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Il coinvolgimento delle comunità locali si pone sempre più come una condizione fondamentale per il successo dell’integrazione dei migranti e della coesione sociale. E’ quanto emerge anche dall’esperienza di Caritas che, dopo la sperimentazione di “Protetto. Rifugiato a casa mia”, ha continuato ad utilizzare questo modello di accoglienza nell’ambito dei corridoi umanitari. Ne abbiamo parlato con Lucia Forlino dell’Ufficio politiche migratorie e protezione internazionale di Caritas Italiana.


Oltre il mare

Caritas Italiana ha presentato il Rapporto Oltre il mare – Primo rapporto sui Corridoi Umanitari in Italia e altre vie legali e sicure d’ingresso, dedicato al primo programma sui Corridoi Umanitari nato sulla base del protocollo sottoscritto nel 2017 fra la Conferenza Episcopale Italiana, Comuntà di Sant’Egidio e il Governo italiano. Il programma ha consentito l’arrivo in sicurezza in Italia di 500 richiedenti protezione internazionale, tra cui 106 nuclei familiari, che vivevano in campi profughi dell’Etiopia, Giordania e in Turchia. Un nuovo protocollo, firmato di recente porterà in Italia nei prossimi mesi altre 600 persone. L’accoglienza è stata impostata secondo un modello già sperimentato nella rete diocesana attraverso il progetto “Protetto. Rifugiato a casa mia”, lanciato dopo l’appello del Papa, che nel 2015 ha invitato "ogni parrocchia, ogni comunità religiosa, ogni monastero, ogni santuario d’Europa, ad accogliere una famiglia di rifugiati" e volto a coinvolgere le diocesi, le famiglie e singoli cittadini attraverso la messa a disposizione di vitto, alloggio e percorsi di integrazione (comprensivi di assistenza sanitaria, corsi di lingua, formazione professionale, ecc.).


Il percorso di integrazione

“L’accoglienza viene organizzata in particolare su tre dimensioni: abitativa, dell’integrazione culturale e professionale, predisponendo un percorso fatto di specifici passaggi che possano condurre all’autonomia delle persone. Tali percorsi sono organizzati grazie alla collaborazione tra Caritas italiana, Caritas parrocchiali e comunità ospitanti. Prima dell’arrivo dei rifugiati infatti Caritas realizza dei sopralluoghi per verificare gli spazi, formare gli operatori, reclutare e formare i volontari che accompagneranno i richiedenti asilo nel loro percorso di integrazione” – racconta Lucia Forlino.

Per aumentare le opportunità di integrazione, Caritas cerca di effettuare delle combinazioni virtuose tra comunità accoglienti e rifugiati sulla base sia delle necessità e delle caratteristiche dei rifugiati che del territorio in cui andranno a vivere. Ad esempio, si può fare riferimento alle opportunità lavorative del luogo: “Se hanno esperienza in attività agricole li mandiamo in zone rurali, se vogliono studiare, in città” – continua – oppure alle condizioni di salute “ad Assisi c’è un importante centro per persone ipovedenti, per questo abbiamo deciso di mandare in città persone non vedenti o con difficoltà visive. A Roma abbiamo un’ottima esperienza di una famiglia che ha messo a disposizione il proprio appartamento, in pieno centro, per una donna con un bambino cerebroleso, che in questo modo può recarsi in ospedale e ricevere le cure di cui necessita”.

Le persone sono state accolte in parrocchie, in appartamenti – messi a disposizione da famiglie, dalla Caritas diocesana, da privati cittadini – o ospitati direttamente dalle famiglie. Nel 45% dei casi le diocesi hanno messo a disposizione un bene di proprietà, ma nel resto dei casi sono state le relazioni esistenti sul territorio a garantire il reperimento dell’alloggio. In particolare, nel 27% dei casi è stata trovata una casa in affitto grazie ai contatti delle parrocchie o della diocesi e nel 9% delle situazioni l’alloggio è stato messo a disposizione, sempre grazie a contatti diocesani, in comodato gratuito. Solamente il 15% degli alloggi destinati all’accoglienza è stato trovato in affitto sul mercato immobiliare. Si riporta poi il caso virtuoso di una Caritas nel sud Italia, che ha utilizzato un bene confiscato alla Mafia, contribuendo al suo riutilizzo sociale. Meno frequenti invece le accoglienze dirette in famiglia perché, come ci spiega Forlino “sono più complicate, più adatte a una seconda accoglienza. Ci sono persone che arrivano da campi profughi dove hanno vissuto situazioni molto difficili, o persone che arrivano da paesi dove non hanno mai avuto una cucina, una doccia. Hanno quindi bisogno di affrontare lo shock, se così possiamo dire, l’adattamento alla nuova realtà con i loro tempi, la loro intimità”.

Con riferimento al lavoro, nel 30% dei territori sono stati attivati dei corsi di formazione professionale per i beneficiari. Il dato, che sembra contenuto, deve tener conto della circostanza che i corsi professionalizzanti giungono in qualche modo a conclusione del percorso di accoglienza, e dunque risentono di quando questa è stata attivata, delle azioni che è stato possibile intraprendere e del loro grado di implementazione, nonché dei risultati ottenuti. I beneficiari devono ad esempio trovarsi in Italia almeno da qualche mese, possedere di conseguenza un congruo livello di conoscenza della lingua, avere concluso l’iter legale: tutte condizioni soddisfatte finora da una quota minoritaria dei beneficiari, soprattutto a causa degli arrivi differenziati.


L’aiuto delle comunità

I beneficiari dei corridoi umanitari sono stati distribuiti sul territorio in maniera diffusa e capillare: attualmente sono 47 le diocesi coinvolte in 17 regioni. I Comuni nei quali stanno avvenendo le accoglienze sono 87: il 32% al Nord, il 38% al centro Italia e il 30% a Sud e nelle Isole.

L’esperienza ha coinvolto direttamente, oltre ai beneficiari, 58 famiglie tutor, 574 volontari e 101 operatori. “Il loro contributo – si legge nel rapporto – ha permesso di costruite una rete sociale, di sensibilizzare le istituzioni locali e le scuole, verso le condizioni e i contesti di vita dai quali i rifugiati stessi provengono; di rendere l’esperienza condivisa a livello comunitario, ai fini di accelerare e facilitare i percorsi individuali e familiari di inclusione in Italia”. Finora il 97% ha ottenuto lo status di rifugiato, il 30% è inserito in percorsi di formazione professionale, 24 beneficiari hanno già trovato un impiego. Tutti i minori in età scolare sono stati inseriti a scuola.

Il 64,5% delle accoglienze ha visto la partecipazione di famiglie tutor. E’ proprio il coinvolgimento delle famiglie uno dei punti di forza del progetto, perché la famiglia funge da testimone, incentivando altri all’apertura verso queste persone, fino a offrire vere e proprie referenze ad esempio nella ricerca di un lavoro, come a San Giovanni Rotondo, dove grazie al sostegno delle famiglie tutor, della diocesi e dei fondi dell’8X1000 un gruppo di profughi siriani aprirà presto una pizzeria-kebab. “Abbiamo avuto esperienze straordinarie, come tutor che invitano gli ospiti al pranzo della domenica, altri che hanno iscritto i figli dei rifugiati a calcetto con i propri, altri ancora i cui i figli hanno insegnato l’Italiano ai rifugiati, che hanno insegnato ai loro figli l’Arabo e il Francese. In un altro caso hanno organizzato delle serate di confronto tra Vangelo e Corano. E’ un vero e proprio scambio culturale” racconta Lucia Forlino.

Come si legge nel rapporto, la partnership fra soggetti coinvolti a livello locale è la chiave vincente per favorire i percorsi di integrazione delle persone, ma a livello nazionale e internazionale risulta indispensabile mettere in campo una serie di misure e strumenti diversificati che possano permettere alle persone di entrare legalmente e in sicurezza. “Sono quanto mai necessarie alternative davvero credibili ai viaggi illegali e che garantiscano la sostenibilità dell’accoglienza attraverso il coinvolgimento delle comunità locali per puntare all’autonomia dei beneficiari e alla coesione sociale”.

Photo Credit © Romolo Maddaleni – Progetto Fiaf CSVnet "Tanti per tutti. Viaggio nel volontariato italiano"