Una lettura contro i luoghi comuni

La spirale del sottosviluppo. Perché così l’Italia non ha futuro” è un testo del 2020, con una postfazione sull’impatto della pandemia, che affronta alcuni temi fondamentali per il nostro Paese che occorre approfondire, anche alla luce della convulsa campagna elettorale: emigrazione, immigrazione, welfare, demografia, istruzione, sviluppo. Non è il testo più recente dell’autore, ma ad avviso di chi scrive è ancora di grande attualità.

Il libro di Stefano Allievi, professore di Sociologia e Direttore del Master in Religions, Politics, and Citizenship presso l’Università di Padova, aiuta infatti a comprendere le migrazioni da e per l’Italia, collocandole nel più ampio contesto economico, sociale e culturale in cui viviamo. Di seguito ci soffermiamo sulle migrazioni che, probabilmente, sono le più trascurate nel dibattito pubblico: quelle degli italiani verso l’estero.

L’emigrazione degli italiani, infatti, non è una foto in bianco e nero, non è una vecchia canzone popolare o un racconto su qualche zio che tentò la fortuna altrove. L’emigrazione è un tema estremamente attuale, anche se gli emigranti di oggi non hanno le valigie di cartone degli emigranti di ieri, e ci paiono così diversi da quelli che sbarcano sulle nostre coste oggi. Non a caso tendiamo a usare una parola diversa per loro: expat, anziché migranti.

Italia, terra di expat

L’Italia negli ultimi dieci anni ha assistito a una nuova e imponente ondata migratoria verso l’estero. La tendenza non si è arrestata neanche con la pandemia, ed è alquanto bizzarro che l’argomento sia poco dibattuto nel Paese.

L’emigrazione verso l’estero è aumentata soprattutto negli ultimi anni e attualmente gli iscritti all’AIRE, l’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero, secondo i dati più aggiornati sono 5.652.080, il 9,5% degli italiani residenti in Italia, registrando un aumento dell’82% dal 2006, e un aumento del 3% tra il 2020 e il 2021 (Fondazione Migrantes, 2021). Si tratta di un dato imponente, che è peraltro sottostimato dato che solo una quota degli italiani all’estero ottempera l’obbligo di iscrizione all’AIRE1.

Gli expat, gli emigranti di oggi, sono soprattutto giovani, in parte diplomati e laureati. Tra le regioni di partenza, ai primi posti troviamo Sicilia, Lombardia, Campania, Lazio, Veneto e Calabria. Per la metà gli emigranti si trovano in Europa, seguono le Americhe con il 40% delle presenze. Spesso le destinazioni scelte Paesi con alti tassi di immigrazione italiana e dove quindi  si trovano le comunità di Italiani più numerose fuori dalla Penisola: Argentina, Germania, Svizzera, Brasile, Francia, Regno Unito.

Perché partire?

Cosa c’è dietro questa ondata migratoria verso l’estero? Certamente il fatto che l’Italia sia tra i Paesi europei con il più alto tasso di disoccupazione giovanile, di NEET (giovani che non lavorano e non studiano), di precarietà occupazionale e immobilità sociale spiega molte delle ragioni che spingono all’emigrazione. D’altronde alcuni di questi aspetti si legano al problema della denatalità e al processo che il demografo Alberto Rosina chiama di degiovanimento.

Ma i fattori di spinta non sono l’unica spiegazione dell’emigrazione dall’Italia, ci dice Stefano Allievi, invitandoci ad una lettura delle diverse facce del fenomeno. Quello che porta molti giovani all’estero è sicuramente l’asfissiante mancanza di prospettive del Paese di origine (push factors), ma anche l’attrattività dei Paesi di destinazione (pull factors). Questi ultimi sono infatti spesso caratterizzati da un welfare più protettivo, servizi pubblici più efficienti, una cultura più inclusiva, una maggiore parità di genere, una maggiore multiculturalità. Dell’apertura e dell’inclusività, d’altronde, alcune di queste città hanno fatto un brand. Pensiamo a Berlino, Londra, Barcellona.

Non da ultimo, poi, tra i motivi che hanno favorito l’emigrazione c’è l’incredibile rivoluzione tecnologica: smartphones, social networks, voli low cost, l’abolizione del roaming sembrano avere accorciato enormemente le distanze. E reso l’emigrazione una scelta più facile, più reversibile, più alla portata.

Il profilo di chi parte

Tornando all’identikit degli emigranti, va evidenziato che la retorica dei “cervelli in fuga” corrisponde solo in parte alla realtà. Solo una quota di chi emigra ha competenze particolarmente richieste nel mercato del lavoro in cui approda. Il 58,4% degli emigrati ha un titolo medio alto, ma i laureati sono solo il 25,8% e ben il 41,6% ha un titolo basso (come spiegano anche Di Pasquale e Tronchin su Neodemos).

Gli studi qualitativi sull’emigrazione descrivono vari tipi di expat: oltre ai “ricercati” (che hanno competenze altamente ricercate nel mercato del lavoro di destinazione), ci sono gli “avventurieri” che non hanno un preciso progetto migratorio, e spesso hanno anche scarse competenze linguistiche. E tra questi idealtipi, com’è noto, ci possono essere mille sfumature e storie personali a metà strada.

Ci sono poi le seconde migrazioni, persone che provengono da Paesi terzi, che hanno vissuto in Italia per qualche tempo e che si spostano poi all’estero. A tal proposito, è significativa la quota di nuovi cittadini italiani che emigra verso altri Paesi: la tanto agognata e attesa cittadinanza italiana offre un passaporto fondamentale per andare via a cercare prospettive migliori.

E, infine, ci sono gli anziani in pensione, in cerca di Paesi con un costo della vita più basso e un clima più mite. Il fenomeno ha un un nome affascinante, “migrazioni eliotropiche”, di cui in questi anni si è parlato in articoli, documentari e commedie (tra cui “Lontano, Lontano” di Di Gregorio). Tra le mete preferite, oltre al Portogallo, anche il Marocco, da cui vengono molti immigrati che vivono tra noi. Ci sono perfino, tra gli expat, i genitori che raggiungono i propri figli, che si rimettono a studiare inglese, che riscoprono così l’interesse per il mondo seguendo le orme dei propri “ragazzi”.

I costi dell’emigrazione

Il fenomeno degli expat ha però una peculiarità nell’ambito delle migrazioni: questi migranti non generano, al contrario di tanti altri, un flusso di denaro (le cosiddette rimesse) verso il Paese di origine. Anzi, spesso avviene il contrario, con le famiglie di origine che sostengono economicamente i figli emigrati all’estero, almeno per un primo periodo di tempo. Non bisogna certo generalizzare, una parte degli emigranti raggiunge l’autonomia economica e non riceve alcuna forma di aiuto. Tuttavia, nell’esistenza di questo peculiare fenomeno delle “rimesse al contrario”  sembrano scorgersi i sensi di colpa dei padri verso i figli, i quali non hanno avuto le stesse opportunità delle generazioni precedenti.

Certamente l’emigrazione di giovani rappresenta anche un costo per l’Italia, Paese che li ha formati e che non ha offerto loro sufficienti prospettive per rimanere. Pur avendo un basso numero di laureati rispetto agli altri Stati europei, il nostro Paese non riesce ad offrire uno sbocco professionale adeguato a molti giovani istruiti. Secondo l’autore, che basa le sue valutazioni sugli studi della fondazione Migrantes e Confindustria, si tratterebbe di una perdita, per lo Stato e per le famiglie, di 28 miliardi di euro per ogni 100.000 expat.

Inoltre, le migrazioni degli italiani verso l’estero non sono prive di ulteriori rischi e insidie. Non sono rari infatti fenomeni di sottoinquadramento, sfruttamento, difficoltà economiche e abitative che molti affrontano senza poter contare, nel Paese di approdo, di una solida rete di protezione (si parla spesso appunto di povertà relazionale) come in Italia. In questo senso, si pensi che gli italiani sono tra le nazionalità più rappresentate tra gli homeless di Londra. Forse per loro non useremmo la parola expat, ma sono tutte facce dello stesso complesso fenomeno.

Il paradosso

Stefano Allievi ci avverte fin dall’inizio del possibile tranello: grossomodo gli italiani all’estero corrispondono agli stranieri nel nostro Paese. Sembra dunque di sentirlo il riflesso pavloviano del sovranista della porta accanto: basterebbe che tutti rimanessero a casa loro. No, non è così. Anzi è vero il contrario e qui sta il paradosso: gli immigrati in Italia svolgono per lo più lavori che i giovani italiani emigrati all’estero non svolgerebbero, se rimanessero qui. Nessun moralismo serve a risolvere questo paradosso, i figli hanno l’aspettativa di stare meglio dei padri.

Inoltre, secondo Stefano Allievi, le basse paghe accettate dagli immigrati, sono conseguenza delle condizioni di irregolarità a cui le nostre leggi costringono molti immigrati e non delle migrazioni in sé. Dunque, il problema della concorrenza al ribasso a danno degli italiani, quando esiste, andrebbe affrontato con politiche di regolarizzazione ed integrazione. Il contrario del “chiudiamo le frontiere”.

Bisogna dunque trattenere chi parte? Per Allievi bisogna soprattutto costruire un Paese migliore e più attrattivo, partendo dalla consapevolezza che le ragioni di chi parte dall’Italia e quelle di chi ci arriva sono simili: la ricerca di condizioni migliori. Questa considerazione può aiutare ad umanizzare il dibattito, superando la politicizzazione tossica, e a concentrarsi sul punto: costruire un Paese migliore e più attrattivo.

Diverse sono le strade da percorrere. In primo luogo il riequilibrio del welfare, ad esempio, aumentando la spesa a favore di giovani e famiglie, anche al fine di invertire il processo di degiovanimento del paese. Poi politiche del lavoro efficaci, a partire dall’aumento dei salari in ingresso e da investimenti in infrastrutture che creino lavoro. E ancora, politiche sull’immigrazione che non producano irregolarità, favorendo invece l’ingresso regolare di migranti alla ricerca di lavoro e l’emersione di chi vive una condizione di irregolarità.

La valigia

Alcuni dei nostri expat nel momento in cui state leggendo questo articolo probabilmente stanno cercando di chiudere la valigia che straborda, per tornare nelle città in cui hanno deciso di emigrare. Durante la pausa estiva sono tornati “a casa”, hanno diviso il loro tempo tra familiari e vecchi amici, hanno fatto rifornimento di beni e viveri. Fanno ancora un tentativo per farci stare tutto in quella “maledetta” valigia, ma le regole sulle dimensioni e il peso dei bagagli delle low cost, si sa, sono abbastanza severe. C’è sempre qualcosa che proprio non ci sta. Lo spediranno poi, arriverà. Per loro comunque è ora di andare.

 

Note

  1. L’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (A.I.R.E.), istituita con legge 27 ottobre 1988, n. 470, raccoglie i dati di quei cittadini italiani che risiedono all’estero per un periodo superiore ai dodici mesi.