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Siamo un Paese vecchio e che continua a invecchiare, ma nonostante questo fatichiamo a trovare soluzioni adeguate alle esigenze abitative degli anziani, specialmente quelli fragili e non autosufficienti. Dove si può intervenire per affrontare questa situazione? Ne parliamo nella nostra inchiesta dedicata all’housing per gli over 65, pubblicata su Corriere Buone Notizie dell’8 dicembre 2020. Di seguito trovare l’articolo di contesto firmato da Paolo Riva; qui invece il commento della nostra Chiara Lodi Rizzini.  


Covid e anziani. Quando se ne parla, si pensa subito alle Rsa. Nelle residenze sanitarie assistenziali, contagi e vittime sono stati numerosi, così come gli appelli per riformare queste strutture. Giusto e comprensibile. “La vera scommessa, però, è un’altra”, secondo Franca Maino. “La pandemia – prosegue la direttrice del laboratorio Percorsi di secondo welfare – dovrebbe spingerci a creare un sistema integrato, con valide alternative alle Rsa, dove dovrebbe stare il minor numero di persone possibile”. Un obiettivo ambizioso, per raggiungere il quale si deve partire dal tema della casa.

In Italia, più dell’80 per cento degli anziani abita in una casa di proprietà, spesso troppo grande. Gli italiani sopra i 65 anni che vivono soli, infatti, sono oltre quattro milioni. Fenomeni come questi sono presenti anche in altri grandi paesi europei, ma nel nostro sono più marcati. Del resto, abbiamo una speranza di vita tra le più alte, combinata però con maggiori difficoltà domestiche e una salute peggiore. I nostri anziani vivono più a lungo, ma peggio di molti loro coetanei europei. Eppure, secondo una ricerca pubblicata a gennaio, il 64 per cento di loro non lascerebbe la propria abitazione nemmeno per una più adatta.

Marco Trabucchi, presidente dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria, conferma: “l’attaccamento alla casa, da noi, è fortissimo. Altrove, come negli Usa, è diverso: ci si trasferisce di più e farlo anche in vecchiaia è meno problematico”. La questione è anche culturale. Ma il modello italiano di cura famigliare degli anziani sta saltando, secondo Trabucchi: “viviamo una transizione delicatissima, resa più evidente dalla pandemia”. Come affrontarla?

Maino è convinta che in questa fase sia possibile agire solo in due direzioni: “consapevolezza e progetti dal basso”. Per la prima, agli italiani di mezza età va fatto capire che non possono arrivare alla vecchiaia impreparati. “Bisogna risparmiare, magari riscoprendo le società di mutuo soccorso, ed entrare nell’ottica di cambiare abitazione, se necessario”, prosegue. Così si garantirebbero benefici agli anziani di domani, ma anche ricadute positive a quelli di oggi, di cui si occupa la generazione di mezzo.

Per quanto riguarda le iniziative dal basso, invece, Maino fa l’esempio di WILL. Il progetto, cui partecipa anche Secondo Welfare, è stato appena lanciato da 10 capoluoghi di provincia per innovare il welfare locale. “Una delle idee – aggiunge – è garantire agli anziani fragili una presa in carico complessiva: far convergere in un unico budget individuale tutte le risorse cui hanno diritto, integrando sociale e sanitario”. Anche Trabucchi auspica soluzioni simili, citando un altro caso positivo promosso dagli enti locali. “Vanno creati luoghi fisici di prossimità, cui sia facile accedere per ricette, visite, esami e relazioni con servizi o ospedali. Penso – conclude – alle Case della salute, che in alcuni Comuni dell’Emilia esistono da anni”. Sempre dall’Emilia, ma ancora più dal basso, viene un’altra esperienza significativa: la comunità familiare Ca’ nostra, a Modena.

“Nell’appartamento messo a disposizione dal Comune, vivono anziani con demenza, insieme alle loro assistenti familiari. Noi famiglie ci occupiamo dell’organizzazione, paghiamo le spese e frequentiamo la comunità quando vogliamo, come una vera casa”, spiega la presidente Laura Valentini. La comunità, sostenuta dal Centro Servizi Volontariato Terre Estensi e da diverse associazioni, pur operando su piccoli numeri, rappresenta un modello innovativo di coabitazione. Nei paesi del Nord Europa queste soluzioni sono da tempo realtà, mentre nel nostro si stanno sviluppando ora.

Per Valentini “la coabitazione e, più in generale, l’abitare sociale sono la chiave di volta per una vecchiaia serena”. Non è l’unica ad esserne convinta. In Italia, da ben prima che Ca’ Nostra nascesse nel 2016, sono anni che tanti e diversi soggetti promuovo interventi di housing sociale, anche per anziani. I prezzi calmierati, l’attenzione alle fragilità e le relazioni positive tra abitanti, in particolare tra quelli di generazioni differenti, hanno fatto dei progetti di questo tipo una soluzione privilegiata per molti over 65, più o meno autosufficienti. Dal Borgo sostenibile di Figino a Milano, al Paese ritrovato, per malati di Alzheimer a Monza; dalla Cascina Fossata, in periferia a Torino, alla Corte Grande di Canedole nelle campagne mantovane, gli esempi recenti sono numerosi. E mostrano il tentativo di passare dalle sperimentazioni agli interventi strutturali. Proprio in tal senso, a novembre è stato presentato il Comitato nazionale per l’housing sociale. È un organismo che aggrega i soggetti più rappresentativi del settore, per stabilire una strategia comune di lungo termine e migliorare la cooperazione pubblico-privato.

Certo, per molti anziani, anche di fronte a maggiori opportunità di housing sociale, rimarrebbe la resistenza a lasciare la propria abitazione. Eppure, c’è chi l’ha fatto. “Mia mamma oggi vive a Ca’ Nostra,” racconta Laura Valentini. “Non è stato affatto facile. Ma, ora che ho visto quanto sta meglio, voglio anche io un posto così da anziana”.

Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera dell’8 dicembre 2020 nell’ambito della collaborazione tra Secondo Welfare e Buone Notizie; è qui riprodotto previo consenso dell’autore.