Una tappa delicata e fondamentale dei percorsi di accoglienza e integrazione dei richiedenti asilo è indubbiamente quella che riguarda i percorsi di formazione e di inclusione lavorativa dei migranti. Per tale ragione, in questo articolo tratto dal sito internet ufficiale del progetto Interreg Italia-Svizzera Minplus, vi raccontiamo alcune esperienze interessanti realizzate in Piemonte attraverso la collaborazione tra Pubblico, privato e Terzo Settore. In particolare, il contributo riprende la storia della Cooperativa Sociale Integra e quella del progetto "Amal – Formare per integrare".
La Cooperativa sociale Integra
L’attività della cooperativa sociale Integra ebbe inizio nel 2014, quando tre giovani siciliani trasferiti a Torino per motivi di lavoro costituirono una società cooperativa con l’intenzione di partecipare, sul territorio piemontese, agli Avvisi Pubblici banditi dalle Prefetture per le attività di accoglienza rivolte a richiedenti asilo, in occasione della cosiddetta “emergenza profughi”.
Eloisa Rapisardi, Presidente di Integra, durante un incontro avvenuto a Novara nel settembre 2019, riassume così i principi cardine su cui si basano le attività della cooperativa:
“Secondo la nostra visione l’integrazione è l’elemento imprescindibile per superare gli ostacoli di natura culturale e sociale e sviluppare un senso di collettività e di unione tra gli esseri umani. Alla base del nostro lavoro vi è una concezione non assistenziale, infatti ci poniamo come obiettivo ultimo il raggiungimento di un livello di autonomia dei richiedenti asilo tali da garantire l’integrazione sociale attraverso la creazione di percorsi individuali”.
In quell’anno Eloisa Rapisardi approdò a Novara, quasi per caso, poiché la cooperativa, dopo aver partecipato ad un bando della Prefettura, risultò aggiudicataria di un lotto riferito all’accoglienza di 40 richiedenti protezione internazionale:
“abbiamo affrontato questa prima esperienza navigando a vista, risolvendo i problemi che si presentavano per tentativi ed errori: bisogna pensare che il Capitolato relativo all’affidamento si limitava essenzialmente alla fornitura di vitto, alloggio e pochi altri servizi”
I primi passi di Integra a Novara: accoglienza diffusa e nuova progettualità
Il gruppo di migranti fu dunque ospitato dalla cooperativa all’interno di appartamenti affittati per l’occasione nel quartiere di Sant’Agabio a Novara, ma con il passare dei mesi, a fronte dell’aumento di arrivi di richiedenti asilo sulle coste siciliane, aumentò anche la richiesta di posti in accoglienza da parte della Prefettura, fino a triplicare quelli assegnati alla cooperativa in un primo tempo. Questo improvviso incremento di persone costrinse la cooperativa ad acquisire un numero maggiore di alloggi, sempre all’interno dello stesso quartiere, dove inoltre aveva stabilito la propria sede.
Questa parte di Novara, in origine sede delle principali industrie tessili, chimiche e meccaniche, ha rappresentato, a partire dal Secondo Dopoguerra, la zona della città dove si sono via via insediate le varie ondate migratorie: prima provenienti dalla Dalmazia e dal Veneto, poi dal Mezzogiorno e infine, a partire dagli anni Ottanta, dal Nord Africa e dall’Albania.
“La modificazione etnica del quartiere, che ha visto l’allontanamento progressivo dei cittadini autoctoni, ha certamente favorito la disponibilità di alloggi a buon mercato e ha permesso alla cooperativa di organizzare un accoglienza diffusa, ma che nello stesso tempo facesse capo alla sede della cooperativa, situata sul principale asse viario del quartiere”.
Nello stesso tempo anche il numero di soci e dipendenti della cooperativa aumentava in maniera esponenziale, dagli originari tre che avevano avviato l’attività.
“Con l’aumento degli ospiti” continua la Presidente della cooperativa “si fece anche più complessa la gestione del servizio; tutto ciò senza avere chiare indicazioni da parte della Prefettura che – nei bandi del 2015 – non precisava quali fossero, oltre ad un generico riferimento al soddisfacimento di bisogni di base, le prestazioni da offrire ai richiedenti protezione accolti dalla cooperativa. Diventava dunque urgente mettere in atto servizi che potessero aiutare e accompagnare i ragazzi durante la loro permanenza presso la cooperativa, anche in considerazione del prolungarsi dei tempi di accoglienza, che in un primo tempo si immaginavano piuttosto brevi, ma che alla luce delle difficoltà burocratiche collegate alla concessione o al rifiuto dello status, si erano oltremodo dilatate”.
Una delle prime iniziative fu l’organizzazione di corsi di italiano, che venivano tenuti dagli insegnanti direttamente negli appartamenti in quanto la cooperativa non aveva all’epoca disponibilità di aule didattiche. Successivamente, per far fronte ad una situazione sempre più complessa, dovuta anche all’inattività a cui erano costretti gli ospiti, ebbe inizio la ricerca sul territorio di collaborazioni da parte di associazioni e organizzazioni di volontariato. L’attività, svolta a livello informale, venne gestita dai dirigenti e dagli operatori della cooperativa, per la maggior parte attraverso la rete delle proprie conoscenze personali.
“I frutti di questo lavoro non sono mancati” ci dice Rapisardi “e in breve tempo sono state avviate collaborazioni con associazioni scautistiche, parrocchiali e laiche che hanno permesso agli ospiti di partecipare a progetti musicali, ludici, di scambio culinario o sulla conoscenza della città, fino ad esperienze di volontariato in strutture per anziani. Grazie ad un accordo con il CSI di Novara sono stati poi organizzati tornei di calcio con squadre amatoriali locali”.
Dall’accoglienza all’integrazione
Nell’anno successivo la cooperativa estese i propri servizi anche nella zona di Oleggio e Bellinzago, una quindicina di chilometri a nord della Città. A questo punto gli ospiti erano 160 a Novara e 80 nei Comuni vicini e gli operatori aveva raggiunto il numero di 36. Anche in presenza di un gruppo così consistente di persone, la scelta di attuare l’accoglienza diffusa in appartamenti non venne meno.
Ci dice ancora la Presidente di Integra:
“inizialmente l’accoglienza in piccoli gruppi fu il frutto di una scelta di comodo in quanto, dato il basso numero di ospiti, risultava più semplice reperire appartamenti di piccole dimensioni, ma nel prosieguo dell’attività divenne una scelta consapevole. Il vantaggio era quello di poter mantenere, tramite gli operatori che quotidianamente visitano gli appartamenti, un contatto a misura di uomo che permettesse di instaurare un dialogo e di rispondere al meglio e in modo più tempestivo alle esigenze manifestate dai ragazzi. Con un piccolo numero di interlocutori, al massimo 8 per appartamento, anche eventuali situazioni di difficoltà avrebbero potute essere affrontate e discusse più facilmente fino ad essere risolte”.
Tra gli aspetti negativi Eloisa Rapisardi segnala però, dal punto di vista della logistica, un maggior dispendio di energie nella verifica delle presenze, nella distribuzione delle derrate e nella manutenzione di decine di elettrodomestici, bagni, rubinetti, ecc., ma anche un minore controllo riferito alle attività che si svolgono all’interno degli appartamenti.
A questo proposito la Presidente di Integra sottolinea che fin dall’inizio la cooperativa ha cercato di lavorare alla creazione di un rapporto di fiducia con le persone ospitate:
“il rapporto di fiducia non può però basarsi su discorsi astratti, ma deve crearsi a seguito di fatti concreti: alle parole devono seguire i fatti e dunque non è possibile fare promesse che poi non possono essere mantenute e nemmeno garantire risultati sui quali non si può influire. Piccole cose e problemi che per noi hanno scarso significato, nel vuoto e nell’incertezza della vita di questi ragazzi, diventano enormi; il più delle volte, dopo le esperienze devastanti vissute da alcuni di loro, la creazione di un rapporto di fiducia con un estraneo è difficilmente attuabile”.
Sulla necessità e l’importanza di instaurare un rapporto di fiducia tra operatori dei servizi di accoglienza e migranti richiamiamo qui l’articolo La governance della fiducia nell’accoglienza e nell’integrazione dei richiedenti asilo, in cui Luca Bergamasco fa notare che:
“Il lavoro quotidiano degli operatori dei centri di accoglienza necessita di credibilità ed affidabilità per essere efficace: i migranti devono avere la possibilità di incontrare persone dotate di integrità e che possano testimoniare professionalità, principi e coerenza” e che “La qualità dell’approccio relazionale determina l’esito degli interventi e dei possibili sviluppi successivi: un operatore sociale sceglie le modalità comunicative e relazionali che possano sostenere il processo di cura, assistenza e cambiamento che sta mettendo in atto, in modo che la persona che ha di fronte possa scorgere la possibilità di migliorare la propria condizione”.
La Presidente di Integra riferisce poi che a un certo punto della storia della cooperativa, nelle discussioni tra i soci, era maturata l’idea che fosse necessario fornire ai ragazzi qualcosa di concreto e che fosse utilizzabile nel futuro per l’inserimento nella società ospite: un servizio che potesse dare una chance in più, uno strumento per accedere al mercato del lavoro con una professionalità di base. Tutto ciò si scontrava però con la constatazione che l’offerta di corsi professionalizzanti rivolti a stranieri, sul territorio novarese, non fosse particolarmente ampia, con posti limitati e l’ammissione subordinata a percorsi di selezione. L’idea di Integra fu dunque quella di procedere all’autofinanziamento dell’iniziativa. Il Consiglio di Amministrazione era consapevole che un’operazione di questo tipo avrebbe avuto un costo considerevole, ma reputò che il livello di finanziamento da parte dello Stato, all’epoca, permettesse di ricavare un margine sufficiente dall’investimento. Fu deciso inoltre di fornire ai richiedenti asilo ammessi alla formazione un percorso che permettesse di acquisire un titolo di qualificazione professionale riconosciuto e dunque spendibile sul mercato del lavoro: per fare questo era necessario individuare un Ente formativo accreditato presso la Regione Piemonte.
“Durante l’anno 2015” – racconta ancora Eloisa Rapisardi – “un ragazzo in carico alla cooperativa aveva frequentato, presso l’Agenzia di formazione professionale Filos, un corso di 600 ore ottenendo la qualifica di Addetto alla Saldatura: questo ci aveva portato a instaurare un buon rapporto con la scuola che aveva la propria sede nello stesso quartiere, a poche centinaia di metri dalla nostra”.
Venne così stipulata, nell’estate del 2016, una Convenzione tra i due Enti, che prevedeva l’elaborazione da parte di Filos di un progetto, denominato Amal – in arabo Speranza -, che realizzasse tre percorsi di formazione professionale di 600 ore ciascuno e prevedesse il rilascio di un attestato finale di Qualifica Professionale. Era previsto inoltre il successivo inserimento in percorsi di stage e tirocinio, il tutto con servizi di tutoraggio degli allievi e accompagnamento al lavoro.
L’incontro con Filos: il Progetto “Amal, formare per integrare”
“FILOS, il cui acronimo significa Formazione Inserimento Lavorativo Orientamento Servizi” ci spiega Ilaria Ferrero, coordinatrice dell’Ente per le attività formative rivolte agli adulti “è accreditato presso la Regione Piemonte per tutte le tipologie di formazione, orientamento e servizi al lavoro; il suo impegno si ispira alla centralità della persona e all’inclusione sociale attraverso la formazione facendosi interprete della domanda di professionalità proveniente dal mondo produttivo. Le nostre attività in campo formativo si rivolgono a ragazze e ragazzi in uscita dalla scuola media che frequentano corsi triennali per l’assolvimento dell’obbligo di istruzione, nel settore della meccanica, termoidraulica, acconciatura e abbigliamento, ma anche a giovani e adulti italiani e stranieri disoccupati, con percorsi che rilasciano attestati di frequenza, qualifica e specializzazione” e continua dicendo che “la collocazione territoriale di FILOS all’interno del quartiere multietnico di Sant’Agabio ha generato una particolare attenzione per i temi legati all’integrazione sociale e lavorativa dei cittadini stranieri immigrati”.
Infatti, a partire dal 2010, FILOS rappresenta un punto di riferimento, oltre che per i corsi professionalizzanti specificatamente rivolti a cittadini stranieri, anche per gli Enti pubblici e privati del territorio in specifiche progettualità rivolte a persone straniere. Questo grazie alla costruzione di una Rete territoriale che ha permesso di lavorare, attraverso finanziamenti regionali e nazionali, su temi quali l’inclusione di vittime di tratta e grave sfruttamento, oppure l’integrazione socio-lavorativa dei cittadini stranieri e richiedenti asilo.
“In estrema sintesi”, chiarisce Ilaria Ferrero “è questo il background di esperienze che ha permesso a Filos di apparire come interlocutore privilegiato agli occhi dei responsabili della Cooperativa Integra”.
Spiega poi chel’idea alla base del progetto Amal:
“ben illustrata dal punto di vista teorico da Maurizio Ambrosini, professore di Sociologia dei Processi Migratori, è che la Formazione Professionale non sia semplicemente una via per l’integrazione futura, ma il luogo in cui i processi di integrazione si realizzano concretamente. La formazione può infatti costituire per il migrante una nicchia di accoglienza, uno spazio protetto dove compiere il faticoso percorso di inserimento in una società straniera e nella quale possa sentirsi libero di porre domande e di ricevere risposte, di esporre esperienze vissute, manifestare disagi, elaborare progetti e aspirazioni, confrontare costumi, valori e visioni di vita, senza timore di apparire inopportuno e sentendosi al riparo da stereotipi e pregiudizi”.
Il progetto formativo elaborato da Filos ha avuto una forte componente di inclusione, poiché ha offerto accanto ad una serie di contenuti tecnico-specifici, anche un pacchetto di competenze linguistiche e comportamentali indispensabili per poter trovare cittadinanza nella società ospitante. Il tutto però nell’ambito di un processo multidimensionale e interattivo che implica una partecipazione di entrambe le parti, quindi anche della società ricevente.
“Per queste ragioni si è scelto di dare ampio spazio, all’interno dei tre percorsi nei quali si articolava il progetto, allo scambio e alla mediazione interculturale, all’orientamento sul territorio e nella società” ci dice la coordinatrice del Progetto Amal, che continua affermando “proprio in virtù di questa visione globale, si ritiene che il processo di integrazione non debba esaurirsi nella formazione in senso stretto, ma si dipani a maggior ragione attraverso le esperienze di stage e di tirocinio. Le aziende ospitanti infatti, devono essere a pieno titolo coinvolte nella creazione di un contesto protetto e di un progetto individualizzato per consentire a questi ragazzi di compiere appieno il lungo e faticoso percorso di integrazione in una società aliena”.
Dall’intervista emerge inoltre la volontà di orientare accuratamente i migranti nella scelta tra i tre percorsi mediante colloqui approfonditi durante i quali veniva lasciato spazio alle persone, alle loro preferenze e propensioni. Per alcuni, questa azione orientativa aveva condotto alla decisione di accantonare momentaneamente il percorso professionalizzante a seguito del discrimine rappresentato dalla scarsa o poca conoscenza della lingua italiana, e al conseguente invio al CPIA o alla formazione linguistica erogata dalla cooperativa.
All’interno dei percorsi il pacchetto di ore riguardante l’orientamento e la rielaborazione personale (52) sono state dedicate in maniera specifica all’acquisizione delle competenze chiave di cittadinanza nonché ad un’attività di scoperta e di appropriazione delle risorse economiche, culturali e di socializzazione messe a disposizione dal territorio.
Ci dice ancora Ilaria Ferrero:
“All’avvio delle attività i ragazzi hanno sottoscritto un Patto Formativo, in cui sono stati formalizzati i principi base del progetto e i reciproci impegni. Da una parte la comunità tutta, rappresentata da Integra in qualità di soggetto finanziatore e da Filos in qualità di erogatore, si impegnava mettendo a disposizione risorse pubbliche sotto forma di docenti qualificati, attrezzature e materiali adeguati, Dispositivi di Protezione Individuale per garantire la sicurezza, servizi di accompagnamento allo stage e successivamente al lavoro. Da parte loro, i ragazzi si sono impegnati a cogliere questa opportunità, aprendosi non solo all’apprendimento delle competenze professionali ma anche all’acquisizione delle regole basilari della convivenza all’interno della società italiana”.
Un’esperienza con luci e ombre
La maggior parte dei migranti che hanno frequentato i tre percorsi sono riusciti a concludere positivamente l’esperienza dimostrando di aver maturato competenze tecnico-pratiche, ma anche di riconoscimento dei contesti e di tenuta dal punto di vista delle regole e degli orari che all’inizio non potevano essere date per scontate.
L’esito occupazionale del progetto, che ha riguardato il settore della ristorazione, dell’idraulica e dell’orticultura, è stato complessivamente positivo: molti ragazzi infatti alla fine dei percorsi si sono visti attivare tirocini retribuiti, mentre alcuni di loro successivamente sono stati assunti a tempo determinato o in apprendistato. Tuttavia non si hanno notizie di alcuni di loro, in particolare quelli che durante lo svolgimento del corso hanno ricevuto il diniego allo status, questi ultimi probabilmente si sono resi irreperibili o sono andati all’estero.
Il Progetto Amal, concluso nell’estate del 2018, presenta comunque luci e ombre e la riflessione comune tra Integra e Filos, ci spiegano le nostre interlocutrici, ha portato ad elaborare una serie di considerazioni sui risultati ottenuti nei quasi tre anni di realizzazione, insieme ad altre di carattere più generale. La conclusione forzata di questa esperienza, causata dalla riduzione dei fondi destinati all’accoglienza da parte del Ministero dell’Interno che non dà più ad Integra la possibilità di autofinanziare questo tipo di attività, lascia aperti molti interrogativi, confermando criticità mai risolte, in particolare quelle riferite alla legislazione italiana in materia di accoglienza e asilo.
Qui si evidenzia quello che forse è l’aspetto più negativo del bilancio: la verità è infatti che molti tra gli allievi avrebbero potuto essere inseriti in azienda e dunque intraprendere un percorso di autonomia e di integrazione, ma ciò non è stato possibile. Si trattava infatti di migranti in attesa di una decisione da parte della Commissione Territoriale sul ricorso presentato dopo aver ricevuto un diniego alla richiesta di protezione internazionale. Quindi, nonostante tutto l’impegno profuso da parte loro per integrarsi, imparare la lingua e un mestiere, si sarebbe comunque prospettata l’ingiunzione a lasciare il territorio nazionale. Ciò significa che, privati di certezze circa il loro futuro, non avrebbero potuto in alcun modo accedere a misure specifiche di inserimento lavorativo. Si è vanificato così tutto il lavoro fatto da loro e per loro, con un forte investimento in termini di tempo, formazione e risorse economiche. È evidente dunque che un sistema nel quale non è dato nessun valore all’impegno profuso dai richiedenti asilo per integrarsi e imparare un mestiere, rappresenta una perdita economica netta per la collettività nel suo complesso.
L’esperienza di AMAL ha portato alla luce casi di persone che, nelle more del lungo percorso di riconoscimento dello status di rifugiato, di fatto si sono integrate nella società ospitante grazie a percorsi formativi, tirocini e inserimenti lavorativi, ma che, a seguito del diniego dello status da parte delle autorità, sono state costrette a ricadere nella clandestinità. Ma, ancor più paradossalmente, ci si è resi conto che un sistema così congegnato rappresenta una minaccia anche dal lato della sicurezza e della legalità, tanto care all’opinione pubblica. Il più delle volte anche i migranti titolari di uno status di rifugiato risultano infatti esposti alla marginalità sociale e all’economia sommersa, così come allo sfruttamento nei circuiti illegali. Chi ottiene lo status di rifugiato infatti, dopo pochi mesi, deve lasciare il sistema di protezione, affrontando da solo un percorso di autonomia sociale, lavorativa e abitativa a cui non è preparato. In mancanza di una rete di supporto, e di reali percorsi di integrazione pregressi, questo percorso si rivela il più delle volte impossibile da intraprendere e portare a termine, spesso con ricadute dei soggetti in circuiti di marginalità sociale, se non di illegalità.