Coronavirus e sistema di accoglienza
In premessa al Rapporto di Amnesty International, pubblicato a novembre 2019, dal titolo “I sommersi dell’Accoglienza”, che presenta un’analisi del sistema italiano di accoglienza in seguito agli effetti dell’entrata in vigore del Decreto Legge 113/2018, è riportato che interrogarsi sulle migrazioni non significa solo concentrarsi sulle ragioni della loro partenza, ma anche sul sistema di accoglienza organizzato nel paese di arrivo o sbarco.
Tema che a noi sta particolarmente a cuore, soprattutto in questo periodo di emergenza sanitaria, non potendo sottacere che “nei periodi di crisi, gli effetti delle disuguaglianze formali e sostanziali diventano ancor più evidenti”, come enunciato nel documento elaborato su iniziativa di ASGI (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione) e ActionAid, e sottoscritto da decine di associazioni, che raccoglie una prima panoramica sui diritti a rischio dei migranti, particolarmente esposti all’epidemia.
Nel documento si evidenzia l’urgenza di discutere, anche in un’ottica di salute pubblica, delle condizioni di precarietà giuridica, alloggiativa, lavorativa ed esistenziale a cui sono esposti molti cittadini stranieri. Per comprendere l’impatto di questa grave emergenza sanitaria sul sistema di accoglienza non si può tacere infatti delle modifiche apportate per effetto del D.L. 113/2018, convertito in L. 132/2018, che ha sostanzialmente portato allo smantellamento del precedente sistema di accoglienza, che privilegiava l’accoglienza diffusa, a favore dell’accoglienza collettiva in centri di grandi dimensioni.
Queste strutture collettive caratterizzate da grandi concentrazioni (CAS, CARA, HUB, CPR, hotspot), sottolinea il documento di ASGI e ActionAid, non sono oggettivamente idonee a garantire il rispetto delle prescrizioni legali previste dai provvedimenti legislativi emanati a seguito dell’emergenza Covid-19 e soprattutto la salvaguardia della salute sia dei richiedenti asilo, sia dei lavoratori dell’accoglienza.
Gli operatori dell’accoglienza non si fermano
ASGI e ActionAid ricordano come “l’entrata in vigore del nuovo capitolato di gestione delle strutture di prima accoglienza (previsto e regolato dal DM del 20 novembre 2018) ha determinato una consistente riduzione del personale qualificato, con importanti conseguenze sulla qualità dei servizi offerti.
E aggiungono: “In particolare, è drasticamente diminuita la presenza di figure sanitarie, con soltanto 6 ore settimanali per la reperibilità medica in strutture che accolgono fino a 50 persone e nessuna presenza infermieristica, 12 ore di reperibilità medica per strutture che accolgono fino a 150 persone e 24 ore settimanali per quelle che accolgono fino a 300 persone. Nelle diverse tipologie non è mai prevista una figura di supporto psicologico”.
A proposito della condizione dei lavoratori dell’accoglienza nel periodo dell’emergenza sanitaria, pare importante ricordare la campagna “Se #iorestoacasa – Gli operatori dell’accoglienza non si fermano” lanciata sul sito InDeep, lo scorso 20 marzo. La campagna sottolinea come il lavoro degli operatori si regga soprattutto sulla “relazione di aiuto, che, ai tempi dello smartworking e del lavoro in differita, si può certo trasformare, ma non sempre può avvenire senza la presenza dei corpi, la frequenza di luoghi, il confronto diretto tra voci e sguardi”.
In questo comunicato si legge anche che “il ruolo principale di tutti gli operatori è stato quello di assicurare un’informazione efficace alle persone in accoglienza”, che deve affrontare bassi livelli di scolarizzazione degli accolti e una scarsa padronanza della lingua italiana tale che non consentono sovente la comprensione di informazioni complesse e a volte contraddittorie, che mettono in confusione anche noi.
La campagna spiega infatti come “la presenza degli operatori nelle strutture, almeno saltuaria, non è però necessaria solo per informare sui rischi e sull’obbligo di rimanere in casa. È fondamentale soprattutto per intercettare ansie, paure o, peggio, malesseri più o meno latenti, in una composizione di donne e uomini già fortemente provata dall’esperienza della fuga, dello sradicamento, del distacco e spesso della violenza e della morte”.
Rimane quindi la necessità di riorganizzare i servizi offerti agli utenti. Se la tecnologia resta utile per molti aspetti della gestione, “l’interruzione dei percorsi di inclusione e di riconquista dell’autonomia è un problema”, denuncia la campagna e “gli operatori sono chiamati a prendersi sulle spalle un problema enorme che riguarda la responsabilità individuale ma anche la tenuta collettiva”.
Le condizioni sanitarie nei CPR, nei grandi centri e nei ghetti
Infine, in questo quadro generale, destano estrema preoccupazione le condizioni nei CPR e negli hotspot. Nei CPR un numero elevato di persone vive in condizioni di promiscuità, spesso in condizioni sanitarie precarie, in assenza di adeguati presidi sanitari interni ai centri frequentati da persone che vivono all’esterno (dal personale di polizia e dell’esercito, al personale degli enti gestori, alle e ai mediatori, agli operatori/trici e, per quanto riguarda i CPR, alle/ai giudici e agli avvocati/e).
ASGI e ActionAid denunciano inoltre (come riportato in un recente articolo su Internazionale) che:
“Le misure eventualmente adottabili (autocertificazioni, uso di mascherine, mantenimento della distanza di almeno un metro tra trattenuti e altre persone) non appaiono idonee a scongiurare il rischio che avvengano contagi all’interno. Appare del tutto evidente che un contagio all’interno dei CPR o degli hotspot avrebbe conseguenze drammatiche, non potrebbe essere affrontato con misure di isolamento dei soggetti che risultassero contagiati, sia in quanto non sono normativamente previste aree siffatte, sia perché significherebbe concentrare in condizioni di promiscuità, in aree isolate e con privazione dei diritti fondamentali, un numero sempre maggiore di trattenuti contagiati”.
I centri d’accoglienza straordinaria per richiedenti asilo (CAS), così come tutti i grandi centri gestiti dal Viminale (Hub, Hotspot, CARA, CPR), hanno ricevuto durante le prime settimane di emergenza raccomandazioni generiche. Ma le condizioni in cui si vive in questi centri non sono per nulla uguali a quelle delle normali abitazioni, numerose segnalazioni da parte di enti che si occupano dell’accoglienza sul fatto che le prescrizioni non siano state accompagnate dalla puntuale fornitura di mascherine e disinfettanti personali, né da una sanificazione costante dei locali.
Mentre scriviamo è giunta una circolare del 26 marzo del Ministero dell’Interno rivolta alle Prefetture di Bari, Brindisi, Caltanissetta, Gorizia, Nuoro, Potenza, Roma, Torino che evidenzia l’importanza di monitorare costantemente le condizioni di salute degli ospiti, di dotare gli ospiti di materiale adeguato per la cura dell’igiene e di fornire un’attenta informazione degli accorgimenti necessari per limitare il contagio.
Destano, inoltre, preoccupazione le condizioni dei migranti che lavorano in un settore essenziale, la filiera agro-alimentare. In una lettera alle istituzioni un insieme di associazioni e sindacati, Slow Food, Terra e Flai Cgil, ha posto l’attenzione sulle migliaia di lavoratori stranieri che abitano nei tanti ghetti e accampamenti di fortuna sorti nel nostro Paese: “Nella miseria dei ghetti, la cui ubicazione si incardina sempre nei distretti a forte vocazione agricola, il quotidiano degli immigrati è scandito da immutata cadenza nonostante la spada di Damocle rappresentata dal Covid-19”.
Nella lettera si fa appello alle prefetture e alle istituzioni perché agiscano mettendo in condizioni di sicurezza migranti e richiedenti asilo, ribadendo che è altresì urgente agire per fare emergere il lavoro nero e regolarizzare i lavoratori migranti (su questo aspetto si è espressa di recente anche la Ministra dell’Agricoltura Bellanova).
Nessuno escluso
In conclusione, oggi va rilanciato, come chiedono a gran voce ASGI e ActionAid, il modello SPRAR. Ovvero il sistema di accoglienza diffusa nei territori che fa capo ai Comuni. Ricordiamo che diversi rapporti di ricerca, da Legambiente allo stesso Ministero dell’Interno, hanno testimoniato come in diversi territori del paese l’accoglienza diffusa si sia realizzata anche nell’ambito del sistema dei CAS. Questi progetti di micro-accoglienza diffusa sono stati smantellati o sono in via di smantellamento per effetto del Decreto Legge 113/2018 e del taglio alle risorse destinate ai centri di accoglienza.
Nel Quarto Rapporto sul secondo welfare, facendo riferimento ai casi della Valle di Susa e del Canavese, abbiamo parlato dell’origine e delle caratteristiche di queste esperienze che hanno trasformato le modalità con le quali è stata gestita l’accoglienza straordinaria, dalla concentrazione di migranti in grandi strutture a progetti di accoglienza diffusa, con il coinvolgimento di enti locali, consorzi dei servizi sociali e organizzazioni del Terzo Settore radicate sul territorio.
Già avevamo messo a tema, in questo focus, gli effetti nefasti dei tagli all’accoglienza. In Migrazione più di un anno fa denunciava il forte ridimensionamento nei centri della presenza di professionalità quali il mediatore culturale, l’assistente sociale e il medico ed evidenziava i rischi per la salute collettiva. Parole che appaiono tristemente profetiche in questi tempi di emergenza sanitaria.
ActionAid e Openpolis hanno ribadito, nel Rapporto di ricerca “La sicurezza dell’esclusione”, come il nuovo capitolato di gara abbia infatti snaturato il senso e il ruolo del sistema trasformando i Centri di accoglienza straordinaria (CAS) in luoghi di desolata attesa e sospensione esistenziale piuttosto che di avvio all’integrazione. A prova di ciò, nel rapporto di ricerca si evidenzia come in alcuni territori le difficoltà delle prefetture nell’affidare la gestione dei centri alle nuove condizioni si siano espresse in maniera più chiara a causa del rifiuto di una parte rilevante del Terzo Settore di assecondare la linea imposta dai tagli.
In conclusione, questa inaspettata e tremenda emergenza sanitaria rende ancora più evidente l’irrazionalità dello smantellamento delle buone pratiche di accoglienza diffusa ed evidenzia ancora più fortemente le criticità determinate dalla concentrazione dei migranti in grandi strutture.
Per le ragioni che abbiamo qui provato a riassumere, ASGI e ActionAid chiedono quindi al Governo di chiudere i centri di accoglienza di grandi dimensioni, organizzare un sistema di accoglienza diffusa, permettere l’accesso al Siproimi di categorie escluse (richiedenti asilo, motivi umanitari, casi speciali), di proseguire l’accoglienza dei Minori stranieri non accompagnati (MSNA), attualmente non ospitati nella rete SIPROIMI, oltre il compimento della maggiore età.