito a mostrare come lo sfruttamento in agricoltura sia un fenomeno europeo e non solo italiano.
Oltre all’advocacy e alla divulgazione, Terra si occupa anche di interventi sociali rivolti a lavoratori agricoli e aziende. Ad esempio, nell’ambito del progetto Diagrammi, finanziato con il Fondo asilo migrazione e integrazione (Fami), promuove percorsi di integrazione-socio lavorativa dei lavoratori agricoli, con attività di informazione, formazione e assistenza.
Lo scrittore e attivista Yvan Sagnet su questo punto ribadisce l’importanza di intervenire sul funzionamento della filiera, oltre che sugli aspetti sociali dello sfruttamento. Anche la sua Associazione No Cap si divide tra advocacy e pratiche concrete portando avanti iniziative volte a offrire alloggi dignitosi, trasporti e assistenza legale e informazione ai lavoratori agricoli. Inoltre, No Cap “si occupa di intermediare tra produttori agricoli e grande distribuzione, ricostruendo dal basso una filiera rispettosa dei diritti e dell’ambiente”.
Ma sono molte le realtà che a vario titolo si occupano di questo tema. Diverse interessanti iniziative sono state sperimentate grazie a fondi europei, come ad esempio il progetto SIPLA che con una rete di 50 soggetti del Terzo Settore promuove interventi di sostegno legale, informativo, sanitario e di inserimento legale. Ma si potrebbero citare vari altri progetti locali, ad esempio il progetto Buona Terra in Piemonte, capaci di mettere in rete soggetti pubblici e privati nel contrasto al fenomeno.
Sono dunque diversi gli attori impegnati nello sperimentare nuove soluzioni a livello locale e contestualmente avanzare richieste alla politica per aggredire alla radice il fenomeno. Tuttavia, le iniziative dell’associazionismo rimangono su scala ridotta. Inoltre, politiche e progetti a livello locale, anche quando virtuosi, necessiterebbero di divenire strutturali, anche grazie a politiche pubbliche che oggi sono pressoché assenti.
Le politiche che mancano contro il caporalato
Per Yvan Sagnet di No Cap, da una parte sarebbe necessaria l’intensificazione dei controlli degli ispettori del lavoro, dall’altro il rafforzamento sostanziale delle politiche del lavoro e dei servizi pubblici per l’impiego in modo da sottrarre al caporalato la funzione di intermediazione di lavoro. Questo rappresenta un punto dirimente anche per Maria Panariello dell’associazione Terra. Accanto ad un ruolo rafforzato dei servizi per l’impiego, il privato sociale può avere un ruolo importante nell’informazione e nella formazione dei lavoratori, aspetto centrale per la promozione del lavoro dignitoso.
Marco Omizzolo, sociologo dell’istituto di ricerca Eurispes e docente di sociopolitologia delle migrazioni all’Università La Sapienza di Roma, organizzatore del grande sciopero di braccianti indiani dell’Agro Pontino nel 2016, sintetizza così: “l’associazionismo ha un ruolo importante nel contrasto al fenomeno, per sua natura infatti è radicato sul territorio, è capace di intercettare bisogni ed emergenze in modo tempestivo, di suggerire soluzioni, e può mettere in atto dal basso delle pratiche virtuose, ma non è sufficiente”. “Il contrasto al fenomeno del caporalato e del grave sfruttamento in agricoltura” spiega ancora Omizzolo “ha infatti bisogno di un intervento forte ed organico a livello di politiche pubbliche, che siano basate sul confronto con il mondo dell’associazionismo e della ricerca”.
In tema di politiche migratorie sarebbe anzitutto necessario superare la legge Bossi Fini e introdurre politiche di regolarizzazione efficaci (e non fallimentari come l’ultima sanatoria del 2020) poiché l’irregolarità crea, acuisce le condizioni di vulnerabilità e sfruttamento. Ma serve anche un cambio generale culturale per contrastare la narrazione tossica sull’immigrazione. Infatti, in un clima avvelenato da razzismo, stereotipi e xenofobia “è certamente più difficile che un immigrato denunci condizioni di sfruttamento”, ricorda Jean-Renè Bilongo della FLAI CGIL.
Inoltre, sottolinea ancora il sociologo Omizzolo, occorre riformare il sistema di accoglienza (su questo si vedano anche le proposte del Tavolo Asilo). I tagli finanziari al sistema di accoglienza hanno infatti ostacolato di fatto la costruzione di percorsi di integrazione di richiedenti asilo e rifugiati, favorendo ghettizzazione e sfruttamento (si veda a tal proposito il report di ricerca di Amnesty International). Ciò si lega in modo significativo con il fenomeno di “profughizzazione” dello sfruttamento: l’inserimento di richiedenti asilo nelle economie dello sfruttamento, in sostituzione di altri lavoratori stranieri da più tempo nel paese e maggiormente sindacalizzati. Per Omizzolo, è inoltre necessario adottare metodologie di intervento che valorizzino il protagonismo delle lavoratrici e dei lavoratori, superando la logica assistenzialista (ne ha parlato nel suo testo più recente).
In estrema sintesi, l’associazionismo e il Terzo Settore in genere possono svolgere una funzione importante, accanto a sindacati e corpi intermedi, per la promozione del lavoro dignitoso in agricoltura. Queste realtà portano avanti azioni di advocacy, informazione e formazione, rivolgendosi a lavoratori e imprenditori agricoli e possono fare la differenza. In particolare quando lavorano in rete con gli attori pubblici dentro programmi strutturati.
Ma perché la situazione cambi radicalmente servirebbe un quadro di politiche pubbliche più forte – in primo luogo in termini di politiche attive del lavoro e politiche migratorie ad esempio – nell’ambito di un sistema in cui sia costantemente presidiata e monitorata trasparenza e professionalità degli operatori che intervengono in un ambito delicato e nel quale ci si assume un’importante responsabilità nei confronti di soggetti vulnerabili.