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Un’indagine condotta da Acli e Cisl su un campione di ventenni romani e presentata il 3 ottobre ha destato più di qualche attenzione perché, in base a un inedito «indice di arrendevolezza» predisposto dai ricercatori, ci racconta che due terzi dei giovani pur di trovare un posto di lavoro sarebbe disposto a rinunciare alle sacre conquiste dei padri e delle madri. Ferie, copertura della malattia, indennità di maternità. È la prima volta che a livello di rappresentazione collettiva emerge un orientamento così remissivo, finora un certo tipo di comportamenti eravamo abituati a rintracciarli in scelte individuali e comunque isolate.

È un dato, quello romano, che di conseguenza colpisce e di cui ci sarà tempo e modo di vagliare la reale profondità. Non dobbiamo però escludere a priori l’ipotesi più drastica, ovvero che mentre noi ci accapigliavamo sull’aderenza o meno delle norme del Jobs act ai consolidati principi della cultura del welfare i nostri ragazzi, per paura, ci abbiano sconfessato e siano diventati «selvaggiamente liberisti», sulla loro pelle per di più. Battute a parte, anche i risultati che giungono da quest’ultima rilevazione di Acli-Cisl possono essere utili se ci spingono verso una doppia operazione.

La prima è quella di intensificare il lavoro di ricognizione sulle tendenze giovanili, sul mutamento degli stili di vita e dei riferimenti culturali di una generazione «esclusa» per descrivere la quale siamo arrivati persino a usare – con il termine apartheid – il lessico del Sud Africa pre-Mandela. Mi è capitato più volte di dire che il tratto saliente della disuguaglianza in Italia non si concretizza tanto in un’iniqua distribuzione del reddito quanto nel fossato che divide le generazioni come mai era successo in passato, ma di questa piccola verità il sindacalismo italiano fatica a prendere atto.

La seconda è un’operazione che può apparire più tradizionale e che invita a non demordere nella ricerca delle policy destinate a combattere attivamente la disoccupazione. Purtroppo in Italia si è abituati ad accogliere i dati, sovente contraddittori dell’Istat o dell’Inps, con commenti da stadio più che dolersi o comunque interessarsi del merito. Con il Jobs act il governo aveva pensato di utilizzare l’auspicata ripresa economica per stabilizzare una quota significativa del precariato e su questa opzione ha scommesso una generosa posta di bilancio. Purtroppo il ciclo economico non ha assecondato quest’indirizzo e la manovra ha prodotto dei risultati ma non quelli che avevamo sognato. Con il senno di poi si può osservare come le nuove norme avrebbero avuto bisogno di un accompagnamento più largo, di creare sinergie con le politiche attive e più in generale di dotarsi di una bussola per navigare in quella che viene definita la grande trasformazione del lavoro.

È vero infatti che continuano a convivere alti tassi di disoccupazione con l’impossibilità di trovare sia saldatori italiani da assumere nell’industria cantieristica sia giovani che siano disposti a lavorare da un fabbro o più in generale a imparare i tradizionali mestieri artigianali. Ed è anche vero che un mercato alle prese con crescenti fattori di incertezza continua a richiedere flessibilità estrema fino a forzare indebitamente strumenti come i voucher, i tirocini e gli stage. Assodato quanto sia difficile mettere le briglia a un mutamento che ha carattere persino epocale, a questo punto però il rischio sembra essere un altro e assai contingente: che la politica italiana disillusa dai risultati ottenuti in materia di occupazione decida di cambiare cavallo. Di scommettere su un’altra constituency, magari elettoralmente più affidabile come sembra essere quella dei pensionati. I segnali (evidenti) ci sono e il pericolo che i grandi assenti della legge di Bilancio 2017 alla fine siano i giovani e il lavoro appare in questi giorni elevato. Andrebbe evitato invece che le politiche economiche assomigliassero a un bricolage del consenso, a un tirar fuori dal mazzo la carta giudicata più adatta per giocare la partita del momento.