“Avete mai sentito parlare dei corridoi umanitari?”.
Monica e Giovanni si sentono dire questo quando contattano la Comunità di Sant’Egidio di Torino per impegnarsi in una attività di volontariato. Nella primavera del 2021 Monica è andata da poco in pensione, Giovanni la seguirà a breve. Dopo le prolungate chiusure e l’isolamento dovuti alla pandemia decidono che, appena completato il primo ciclo vaccinale, dedicheranno del tempo al volontariato.
Li ho incontrati davanti a un caffè a inizio dicembre e mi sono fatta raccontare la loro storia. Che poi è diventata la storia dell’organizzazione di volontariato “Amici di Glocandia – Fratelli oltre il mare” e, soprattutto, la storia di una mamma, di un papà e delle loro tre figlie accolti in Italia dopo un lungo viaggio. È il modo con cui vogliamo raccontarvi, appunto, dei corridoi umanitari.
Il seme dell’accoglienza che sta “in fondo”
“La proposta della Comunità di Sant’Egidio ha messo un seme”, racconta Giovanni. Ne hanno parlato con amici e parenti, hanno approfondito il tema leggendo libri e partecipando a incontri e testimonianze. In questo modo si sono convinti dell’approccio adottato, come spiega ancora Giovanni: i corridoi umanitari “garantiscono un ingresso legale in Italia e garantiscono che nel momento in cui le persone arrivano in fondo al corridoio c’è qualcuno che accoglie, che si fa carico del progetto”. Monica conferma: è “un’accoglienza che appoggia le persone e le aiuta a integrarsi”.
Le persone che migrano lo fanno perché vivono in una condizione di estremo disagio, “se non ci fosse una motivazione forte non si sposterebbero da casa loro, dalle loro amicizie, dal loro territorio”. E visto che nel loro Paese di origine non lasciano solo la casa è significativo che, attraverso i corridoi umanitari, possano trovare non solo una nuova casa, ma anche una rete di supporto e relazioni.
La motivazione che spinge Monica e Giovanni è anche di tipo politico e ideale. Come racconta lui: è un modo concreto per “evitare i pericoli delle traversate del Mediterraneo e che queste persone siano sfruttate dai trafficanti di uomini, donne e bambini. I corridoi umanitari sono una goccia nel mare, ma sono anche un modo per dimostrare che una risposta alternativa al respingimento è possibile. Che è praticabile e porta buoni frutti”.
Cosa sono i corridoi umanitari?
In Italia i corridoi umanitari sono nati nel 2016 come progetto-pilota della Comunità di Sant’Egidio insieme alla Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, la Tavola Valdese e la Cei-Caritas. In precedenza il Canada aveva realizzato esperienze simili, ma quello del nostro Paese è il primo progetto di questo tipo in Europa.
Lo scopo dell’iniziativa è offrire a persone e famiglie profughe con particolari fragilità la possibilità di viaggiare legalmente, gratuitamente e in modo sicuro per raggiungere l’Italia. Le organizzazioni promotrici, insieme ad altri enti fisicamente presenti nei campi profughi, stilano un elenco di potenziali beneficiari in collaborazione con l’UNHCR . Successivamente, per quanto riguarda l’Italia, il Ministero dell’Interno e il Ministero degli Esteri predispongono i necessari controlli e rilasciano visti umanitari con Validità Territoriale Limitata, validi cioè solo per il Paese di arrivo e non per tutta l’UE. Questi documenti permettono alle persone di arrivare legalmente in Italia, dove potranno poi presentare regolare domanda di protezione internazionale.
Le organizzazioni promotrici si fanno carico della preparazione e dell’arrivo a destinazione, ma a conclusione del viaggio – in fondo al corridoio – deve esserci una comunità disposta ad accogliere le persone finchè non saranno in grado di mantenersi autonomamente. Per questo si attivano localmente dei nuclei di persone: può trattarsi di associazioni o di “semplici” persone che si mettono a disposizione. Il gruppo che accoglie si impegna ad accompagnare le persone, supportarle economicamente in tutte le loro esigenze per un periodo di tempo (indicativamente due anni), sostenerle nel disbrigo delle numerose e complesse pratiche burocratiche, aiutarle nella ricerca della casa e del lavoro.
L’intero percorso – dal viaggio fino all’accoglienza – si basa dunque esclusivamente su risorse umane ed economiche del secondo welfare nelle sue diverse declinazioni. Da febbraio 2016 a maggio 2022 sono 4.679 le persone che hanno raggiunto l’Europa in sicurezza grazie ai corridoi umanitari. Di queste la stragrande maggioranza è stata accolta in Italia (3.955 persone), circa un ottavo in Francia e la restante parte in Belgio, Germania, Svizzera e Andorra.
Per Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di Sant’Egidio, l’iniziativa si è consolidata nel corso degli anni fino a diventare un punto di riferimento. Come ha commentato a fine novembre, in occasione dell’arrivo di un corridoio umanitario di profughi afghani dal Pakistan, l’Italia dovrebbe farsi “capofila in Europa dei corridoi umanitari, un progetto non più sperimentale, ma consolidato, per proporlo a tutta l’Unione Europea come un modello di accoglienza e integrazione a chi ha bisogno di protezione umanitaria”.
L’importanza di costruire una rete sociale e istituzionale
Tornando alla nostra storia, dopo aver deciso di accogliere la proposta della Comunità di Sant’Egidio Monica e Giovanni hanno iniziato a muoversi su diversi fronti, fondamentalmente alla ricerca di altre persone, risorse economiche, competenze e punti di riferimento.
Per fare questo innanzitutto hanno raccontato del progetto ad amici e parenti, formando un gruppo di persone interessate che ha iniziato a chiamarsi “Fratelli oltre il mare”. Poi hanno deciso di appoggiarsi all’Unità Pastorale 31 di Torino, quella in cui risiede la loro parrocchia. Monica e Giovanni specificano che l’iniziativa di “Fratelli oltre il mare” non è confessionale, ma il gruppo si è accorto ben presto che il lavoro da fare era tanto e che sarebbe stato necessario appoggiarsi il più possibile a realtà strutturate. Per questo motivo, alla luce del loro legame con la loro parrocchia, hanno deciso di cercare un confronto con l’UP.
Grazie alla collaborazione delle chiese dell’UP hanno potuto organizzare attività di volantinaggio, comunicazioni a conclusione delle messe e anche una serata in cui hanno ospitato beneficiari e promotori dei corridoi umanitari. Di fatto, appoggiandosi alla rete delle parrocchie della zona, il gruppo ha iniziato a realizzare quelle che potremmo definire attività di fundraising e people-raising.
Nel corso del primo anno di attività il gruppo si è ampliato (conta ora oltre 50 persone), si è costituito come associazione rivitalizzando un’organizzazione di volontariato già esistente (Amici di Glocandia – Fratelli oltre il mare) e ha iniziato ad attivarsi per predisporre al meglio l’accoglienza. La Comunità di Sant’Egidio ha fornito loro un sintetico elenco delle varie esigenze – specialmente dal punto di vista economico – in modo che potessero farsi un’idea del denaro necessario e dei diversi aspetti pratici e logistici di cui tenere conto.
Si sono poi formati dei sottogruppi di lavoro incaricati di prepararsi alle singole esigenze e richieste, come accoglienza, studio dell’italiano, casa, scuola per i figli, documenti e pratiche burocratiche, salute e aspetti medico-sanitari, ricerca del lavoro, gestione economica, comunicazione dell’iniziativa all’esterno e all’interno del gruppo.
Il lavoro dei sottogruppi è stato fatto soprattutto nell’ottica di imparare a conoscere la rete territoriale, capire a chi appoggiarsi, scoprire le difficoltà del percorso e possibilmente prevenirle. Il concreto progetto di vita non è infatti deciso dal gruppo, ma dalla famiglia accolta: “non è un nostro progetto che gli caliamo addosso. È un progetto che costruiamo insieme. Deve essere così, nel rispetto delle persone”.
Un aiuto professionale: la mediazione culturale
Per preparare al meglio l’accoglienza il gruppo “Fratelli oltre il mare” si è subito reso conto che non era sufficiente trovare risorse economiche e persone disposte a donare il loro tempo. Come specifica Giovanni “il bene va fatto bene” e non si può improvvisare. Il gruppo si è quindi messo in contatto con altre realtà torinesi che si occupano di accoglienza di migranti e di assistenza a persone e famiglie in condizioni di vulnerabilità, trovando un appoggio importante in altre tre reti che hanno promosso corridoi umanitari, nell’Ufficio Pastorale Migranti2 e nel Cottolengo3. Grazie a queste realtà hanno individuato numerosi punti di riferimento cittadini e hanno predisposto una sorta di percorso formativo e informativo per i volontari di “Fratelli oltre il mare”.
Un altro aspetto che si è dimostrato fondamentale in questo senso è la mediazione culturale: il gruppo immaginava che la famiglia accolta sarebbe arrivata da un campo profughi libanese e che probabilmente avrebbe avuto origine siriana o afghana. Si aspettavano dunque di incontrare un grosso ostacolo linguistico e avevano deciso di contattare realtà torinesi in grado di offrire una mediazione linguistica e culturale. Alla fine, come racconteremo tra poco, è arrivata una famiglia francofona con cui il problema della lingua è stato superato facilmente (a Torino il francese è una seconda lingua molto studiata, per ragioni storiche e geografiche). Questo paradossalmente ha posto ancora più in evidenza la necessità di avere comunque una mediazione: le persone accolte arrivano da un contesto sociale, culturale, lavorativo ed economico completamente diverso da quello italiano.
La mediazione è importante innanzitutto per “riuscire proprio a capirsi”, come racconta Monica, e per riuscire a creare un rapporto di fiducia e comunicare in un modo rispettoso del vissuto, delle convinzioni e delle sofferenze altrui. La mediazione avviene però in due direzioni: se la loro prospettiva di vita futura è radicata in Italia, è importante che le persone profughe riescano a capire al più presto “dove sono finite e, nel rispetto della loro cultura e delle loro usanze, possano assorbire la realtà in cui vivono” e iniziare un lungo percorso di adattamento che li aiuterà a costruire la loro nuova identità di persone che vivono in Italia ma hanno radici altrove.
L’arrivo della famiglia accolta
Nell’estate del 2022 il gruppo “Fratelli oltre il mare” aveva predisposto al meglio l’accoglienza e l’accompagnamento nelle varie aree di bisogno, aveva raccolto un buon numero di risorse economiche ma mancava ancora la casa. Monica e Giovanni mi raccontano che è difficile trovare agenzie o privati disposti ad affittare a persone e famiglie profughe. Allo stesso tempo dalla primavera del 2022 tutto il sistema di accoglienza torinese è stato intensamente orientato ad accogliere persone e famiglie in fuga dall’Ucraina. Questa crisi ha di fatto occupato buona parte delle opportunità abitative per persone in difficoltà (avevamo parlato di questo argomento, in parte, anche nel nostro podcast “Storie di accoglienza”). Proprio in quel momento, grazie a una donazione fatta in ricordo di una persona cara scomparsa, si è risolto anche il problema della casa.
Superato questo scoglio, a luglio 2022, il gruppo ha informato la Comunità di Sant’Egidio che era pronto per l’accoglienza. A settembre infine è arrivata una telefonata dalla Comunità: di lì a qualche settimana sarebbe arrivata a Torino una famiglia originaria del Camerun composta da una mamma con le sue tre bambine (di cui una di poche settimane). Il papà le raggiungerà nei prossimi mesi perché sta ultimando un percorso di formazione professionale avviato a Roma.
E così, in un sabato pomeriggio di inizio ottobre, una rappresentanza del gruppo si è riunita alla stazione di Torino Porta Nuova per accogliere la famiglia. “Quello che per noi è stato scioccante, ma in senso buono, è il momento dell’arrivo”, racconta Giovanni. “Quando sono scese dal treno e di fatto si sono trovate davanti una quindicina di persone… di perfetti sconosciuti. E di fatto si sono affidate a questi perfetti sconosciuti”.
Quando incontro Monica e Giovanni la famiglia è arrivata a Torino da poco meno di due mesi, appena appena necessari per iniziare a conoscersi e costruire un rapporto di fiducia. Le bambine più grandi, dopo complessi passaggi burocratici che hanno richiesto circa un mese di tempo, hanno iniziato a frequentare la scuola di zona in cui hanno trovato personale scolastico molto attento e accogliente. La mamma ha iniziato a frequentare un corso di italiano per mamma e bambino (condizione imprescindibile vista l’età della neonata).
Ma quindi, come si prepara al meglio l’accoglienza “in fondo”?
Verso la fine della nostra chiacchierata chiedo a Monica e Giovanni cosa li preoccupa per il prossimo futuro, consapevoli del fatto che l’idea alla base dei corridoi umanitari è di offrire assistenza per un periodo di tempo limitato.
“La preoccupazione principale è il lavoro”, spiega Giovanni. Alla mamma e al papà della famiglia accolta serve infatti un lavoro dignitoso e giustamente retribuito per poter diventare autonomi, nella logica propria dei corridoi, in un paio di anni. I miei interlocutori non sanno ancora quale sarà la strada da percorrere per raggiungere questo obiettivo ma sono consapevoli che il percorso è appena iniziato e confidano che, col tempo e grazie al supporto dei volontari e dei professionisti coinvolti, la famiglia pian piano inizierà a disegnare un suo personale progetto di vita.
Quindi, chiedo a Monica e Giovanni, alla luce dell’esperienza fatta come si fa a creare l’accoglienza “in fondo” al corridoio? A loro avviso, se “il bene va fatto bene”, bisogna individuare quelle aree di bisogno rispetto a cui non è sufficiente la generosa disponibilità dei volontari, ma è necessario affidarsi a professionisti qualificati (è il caso, per esempio, della mediazione culturale). In questa logica è anche importante non improvvisare e non avere fretta di accogliere perché “bisogna rispettare le persone che arrivano” evitando di creare condizioni che poi non si è in grado di gestire appieno.
L’altro elemento fondamentale è la presenza di una rete. Il fatto di essersi appoggiati all’Unità Pastorale potrebbe, per esempio, favorire il ricambio tra i volontari e tra i donatori (è possibile che, una volta esaurito l’entusiasmo iniziale, ci sia un calo fisiologico in questo senso). Secondo Monica e Giovanni servirebbe però una rete più strutturata a livello cittadino, magari con il supporto di attori significativi come l’Ufficio Pastorale Migranti.
La presenza di un percorso già tracciato potrebbe aiutare a trovare il necessario aiuto professionale ma anche a sbrigare una serie di pratiche burocratiche molto complesse e sostanzialmente molto simili in ogni caso (residenza, iscrizione a scuola, assegnazione del medico di famiglia, ecc.). Come racconta Giovanni: “noi stiamo imparando sulla nostra pelle quali cose vanno fatte, in che ordine vanno fatte, quanto sono urgenti”. Comunicare in modo chiaro la presenza di questa rete potrebbe poi aiutare a diffondere la proposta dei corridoi umanitari.
Un’esperienza virtuosa. Un pezzetto della risposta
I corridoi umanitari sono realizzati in risposta alla necessità di reinsediamento dei profughi, cioè il trasferimento delle persone sfollate dai campi profughi a soluzioni abitative e di accoglienza permanenti. Si tratta però di progetti che si rivolgono a un numero ridottissimo di persone che hanno caratteristiche di estrema fragilità. Non rappresentano dunque una soluzione percorribile per tutte le persone in fuga da guerre, persecuzioni o disastri ambientali; né tantomeno possono accogliere le persone che migrano alla ricerca di un lavoro o di migliori condizioni economiche.
Secondo Daniele Garrone, presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI), è importante mantenere l’attenzione anche sugli altri percorsi migratori nell’ottica di rispondere al mandato costituzionale ed europeo di tutelare e promuovere i diritti umani. Garrone, in occasione dell’arrivo di un corridoio umanitario dalla Libia a fine novembre, ha richiamato l’attenzione proprio su questo: “Mentre ci rallegriamo per questo arrivo [attraverso il corridoio umanitario], pensiamo anche a chi dalla Libia approda a Lampedusa (…). La tragedia delle morti nel Mediterraneo impone scelte coraggiose e generose, coerenti con i nostri principi costituzionali (…). Siamo di fronte a una sfida complessa che ci impone di adottare strumenti diversi e complementari“.
Eleonora Camilli è una giornalista esperta di migrazioni che ha seguito da vicino il tema anche partecipando personalmente a tre corridoi umanitari. Nel corso di questi anni ha approfondito numerose iniziative, come per esempio il progetto “Pagella in tasca”, il primo corridoio umanitario al mondo rivolto ai minori stranieri non accompagnati. Ha intervistato diversi esperti, studiosi e operatori del settore e ci aiuta a costruire un quadro complessivo di questa forma di accoglienza. I progetti di accoglienza realizzati sono “davvero innovativi e importanti e tracciano un modello”, racconta. “Ma i numeri ci dicono che sono pochissime le persone che effettivamente riescono ad accedere a un corridoio umanitario”, come confermato anche dalle stime dell’UNHCR.
Nel complesso dunque, secondo Camilli, “i progetti sono importantissimi ma non possono rappresentare realmente, ad oggi, un’alternativa ai viaggi in mare” (avevamo presentato alcuni dati sulle migrazioni e sugli sbarchi in Italia in questo articolo). Si tratta infatti di progetti piccoli, finanziati esclusivamente da privati e rivolti, per definizione, solo una piccola parte selezionata delle persone che ogni giorno fuggono dal proprio Paese. Il privato sociale, secondo Camilli, non può essere lasciato solo in questo modello di accoglienza: gli Stati europei dovrebbe farsi carico dell’iniziativa non limitandosi a concedere i permessi necessari per il viaggio.
Il Governo Meloni ha recentemente confermato il sostegno a questa forma di reinsediamento, tuttavia emerge con chiarezza come sia necessario affrontare in modo complessivo il tema delle migrazioni – sia a livello nazionale che a livello comunitario – non limitandosi al sostegno a progetti virtuosi e facendosi guidare da principi imprescindibili come la libertà di movimento e la tutela dei diritti umani. Nelle parole di Camilli, in sintesi, i corridoi umanitari sono solo “un pezzo di quella che dovrebbe essere una strategia più complessiva per permettere alle persone di arrivare in Italia in sicurezza”.
I corridoi umanitari: cosa si può fare
Questo articolo è il primo della nostra campagna natalizia: una serie di approfondimenti in cui racconteremo un tema di welfare e proveremo ad approfondire chi se ne occupa in pratica e come lo fa. L’idea è di creare una sorta di “lista di regali solidali” da cui prendere spunto per donare il proprio tempo o il proprio denaro a chi potrebbe averne bisogno.
In questo senso, per quanto riguarda i corridoi umanitari, è possibile fare una donazione alle organizzazioni nazionali che li promuovono, come la Comunità di Sant’Egidio e la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, o agli enti che operano nei campi profughi permettendo di avviare i corridoi, come il Corpo Nonviolento di Pace Operazione Colomba. Oltre ovviamente a chi sta “in fondo al corridoio”.
In questi anni quasi 4.000 persone sono state accolte in Italia, a livello locale, da associazioni e gruppi di persone. Si tratta di realtà che, essendo molto differenti tra loro, sono difficili da mappare. Ma sostenerli è ovviamente importantissimo. Per scoprire se ci sono progetti attivi sul proprio territorio è possibile rivolgersi alla Comunità di Sant’Egidio o ad altri soggetti attivi localmente sul tema delle migrazioni e dei corridoi umanitari (a Torino e in Piemonte, per esempio, la Chiesa Valdese e l’Ufficio Pastorale Migranti). Gli enti e i gruppi che accolgono con i corridoi umanitari hanno diverse necessità: risorse economiche, volontari che dedichino parte del loro tempo e delle loro competenze al progetto di accoglienza, opportunità di comunicazione (incontri, passaparola, eventi in generale) per raccontare e diffondere la propria esperienza.
Ovviamente, per quanto riguarda Torino, vi segnaliamo l’organizzazione di volontariato Amici di Glocandia – Fratelli oltre il mare, che ci ha permesso di scoprire e approfondire un’esperienza che, seppur non risolutiva, permette di dare una risposta fondamentale per la vita di tante persone e famiglie in cerca di un futuro migliore.
Note
- Le Unità Pastorali (UP) sono dei raggruppamenti territoriali di parrocchie e chiese cattoliche non parrocchiali che insistono tutte sullo stesso territorio. Con l’invecchiamento e la diminuzione del numero dei sacerdoti questi raggruppamenti sono sempre più cruciali perché le singole chiese – e, più in generale, la Diocesi – possano svolgere il loro compito di vicinanza e accompagnamento spirituale e materiale della popolazione.
- L’Ufficio per la Pastorale dei Migranti (UPM) dell’Arcidiocesi di Torino è nato nel 2001 e si occupa del “complesso mondo della mobilità umana, di singoli, famiglie e comunità coinvolti in percorsi migratori”, come specifica il suo sito. L’UPM fornisce a migranti, rifugiati, profughi, apolidi e richiedenti asilo vari tipi di assistenza, dalla ricerca di casa, lavoro o di un posto per pregare (per tutte le confessioni religiose) al supporto in caso di discriminazioni, violenze, tratta o sfruttamento.
- Notissima opera caritativa fondata a Torino all’inizio dell’Ottocento da San Giuseppe Benedetto Cottolengo che ora promuove attività di cura, accoglienza e istruzione in tutto il mondo.