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Venerdì 23 marzo la Giunta Regionale del Piemonte ha approvato il Patto per lo sviluppo di comunità solidali, una nuova edizione del documento di programmazione delle politiche sociali piemontesi. L’atto, come vi spieghiamo in questo articolo, ha individuato alcune priorità in risposta a bisogni sociali emergenti: sostegno alle famiglie e alla genitorialità, contrasto alla povertà, integrazione socio-sanitaria, servizio civile universale e politiche per l’abitare. Abbiamo parlato con Augusto Ferrari – assessore regionale alle Politiche sociali, della famiglia e della casa – dei presupposti e degli obiettivi generali dell’atto in una prima intervista. La nostra chiacchierata prosegue, concentrandosi sui contenuti del Patto, sugli obiettivi concreti e sulle azioni che saranno messe in campo nei prossimi anni in Piemonte.

Il Patto è stato elaborato grazie a un percorso partecipato che ha coinvolto, in nove incontri su tutto il territorio regionale, diverse centinaia di operatori e stakeholder locali. Cosa è emerso dal confronto col territorio? Quali bisogni sociali sono stati individuati come prioritari?

Abbiamo innanzitutto confermato i tre ambiti di intervento che erano già presenti nel Patto per il sociale 2015-17: contrasto alla povertà, sostegno alla genitorialità e alle famiglie, integrazione socio-sanitaria. Il confronto con il territorio ha permesso di verificare quanto realizzato in questi ambiti negli ultimi due anni e di individuare nuovi obiettivi per il prossimo biennio. Rispetto al contrasto della povertà ci siamo posti l’obiettivo di dare attuazione – in maniera adeguata alle peculiarità della nostra Regione – ai provvedimenti nazionali, prima il SIA e adesso il REI. Questi due provvedimenti chiedono alle Regioni di essere protagoniste attive nella definizione di un piano di contrasto alla povertà. Per quanto riguarda il sostegno alle famiglie, nel biennio passato ci siamo concentrati sui Centri per le famiglie [avevamo parlato qui, in parte, dell’esperienza torinese, ndr]: il lavoro da fare è ancora molto, però siamo partiti da una situazione in cui i finanziamenti per i Centri erano stati sostanzialmente azzerati. Noi abbiamo scelto di recuperare questo strumento, di rifinanziare i Centri e di farli diventare veri punti di riferimento per le famiglie e per il supporto della responsabilità genitoriale. L’ambito dell’integrazione socio-sanitaria è quello in cui scontiamo una maggior difficoltà, anche a causa del piano di rientro della spesa sanitaria da cui il Piemonte è uscito solo nel 2017. Sicuramente non siamo riusciti a realizzare quanto ci eravamo prefissati: i consorzi e le Asl viaggiano ancora su binari che rischiano di non incrociarsi, se non grazie alla buona volontà dei singoli operatori. Ovviamente è proprio su questo tema che sono emerse le principali critiche da parte dei territori. Dal nostro punto di vista il 2018 rappresenta però un anno di svolta, in cui vediamo i presupposti per la realizzazione di una più piena integrazione. In questo senso è già in corso tra la Direzione Sanità e la Direzione Politiche sociali un lavoro tecnico di revisione complessiva del sistema dell’integrazione socio-sanitaria.

Questo tavolo tecnico è uno degli strumenti previsti dal Patto appena approvato per favorire l’integrazione socio-sanitaria. Come funziona concretamente questo coordinamento? Da chi sarà composto?

L’idea di una cabina di regia regionale è nata dall’esigenza di integrare politiche e interventi a livello di vertice, allo scopo di favorire la governance territoriale e ridisegnare a livello operativo i rapporti tra sociale e sanità (in particolare tra Asl e enti locali). Il coordinamento introdotto dal Patto sarà un’unità operativa integrata tra la Direzione Sanità e la Direzione Coesione sociale che vedrà coinvolti i due assessorati, le due direzioni e numerosi funzionari che ordinariamente si occupano di temi di rilevanza sociale e sanitaria. L’unità prevedrà però anche l’attiva partecipazione degli enti territoriali. È importante sottolineare che la cabina di regia non sarà un gruppo temporaneo, ma sarà una realtà permanente in cui potranno trovare una loro integrazione programmatica numerose questioni che mettono in campo responsabilità sia sanitarie che sociali.

Quali temi in particolare saranno affrontati dalla cabina di regia? Quali sono i primi passi da compiere per favorire l’integrazione socio-sanitaria in Piemonte?

Abbiamo individuato alcune priorità che dovranno essere affrontate nella prima metà del 2018. La prima grande sfida che impegnerà l’assessorato e la cabina è il tema della non autosufficienza, declinato sia rispetto all’invecchiamento della popolazione sia rispetto alla questione della disabilità. Rispetto a quest’ultima, ci proponiamo di recepire lo spirito della legge sul “Dopo di noi”, implementando a livello regionale interventi sempre più distanti dal paradigma dell’istituzionalizzazione e sempre più miranti all’autonomia della persona. Rispetto agli anziani non autosufficienti, il nostro impegno sarà rivolto al rafforzamento della domiciliarità.

La Regione Piemonte è caratterizzata da un approccio prevalentemente residenziale alla questione della non autosufficienza delle persone anziane: come favorire uno spostamento del sistema verso la domiciliarità?

Certamente il nostro sistema è molto sbilanciato sulla residenzialità. Un primo cambiamento è stato promosso nel 2010 attraverso una legge, la n. 10 della Regione Piemonte, che ha stabilito un rafforzamento degli interventi domiciliari introducendo in maniera sistematica l’assegno di cura. Poi è intervenuto il piano di rientro della spesa sanitaria, che ha praticamente impedito al fondo sanitario di intervenire su questo ambito. Ad oggi esistono singole esperienze, anche sperimentali, che rappresentano dei punti di riferimento per una nuova riprogrammazione del sistema regionale. Si tratta però, appunto, di singole esperienze. A questo proposito interverremo, nei prossimi mesi e anni, sul fronte delle risorse e su quello della governance. Auspichiamo innanzitutto la creazione di un fondo socio-sanitario, per fare in modo che nel bilancio regionale siano indicate delle risorse destinate alla sanità e al sociale tra loro integrate e vincolate alla realizzazione di interventi nell’area dell’integrazione, e in particolare della domiciliarità. Questi interventi socio-sanitari dovranno però a loro volta essere definiti in maniera più precisa, in particolare rispetto alla loro rilevanza sociale e sanitaria (e alla conseguente possibilità di essere finanziati con risorse destinate a questi due ambiti). Ci impegneremo nella realizzazione di un sistema di governance a livello locale che permetta un’azione congiunta e una gestione unitaria delle risorse. In questo senso penso in particolare al budget socio-sanitario.

Ovviamente gli interventi in questo ambito dovranno essere caratterizzati da una forte integrazione anche con le politiche per il lavoro e la formazione professionale: la definizione di interventi a valenza socio-sanitaria dovrà contemplare anche una filiera di professioni necessarie per garantire il sistema dei servizi di cura domiciliare. Da questo punto di vista sarà quindi importante il coordinamento con la nuova strategia regionale per la promozione dell’assistenza familiare [elaborata anche sulla base di un’indagine a cui ha collaborato il nostro Laboratorio, ndr].

Anche il tema del contrasto alla povertà è stato confermato come prioritario nel documento appena approvato. Rispetto a questo, il precedente Patto aveva proposto il profilo di criticità, uno strumento volto ad effettuare una lettura multidimensionale e omogenea della vulnerabilità delle persone al momento del loro ingresso nel sistema dei servizi. Come sta procedendo la sperimentazione? Ci sono già dei primi risultati del Gruppo di lavoro?

Siamo ancora nella fase di sperimentazione, quindi non mi sbilancio con valutazioni premature. L’atto sui profili di criticità rappresenta però indubbiamente un importante primo frutto maturato nella stagione del SIA. Nel momento in cui la nostra Regione è stata coinvolta nella sperimentazione del SIA, si è cercato di sviluppare una modalità di lavoro che permettesse ai territori e agli operatori di avere parametri condivisi nell’affrontare le diverse situazioni di bisogno e nel predisporre le misure attive di inserimento sociale e lavorativo collegate al SIA. Ora, come dicevo, siamo ancora nella fase di sperimentazione del profilo di criticità: il nostro scopo è quello di valutare l’impatto di questo strumento e capire come potrà essere trasformato in un punto di riferimento fondamentale anche nella nuova stagione del REI. Questa nuova misura, che ha sostituito il SIA, dovrà essere ulteriormente rafforzata anche dal punto di vista delle risorse disponibili, ma rappresenta la prima risposta strutturale alla povertà nel nostro Paese. Il REI colma una lacuna storica del welfare italiano, che ha sempre delegato agli enti locali la responsabilità del contrasto alla povertà. Vista la rilevanza del REI, ci siamo posti nei prossimi due anni l’obiettivo di far transitare efficacemente il lavoro sul profilo di criticità, iniziato col SIA, nella fase del REI. Il decreto istitutivo del REI ha peraltro investito le Regioni del compito di regia territoriale per la definizione di un piano regionale di contrasto alla povertà che dovrà essere redatto entro il mese di marzo. Il piano vedrà sicuramente tra i suoi obiettivi l’adeguamento del profilo di criticità al REI; un altro nodo da affrontare sarà poi il coordinamento tra le risorse messe a disposizione dallo Stato per l’implementazione del REI e quelle che da tempo i singoli comuni già destinano all’assistenza economica. Per elaborare il piano abbiamo scelto, a dicembre 2017, di istituire in Piemonte una Rete regionale di protezione e di inclusione sociale. Questo organo, volto a elaborare piani e strategie di contrasto della povertà e a monitorare l’impatto delle misure via via avviate, esiste già a livello nazionale dallo scorso novembre, e noi ne facciamo parte. A differenza della Rete nazionale – che è composta dal Ministero, dalle Regioni e dall’Anci – noi abbiamo scelto di coinvolgere strutturalmente anche attori non istituzionali. I sindacati e i soggetti del Terzo Settore, che rappresentano comunque interlocutori privilegiati della Rete nazionale, sono in Piemonte componenti effettivi della Rete stessa.

Dal confronto col territorio è emersa anche la necessità di aggiungere ambiti di intervento nuovi rispetto ai tre presenti nel precedente Patto, di quali ambiti si tratta?

Si tratta del servizio civile universale e delle politiche per l’abitare. Era fondamentale che questi due temi, già presenti nell’attività dell’assessorato, fossero inseriti nel Patto per garantire loro una piena integrazione nel processo di programmazione e implementazione delle politiche sociali.

Perché la Regione ha proposto di puntare sul servizio civile universale come strumento di politica sociale? In che termini intende farlo?

Abbiamo voluto interpretare il servizio civile universale come parte organica della programmazione del welfare piemontese dato che, anche con la riforma del Terzo Settore, inizia una nuova stagione per il servizio civile. Anche in questo caso le Regioni dovranno essere in grado di assumere un ruolo di governance identificando nel servizio civile uno strumento di inclusione e di costruzione di cittadinanza per le nuove generazioni. In questo senso il servizio civile universale permette di intervenire in un ambito strategico della riforma del welfare italiano, storicamente quasi del tutto inesistente per i giovani. Il nostro è infatti un sistema di welfare che non si è mai posto come obiettivo strategico quello di favorire con politiche effettive la cittadinanza e l’inclusione delle nuove generazioni. Siamo arrivati a un punto in cui le nuove generazioni rappresentano una delle questioni principali nel nostro Paese in tema di esclusione sociale, un punto in cui il sistema di welfare non può più sottrarsi dall’affrontare questo nodo. Il servizio civile universale è uno degli strumenti con cui si può effettivamente rispondere a questa esigenza, e per questo diventa parte integrante delle politiche regionali di welfare.

L’altra priorità introdotta dal Patto per lo sviluppo delle comunità riguarda l’abitare. Come è stato definito il problema in questi anni? Come è declinato nel documento appena approvato?

Il tema della casa è ormai dirompente, emergenziale. Il modello a cui eravamo abituati non è infatti efficace rispetto all’esplosione di nuove forme di diseguaglianza e povertà che sono andate a colpire fasce di popolazione in precedenza caratterizzate da stabilità, presenza di un lavoro e di un reddito fisso. È necessario passare da una stagione in cui la politica per la casa è stata prevalentemente di pianificazione edilizia a una nuova fase in cui parlare di welfare abitativo, perciò il tema dell’abitare deve essere parte organica della programmazione delle politiche sociali. Anche in questo ambito vogliamo farci portatori di un’ottica innovativa, che non si limiti a gestire il patrimonio esistente degli alloggi popolari ma provi anche a intraprendere strade nuove che possono effettivamente rispondere in maniera più efficace a bisogni che ad oggi rimangono completamente inevasi. Il welfare abitativo sarà quindi interessato da una specifica programmazione che metterà a disposizione dell’ente pubblico una serie di strumenti e interventi volti a rendere la casa un bene sostenibile, in relazione alle capacità che le persone e i nuclei familiari hanno. Questa programmazione è frutto di un lavoro tecnico iniziato diversi mesi fa, che nei primi mesi del 2018 dovrebbe vedere una prima concretizzazione in un atto di Giunta.

Il Patto parla in particolare di un indicatore multidimensionale per suddividere i Comuni in base al disagio/rischio abitativo. Come sarà costruito? Quale legame immagina con lo strumento dei profili di criticità e, in generale, con gli obiettivi settoriali dell’ambito “povertà e esclusione sociale”?

Come dicevo, la nuova programmazione nell’ambito del welfare abitativo ha richiesto un lavoro molto lungo e attento, che si è concentrato sostanzialmente sulla rilevazione del rischio abitativo in Piemonte. Eravamo fermi a una ricognizione del 2003, che aveva mappato il disagio abitativo e individuato una trentina di comuni “ad alta tensione abitativa”. Avevamo però consapevolezza del fatto che il disagio abitativo nel corso degli anni si era esteso ed era cambiato: la situazione era diventata più complessa e le zone di bisogno non coincidevano più solamente coi territori dei comuni definiti “ad alta tensione abitativa”. Era necessaria una rimappatura del Piemonte per meglio comprendere la localizzazione e l’intensità del rischio abitativo. Negli ultimi mesi abbiamo lavorato alla rilevazione suddividendo il territorio regionale in 30 aree coincidenti con i Distretti per la salute e la coesione sociale. Per ogni zona abbiamo individuato un Comune capofila e abbiamo ricostruito le caratteristiche locali del disagio abitativo in base ad alcuni indicatori legati prevalentemente ai dati ufficiali sulla condizione socio-economica delle famiglie di quel territorio. Abbiamo poi incrociato questi dati – che rappresentano i bisogni locali – con i dati relativi alle varie risposte che ogni territorio ha a disposizione per intercettare e soddisfare le necessità. Il confronto tra questi elementi ha evidenziato la presenza di una discrepanza tra le misure in atto e la localizzazione del disagio, per cui ci sono delle aree completamente scoperte. Il nostro compito sarà quindi quello di riallineare le risposte locali con i bisogni espressi dai vari territori. L’altra grande sfida sarà proprio l’ideazione di soluzioni che favoriscano la connessione tra le misure di sostegno per chi vive in disagio abitativo e gli strumenti di contrasto alla povertà, in particolare il REI.

Il tema delle risorse a disposizione rimane un vincolo importante nella realizzazione di innovazioni nel campo del welfare. Quali sono le risorse preventivate per l’implementazione del Patto?

Stiamo discutendo proprio in questi giorni il bilancio del 2018. Complessivamente circa 150 milioni di euro saranno destinati alle politiche sociali e di coesione; a questa cifra dobbiamo aggiungere le risorse provenienti dai fondi nazionali che sono finanziati ogni anno: il fondo non autosufficienza, grazie al quale la Regione potrà contare su circa 35 milioni di euro aggiuntivi, e il fondo indistinto, che ammonta a circa 20 milioni.

Ai più di 200 milioni di euro ordinari si aggiungono però altre risorse di origine nazionale legate a specifiche misure. Mi riferisco in particolare al fondo legato alla legge sul “Dopo di noi” e al fondo nazionale di contrasto alla povertà. Gli stanziamenti per il “Dopo di noi” nel 2017 ammontavano a 10 milioni di euro e siamo in attesa di conoscere il riparto per il 2018. Il fondo nazionale di contrasto alla povertà è invece quello che sostiene l’implementazione del REI. Mentre il SIA è stato realizzato con risorse europee messe a bando dallo Stato attraverso il PON inclusione, per il REI i finanziamenti provengono da un fondo statale. Queste risorse sono inoltre parzialmente vincolate: il 15% del finanziamento destinato agli enti gestori dovrà essere destinato al rafforzamento delle misure attive previste dal REI. Le risorse europee rappresentano in ogni caso un’opportunità importante per il welfare piemontese, pensiamo ad esempio ai 20 milioni di euro investiti nella strategia WeCaRe e provenienti dal Fondo Sociale Europeo (FSE) e dal Fondo Europeo per lo Sviluppo Regionale (FESR).

Questi stanziamenti straordinari e specifici rafforzano la capacità del welfare regionale di concentrarsi su diversi temi prioritari (la disabilità e il “Dopo di noi”, il contrasto della povertà, l’innovazione sociale), ma il  dato più importante è la stabilizzazione delle risorse ordinarie destinate al welfare nel bilancio regionale. Aver raggiunto questo consolidamento rappresenta un elemento fondamentale per poter dare un ampio respiro programmatorio alla nostra azione.