Per molto tempo la questione abitativa ha occupato uno spazio marginale nel nostro Paese, in parte perché la povertà abitativa è stata mitigata dallo sviluppo economico – come dimostra l’elevato numero delle case di proprietà -, in parte per il ruolo che le famiglie hanno svolto come ammortizzatori sociali anche su questo fronte, “offrendo un tetto” ai propri membri. Ma l’impoverimento delle famiglie, l’”invecchiamento” del patrimonio immobiliare, l’emergere di nuove esigenze abitative, e la ricerca di soluzioni più green chiedono di ripensare i modelli abitativi esistenti, guardando con interesse a nuove forme di mutualismo e collaborazione.
Una nuova domanda abitativa
Diversi fattori rendono l’attuale offerta abitativa inadeguata. Il primo ha a che fare con l’impoverimento. Poiché le spese abitative assorbono una quota consistente dei redditi, l’incidenza di povertà assoluta varia anche a seconda del titolo di godimento dell’abitazione, e la situazione è particolarmente critica per chi vive in affitto. Le oltre 866mila famiglie povere in affitto rappresentano infatti il 43,1% di tutte le famiglie povere (Istat 2021). Famiglie a cui lo Stato non riesce a dare una risposta: definite “la Cenerentola del welfare italiano”, le politiche per la casa occupano uno spazio marginale tra le politiche sociali, tanto che l’edilizia residenziale pubblica si attesta al 3,8%, una percentuale molto bassa in confronto al 16% della Francia, e al 6% della media Ue (Housing Europe 2021).
La nuova domanda abitativa è spinta inoltre da cambiamenti sociali, culturali e del mondo del lavoro. Si pensi ai giovani che, da un lato a causa della diffusione di rapporti di lavoro precari hanno sempre meno capacità di accedere al mercato immobiliare e, dall’altro, rispetto alle precedenti generazioni, sono più orientati alla fruizione delle abitazioni che al possesso, e dunque all’affitto rispetto alla proprietà. O all’invecchiamento della popolazione, che comporta tre ordini di problemi: l’incidenza dei canoni di locazione, soprattutto in presenza di redditi da sola pensione sociale; i problemi di adeguatezza dello spazio abitativo rispetto alle condizioni fisiche (scale, spazi sovradimensionati, ecc.); il rischio di isolamento.
Infine, “all’onda verde” che sta travolgendo anche l’abitare. La consapevolezza dell’impatto che lo sviluppo edilizio incontrollato e il nostro stile di vita – e quindi anche di abitare – hanno sull’ambiente portano sempre più persone a ricercare modelli abitativi alternativi a quelli che hanno caratterizzato i decenni passati.
Verso nuovi modelli abitativi
Social housing
Il primo strumento con cui in Italia si è tentato di rinnovare l’offerta abitativa è quello del social housing. Va qui premesso che mentre all’estero col termine social housing generalmente si intende l’equivalente della nostra edilizia residenziale pubblica, in Italia esso indica un modello specifico, corrispondente all’insieme di quegli interventi di politica abitativa d’interesse pubblico che vanno oltre i tradizionali confini dell’edilizia residenziale pubblica e che associano gli interventi di edilizia ad azioni di accompagnamento sociale. Il social housing, attraverso la partecipazione e collaborazione di istituzioni, soggetti privati e non profit, svolge una funzione di interesse generale volta a promuovere la coesione sociale sul territorio, intervenendo prioritariamente su un’area di disagio sociale esclusa dai benefici pubblici per i più bisognosi e al contempo non in grado di accedere al mercato (Cittalia-Anci 2011).
Tre sono dunque le sue principali caratteristiche: 1) area di disagio sociale non estremo, tipico di soggetti esclusi dai benefici pubblici ma al contempo non in grado di accedere al mercato; 2) partnership pubblico-privato-non profit nella realizzazione e gestione dei progetti; 3) rilevanza della dimensione sociale degli interventi.
I progetti di social housing sono sostanzialmente finanziati attraverso il sistema integrato di fondi immobiliari introdotti dal Piano nazionale di edilizia abitativa (D.p.c.m. del 16 luglio 2009). Esso è costituito da un fondo nazionale, il Fondo Investimenti per l’Abitare (FIA), gestito da Cassa Depositi e Prestiti Investimenti, nel quale confluiscono risorse di CDP, del Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti e di altri investitori privati. Il FIA investe il proprio patrimonio principalmente in quote di fondi immobiliari locali gestiti da altre società di gestione del risparmio. Dalla sua istituzione, esso ha di fatto sostituito le azioni di policy pubblica.
A differenza delle politiche abitative tradizionali, che affrontano il disagio abitativo quasi esclusivamente attraverso l’offerta di alloggi a canone calmierato, l’housing sociale cerca di migliorare la condizione abitativa intervenendo anche sulla dimensione sociale, appunto, attraverso la sperimentazione di nuove forme dell’abitare nelle quali gli abitanti sono chiamati a partecipare attivamente alla costruzione di una comunità.
Co-housing e abitare collettivo
Sulla scia del crescente interesse per le pratiche collaborative e di condivisione, anche in Italia hanno iniziato a diffondersi inoltre forme abitative collaborative, la più nota delle quali è il cohousing. Nate in Nord Europa nell’ambito di progetti promossi da cittadini alla ricerca di un modello innovativo di abitare, nel corso degli anni, pur rimanendo al momento un fenomeno minoritario, si sono diffuse nel resto del mondo, assumendo caratteristiche e modalità peculiari a seconda del contesto locale.
Sotto l’etichetta di abitare collaborativo vengono infatti ricompresi progetti eterogenei, le cui forme variano sensibilmente sia a livello territoriale che temporale. Pur nella loro diversità, i progetti di abitare collaborativo sono accumunati dai seguenti elementi distintivi:
- hanno come oggetto l’abitare, e quindi si differenziano dalle comunità intenzionali di tipo religioso, politico ecc.;
- prevedono la coesistenza di unità abitative indipendenti e spazi condivisi (es. spazio polifunzionale; lavanderia; orti/giardini) le cui caratteristiche e criteri di utilizzo dipendono dalle esigenze degli abitanti del singolo progetto;
- prevedono attività e/o servizi che sono gestiti direttamente dagli abitanti e che possono riguardare la gestione quotidiana (pulizie, manutenzione del verde, ecc.), servizi (baby-sitting, Gas, car-pooling, ecc.), o attività che vedono gli abitanti come organizzatori (corsi di ginnastica, musica, ecc.);
- adozione di processi decisionali orizzontali, per cui gli abitanti condividono scelte di cui sono responsabili come gruppo;
- in molti casi infine gli abitanti seguono un processo di progettazione partecipata che ha principalmente due obiettivi: costruire un’abitazione che soddisfi i bisogni e i desideri dei suoi abitanti; costruire e consolidare la comunità di abitanti, che durante i numerosi incontri imparano a conoscersi e a individuare valori e obiettivi condivisi.
Questi modelli abitativi stanno attirando sempre più attenzione da parte di cittadini alla ricerca di modelli abitativi alternativi a quelli che hanno dominato nei decenni precedenti la crisi del 2008. Soluzioni abitative che guardano ai valori della solidarietà, ecologia e condivisione, in opposizione a isolamento, individualismo, speculazione, crisi ambientale ed ecologica (Bettini 2019). Ma anche i governi, soprattutto quelli locali, guardano con favore all’abitare collaborativo, intravedendo in esso uno strumento con cui promuovere non solo l’inclusione abitativa, ma anche quella sociale. La partecipazione degli abitanti nella gestione dei progetti abitativi può infatti facilitare l’inclusione sociale degli inquilini più vulnerabili, che partecipando ad attività ed eventi escono da una situazione di emarginazione e isolamento; inoltre ne promuove una maggiore responsabilizzazione nella manutenzione degli alloggi, un obiettivo importante in contesti abitativi spesso caratterizzati dall’incuria. Ecco così che nei nuovi progetti di housing sociale, come spiegato sopra, vengono sempre più spesso inseriti spazi o attività collaborative tra gli abitanti, di solito estesi anche al quartiere.
Un’altra spinta all’abitare collaborativo arriva dal Terzo settore, soprattutto dalle cooperative sociali. La coabitazione sta diventando infatti un ingrediente di molti servizi di welfare ed è presente in svariate progettazioni sociali di attori privati (es. comunità familiari, comunità alloggio per disabili, ecc.). Come spiegano Costa e Bianchi (2020), nel volume “Rilanciare il legame sociale attraverso pratiche di condivisione abitativa”, raggruppare persone che condividono le medesime problematiche consente di razionalizzare risorse scarse, spazi, interventi professionali, accompagnamento sociale. Si tratta però anche di un modo specifico di interpretare la logica del mutuo aiuto che è al cuore del progetto pedagogico, educativo, terapeutico o sociale su cui si basano: abitare insieme consente spesso di mettere insieme forze e risorse per riuscire a ricostruire l’autonomia persa strada facendo.
In questa direzione va segnalata anche l’azione delle cooperative di abitazione. Secondo quanto riporta Nomisma (2021), la cooperazione di abitanti ha fornito una risposta concreta alla domanda di affordable housing. Negli ultimi 10 anni, infatti, le principali cooperative aderenti a Legacoop Abitanti hanno messo in campo un’offerta di locazione pari a oltre 9.600 alloggi, il 77% dei quali si trova in un capoluogo metropolitano, dove il livello dei canoni di locazione è spesso insostenibile. Inoltre, poco meno del 40% delle cooperative riesce a garantire un abbassamento dei canoni di mercato del 20-30%, di fatto equiparabili ai livelli del canone concordato.
Infine, la cooperazione sta sperimentando progetti che mettono al centro comunità e abitanti, attraverso un approccio mutualistico e modalità di gestione sperimentale di abitare solidale, patti di convivenza e attenzione ai target giovani e anziani. Modelli abitativi che seguono mix di target e funzioni, con annessi servizi per la costruzione di una filiera intersettoriale insieme alla cooperazione sociale per servizi alla persona, e alla cooperazione culturale verso una visione di distretti mutualistici.
Riferimenti bibliografici
- Bettini F. (2019), Community led housing: modelli di abitare alternativi nel panorama europeo e internazionale, in Iaione C., Bernardi M., De Nictolis E. (a cura di) (2019), La casa per tutti. Modelli di gestione innovativa e sostenibile per l’adequate housing, Il Mulino, Bologna
- Costa G. e Bianchi F. (2020), Rilanciare il legame sociale attraverso pratiche di condivisione abitativa, in “La Rivista delle Politiche Sociali / Italian Journal of Social Policy”, 2/2020, pp. 143-157.
- Istat (2021), La povertà in Italia, Roma.
- Lodi Rizzini (2013), (2013), Il social housing e i nuovi bisogni abitativi, in Maino F. e Ferrera M. (a cura di) (2013), Primo rapporto sul secondo welfare in Italia 2013, Torino, Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi.
- Nomisma (2012), Next Housing. Evidenze, strumenti e modelli di offerta, giugno 2021.
Questo articolo è tratto dal numero 3/2021 di Rivista Solidea, pubblicazione promossa dall’omonima Società di mutuo soccorso e parte del network del nostro Laboratorio.