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L’Ue si appresta a varare un piano finanziario senza precedenti per la ripresa economica post-Covid. Si apre una fase nuova, che nessuno avrebbe potuto immaginare solo qualche mese fa: da Bruxelles non più richieste di austerità, ma sovvenzioni generose e prestiti a basso costo. La soddisfazione del governo Conte è legittima e comprensibile. Ma è meglio non cantare vittoria. Il Consiglio europeo non ha ancora approvato il piano von der Leyen e le resistenze dei Paesi «frugali» (Olanda, Austria, Danimarca e Svezia) potrebbero riservare alcune brutte sorprese. Inoltre, per accedere ai fondi Ue saremo chiamati a due sforzi straordinari: uno programmatico e uno attuativo. Bisognerà fare proposte di riforma credibili e concrete e poi realizzarle nei tempi prestabiliti. E nel linguaggio di Bruxelles «realizzare» non significa solo fare delle leggi, ma raggiungere dei risultati. Com’è tristemente noto, progetti e risultati non sono proprio il nostro forte. Di proposte serie, sistematiche e condivise ancora non c’è traccia. La Commissione Colao ha elaborato un programma ricco di suggerimenti concreti, ma è rimasta inascoltata. Durante gli Stati Generali, c’è stato molto ascolto, ma concretezza zero. Il Programma Nazionale di Riforma è a sua volta concreto nella elencazione delle misure già prese, ma vago nelle dichiarazioni d’intento. Insufficiente dunque per trovare ascolto a Bruxelles. L’unica strada non ancora percorsa è quella più ovvia e promettente: ascoltare (e far proprie) le proposte concrete della Ue.

Il piano Next Generation Eu è tutt’altro che un bancomat, una lista di fondi da distribuire. Si basa su una visione coerente del futuro (verde, digitale, sostenibile, inclusivo) dell’Europa e stabilisce obiettivi tematici e criteri puntuali che dovranno ispirare le richieste di sovvenzioni e prestiti da parte dei governi nazionali.

Prendiamo una delle sfide «storiche» del nostro paese, che rischia di ingigantirsi il prossimo autunno: la disoccupazione giovanile. Il primo luglio scorso la Commissione ha formulato una proposta che faremmo bene a recepire subito: il rafforzamento della Garanzia Giovani. Si tratta di una iniziativa introdotta nel 2014 per far fronte alle conseguenze della recessione e indirizzata al segmento più debole del mercato del lavoro: i cosiddetti Neet, i giovani fino a 30 anni che non studiano e non lavorano. Grazie al co-finanziamento Ue (3 miliardi annui) tutti i paesi hanno irrobustito o introdotto programmi di garanzia volti a intercettare i Neet, ricondurli nei circuiti formativi e accompagnarli al lavoro. Più di 24 milioni di giovani europei hanno beneficiato di questa iniziativa, sottraendosi a un destino di marginalizzazione. La Ue propone oggi di rafforzare Garanzia Giovani, trasformandola in un vero e proprio «ponte verso il lavoro», che parta dalla scuola secondaria, faciliti i percorsi di istruzione superiore, li metta in linea con le esigenze delle imprese e infine favorisca l’inserimento tramite tirocini e offerte di lavoro.

Le «coorti Covid» – i giovani che stanno finendo gli studi nell’anno della pandemia – saranno le più penalizzate nei prossimi anni dal punto di vista occupazionale. Il persistente stock di giovani inattivi avrà sempre maggiori difficoltà ad inserirsi in una economia che richiede nuove competenze e conoscenze. E probabilmente la recessione provocherà una vera e propria ondata di «Neet temporanei»: giovani istruiti espulsi dai tanti posti precari che verranno soppressi dalle imprese.

In Italia si è diffusa l’impressione che la Garanzia Giovani sia stata un fallimento. In realtà, pochi sanno che lo schema è ancora in vigore e nessuno sembra consapevole del fatto che Bruxelles voglia farne un canale privilegiato di accesso ai nuovi fondi. Teniamo presente che all’occupazione giovanile andranno circa 700 miliardi in totale (560 a valere sul dispositivo per la ripresa e la resilienza, 55 sul fondo React-Eu e 86 sul Fondo Sociale Plus).

Del resto il piano della Commissione si chiama, appunto, Next Generation Eu. Che la sua priorità siano i giovani non è una sorpresa. E non dovrebbe esserlo soprattutto in Italia, visto che la disoccupazione giovanile è a tutt’oggi una piaga gravissima. Sono Neet 23 giovani su cento, quasi il 35% nelle regioni del Sud: la percentuale di gran lunga più alta d’Europa. Le donne sono il 20% più numerose degli uomini. Si tratta di giovani istruite, molte laureate, che stanno a casa per responsabilità familiari. Il divario di genere inizia e si radica già in questa fase del ciclo di vita. La stragrande maggioranza dei Neet è privo di competenze digitali di base, anche se diplomato. Come possiamo affrontare il futuro in queste condizioni?

La Garanzia Giovani italiana non spicca per efficacia nel panorama europeo. Ma dobbiamo tenere conto del punto di partenza. Secondo Eurostat, nel 2014 i Neet erano quasi due milioni e mezzo, un esercito disperso di «fantasmi» nascosti ai margini della società. Grazie alla Garanzia sono stati intercettati negli anni più di 1 milione e 400 mila Neet, la metà ha ricevuto un’offerta lavorativa o formativa, molti hanno ricominciato a studiare. Si poteva fare di più, anche molto di più. Ma il disfattismo di alcuni commentatori e il cono d’ombra che ha avvolto l’iniziativa non sono giustificati.

Per una volta – visto che «paga l’Europa» – cerchiamo di costruire su ciò che abbiamo fatto proprio grazie all’Europa. Magari sfruttando maggiormente – come suggerisce la Commissione – gli incentivi fiscali per alimentare la domanda di lavoro, soprattutto al Sud. Perché alla radice della disoccupazione italiana c’è anche una carenza cronica di posti, che ci portiamo dietro da decenni. È da qui che conviene partire. In linea con il quarto principio del Pilastro europeo dei diritti sociali e, soprattutto, con il primo articolo della nostra Costituzione.

Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera del 10 luglio 2020, ed è qui riprodotto previo consenso dell’autore