Nato a Roma nel 1956, Stefano Parisi è il candidato del centrodestra per la poltrona di primo cittadino di Milano. Laureato in Economia e Commercio, ha cominciato la sua attività professionale nell’ufficio studi della CGIL per poi entrare, non ancora trentenne, nella macchina del Governo nazionale. Da 1984 al 1997 ricopre incarichi di primo piano al Ministero del Lavoro, al Ministero degli Esteri e alla Presidenza del Consiglio. Nel 1997 Parisi si trasferisce a Milano, dove diviene city manager di Palazzo Marino per il nuovo sindaco Gabriele Albertini. Nel 2000 passa al settore privato diventando direttore generale di Confindustria e poi, nel 2004, assumendo la carica di amministratore delegato di Fastweb. Nel 2012 fonda Chili Tv, società italiana che si occupa di streaming on line. Nel febbraio scorso la coalizione di centrodestra gli ha chiesto di correre come sindaco di Milano contro il candidato del centrosinistra Beppe Sala (leggi qui la sua intervista). Abbiamo chiesto a Stefano Parisi di raccontarci la sua visione su povertà, esclusione sociale e white economy, oltre che dei progetti sociali che intende sviluppare in caso di vittoria. Ecco cosa ci ha detto.
Negli ultimi anni, complice la crisi economica, la situazione sociale in città si è notevolmente aggravata. Come valuta l’attuale condizione di Milano?
È fuori discussione che Milano abbia due facce. Da una parte, specialmente in alcune aree, c’è una situazione drammatica, ma dall’altra c’è la Milano che produce e compete con successo in Europa e nel mondo, che può e deve sostenere la Milano che soffre e arranca. Per fare in modo che ciò accada bisogna lasciarla più libera: più libera di sperimentare, di investire, di creare sviluppo e occupazione. Milano è un bivio: per fare in modo che i più deboli non restino indietro, bisogna agire subito, con decisione e senza ipocrisia.
Ritiene che l’attuale amministrazione abbia lavorato bene per affrontare questa situazione?
Quella della giunta Pisapia è stata una gestione fortemente centralista, poco efficace a lungo termine. Aumentare tasse e spesa può forse risolvere qualche problema emergenziale, ma condanna i più deboli a una sorta di dipendenza dal denaro pubblico, senza possibilità di uscire dalla propria condizione di bisogno, raggiungere l’indipendenza economica e la normalizzazione della vita sociale.
Secondo lei l’attore pubblico è attualmente in grado di rispondere efficacemente ai bisogni sociali vecchi e nuovi dei cittadini milanesi?
No. Per ragioni di bilancio, ma soprattutto di capacità e competenze. Un esempio su tutti: il Comune attualmente spende circa tre milioni di euro all’anno per fornire direttamente pasti a domicilio a 1.400 persone. Il privato sociale, con solo 90.000 euro di aiuti pubblici, dà da mangiare a 56.000 persone.
Mi pare di capire che secondo lei un maggiore coinvolgimento ei privati possa migliorare l’impatto delle politiche sociali elaborate dal Comune.
Sicuramente. Dobbiamo abbandonare l’idea che un servizio sia pubblico in quanto gestito dal pubblico. Milano offre una rete di organizzazioni sociali senza pari in Europa. Molte di queste realtà nascono spontaneamente sul territorio ma fanno fatica ad affermarsi, per mancanza di informazione e complicazioni fiscali e burocratiche: il Comune deve passare da erogatore a controllore, valorizzando l’iniziativa privata.
Cosa pensa della possibilità di investire sulla cosiddetta white economy per rafforzare l’economia di Milano?
Sul valore sociale ed economico della filiera della white economy ormai non ci sono più dubbi. Penso che il Comune debba facilitare in qualunque modo gli investimenti ma non effettuarli direttamente, se non per quanto riguarda le infrastrutture tecnologiche e gli spazi pubblici da aprire alle attività di cura, assistenza e previdenza per la persona.
Se diventerà sindaco quali provvedimenti assumerà per contrastare la povertà e favorire l’inclusione sociale sociale?
Dobbiamo passare dalla logica dell’assistenzialismo alla costruzione di percorsi che diano a chi oggi vive in stato di necessità l’opportunità di crearsi un futuro autonomo, indipendente e dignitoso. Lo faremo coinvolgendo il terzo settore, ma anche tramite l’adozione sperimentale di un sistema di welfare basato sul Conditional Cash Transfer (CCT), cioè sul modello avviato da Michael Bloomberg a New York nel 2007. Si tratta dell’erogazione di forme di sostegno sociale basate sull’impegno concreto dei beneficiari a intraprendere azioni che li aiutino a uscire dalla trappola della povertà, come effettuare controlli medici, partecipare a iniziative di formazione e inserimento professionale, garantire l’istruzione dei figli. In questo modo, la solidarietà si coniuga al reinserimento attivo e responsabile della persona nella società.