Thub06 è un progetto rivolto al mondo dell’infanzia sostenuto dall’impresa sociale Con i Bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto alla povertà educativa minorile.

Svoltosi tra il 2018 e il 2021, il progetto si è strutturato come unico hub con 15 snodi sul territorio di Torino per offrire, grazie all’apporto di 23 partner, strumenti e opportunità ai bambini e alle bambine nella fascia di età 0-6 anni e alle loro famiglie al fine di sostenerne fragilità economiche, sociali e culturali. A tale scopo, Thub06 ha operato sia all’interno di servizi educativi tradizionali (scuole materne, asili nido), sia in contesti ibridi come le Case del Quartiere, luoghi nei quali si esprimono pensieri e vissuti collettivi, che avviano esperienze di partecipazione, coinvolgimento ed auto-organizzazione.

L’attivazione di comunità educanti ha rappresentato, da questo punto di vista, un elemento cruciale e trasversale delle diverse azioni messe in atto ed è per questa ragione che nella pubblicazione finale del progetto – Progettare connessioni per grandi e piccini – è stato proposto un approfondimento sul tema, che viene riportato di seguito. Desideriamo ringraziare i gestori di Thub06 per l’opportunità di rilanciare questi contenuti.

Il legame tra comunità ed enti

Fare comunità è sempre più, e non da oggi, un’azione artificiale intrapresa, almeno a livello di governance del processo, da attori istituzionali. Pubbliche amministrazioni, enti di Terzo Settore e imprese investono crescenti quote di tempo, energie e risorse per costruire e coltivare comunità educanti non solo al proprio interno ma anche nel contesto esterno, operando sempre più spesso in ambienti “phygital”. Di solito la discussione tra gli addetti ai lavori – soprattutto coloro che operano in qualità di costruttori e gestori di comunità – verte sulla morfologia dei soggetti comunitari, cioè sugli elementi che li contraddistinguono guardando in particolare agli obiettivi perseguiti e, soprattutto, al collante identitario che li tiene insieme.

Forse però c’è un altro aspetto da considerare ovvero il legame tra comunità ed enti che le generano e le gestiscono. Un rapporto cruciale e ambivalente dal quale scaturiscono effetti rilevanti sia per i soggetti comunitari, ma anche per le organizzazioni che su di essi investono. L’elemento chiave intorno al quale si gioca questa relazione riguarda la funzione di abilitazione, ovvero il “mettere in grado” attori diversi ad operare come una comunità al fine di perseguire al meglio i loro obiettivi e, al contempo, generare valore per le organizzazioni che esercitano tale funzione abilitante.

Tutto questo diventa ancora più rilevante e controverso se il processo è orientato al perseguimento di obiettivi di interesse generale e ancor di più se la comunità è animata da intenti educativi ovvero da capacità di empowerment delle competenze e delle motivazioni non solo dei propri membri ma anche di un più ampio spettro di interlocutori che a vario titolo beneficiano e contribuiscono alle attività svolte.

Processi comunitari e soggetti “abilitati”

A questo proposito nelle progettualità che, sempre più numerose, accompagnano e sostengono comunità educanti non è sempre agevole tracciare il confine tra abilitazione autentica e strumentale. In qualche caso, infatti, l’impressione è che soggetti istituzionali (non solo pubblici ma anche di Terzo Settore) attivino e sostengano processi comunitari più per ovviare a vincoli d’azione interni o del contesto di riferimento, in particolare guardando ai sistemi di regolazione del welfare e, più in generale, delle politiche pubbliche. Anzi, alle volte tali vincoli sono di fatto accettati perché tutto sommato i benefici derivanti dall’operare nella “gabbia d’acciaio” degli standard autorizzativi e di accreditamento prevalgono sui costi derivanti dal “perdere il controllo” a favore di soggetti nuovi e fuori dagli schemi.

In sintesi, tenersi a debita distanza dalle comunità che si attivano può essere un modo per salvaguardare le proprie certezze rispetto a quello che si deve e si sa fare, oltre che un espediente utile ad autoassolversi quando i bisogni tendono ad evolvere in altre direzioni. Questo orientamento potrebbe essere compreso guardando in particolare al ciclo di vita di molte organizzazioni che ormai da decenni operano – per scelta e perché sollecitate da regolatori che spesso sono anche apportatori di risorse – con approcci che tendono a omologare e standardizzare la produzione di servizi lasciando poco margine a elementi di flessibilità e immaginazione che chiamano in causa altri attori. Ma d’altro canto un eccesso di strumentalità potrebbe ingenerare una rottura nel meccanismo sociale dell’abilitazione per cui alle comunità educanti potrebbe andare sempre più stretto il ruolo di “coro greco” dei professionisti dei servizi di welfare.

Anche in questo caso si tratterebbe di un esito non imprevisto considerato che i processi comunitari hanno l’intento di innescare capacità di azione e di protagonismo che, raggiunta una certa soglia, o trovano uno “sfogo” in nuove partnership e schemi d’azione, oppure tenderanno a confliggere con le logiche e gli approcci di chi ha lanciato l’iniziativa ma non ha poi saputo (o voluto) dare pienamente seguito.

In questo senso sarebbe interessante approfondire il punto di vista degli “abilitati“: volontari, cittadini attivi, comitati, gruppi informali che scaturiscono da progetti di comunità come quelli di contrasto alla povertà educativa. Capire come sono entrati nel ruolo, come “sono stati messi in grado di” e, in senso più ampio, cosa pensano di e come si rapportano con i soggetti abilitatori (cioè gli enti gestori dei progetti), come se li rappresentano, se hanno intenzione di continuare a collaborare con loro e se manifestano volontà di autogestione considerando che le comunità sono tali anche perché si emancipano da un qualche “assetto istituzionale”.

Come capire se i processi funzionano

Ma in attesa di poter approfondire con dati di ricerca questi aspetti si possono comunque identificare alcuni elementi utili a riconoscere la bontà dell’investimento nella creazione e gestione di comunità educanti. Il moltiplicarsi delle sperimentazioni in atto – come quelle emerse nell’ambito del workshop di chiusura del progetto Thub06 – consente infatti di evidenziare alcuni snodi critici intorno ai quali si gioca un’abilitazione più “estetica” o sostanziale.

Community building

Il primo riguarda l’utilizzo non solo competente ma anche consapevole di metodi e tecniche di community building. Negli ultimi anni, infatti, la “cassetta degli attrezzi” si è molto arricchita di strumenti spesso elaborati e adattati da contesti diversi perché, come si ricordava, fare comunità è ormai un’esigenza trasversale a diversi settori e organizzazioni.

L’insieme di questi tool non è certamente neutrale sia nei contenuti che nelle modalità d’uso e quindi richiede una notevole capacità di gestione e di adattamento non solo da parte dei professionisti che accompagnano e accelerano questi processi ma anche da parte delle comunità a cui spesso tali strumenti vengono lasciati in eredità. A fare la differenza, su questo fronte, è sempre più la qualità del contesto nel quale gli strumenti vengono messi in atto. L’efficacia di questi ultimi dipende, in buona sostanza, dal modo in cui sono identificati e allestiti punti di contatto spesso all’interno di infrastrutture sociali orientate a sostenere il protagonismo comunitario.

È il caso, ad esempio, de “L’armadio ZeroSei – Prendi, lascia, scambia” installato all’interno di alcune Case di Quartiere e in altri luoghi educativi e di comunità coinvolti nel progetto Thub06. L’armadio è un dispositivo che favorisce la raccolta e lo scambio di vestiti, giochi e attrezzature per bambini e che si qualifica come un’azione progettuale capace di intercettare processi sociali di mutuo aiuto attivati durante la pandemia, come la consegna di pacchi cibo a persone e famiglie fragili.

Coprogettazione

Il secondo snodo critico chiama in causa le architetture progettuali spesso disegnate e gestite come un gioco a incastri tra work packag “auto eseguibili”, basati cioè su attività segmentate e prestabilite che se da un lato presidiano il versante dell’efficienza, a volte prescindono dal carattere mutevole e generativo dei contesti. Questi fattori ambientali assumono invece una rilevanza particolare se ad emergere è una dimensione processuale legata al coinvolgimento e all’empowerment di soggetti che non possono essere classificati solo come beneficiari (neanche indiretti).

Un simile approccio dovrebbe caratterizzare soprattutto azioni di coprogettazione che si configurano come alvei di opportunità piuttosto che come cerimoniali dove ogni componente del “tavolo” apporta contributi propri preoccupandosi soprattutto di tutelarne l’origine rispetto a rischi di espropriazione da parte di altri partecipanti o del dominus che conduce il processo (come, ad esempio, una Pubblica Amministrazione o, sempre più spesso, una fondazione).

In questi percorsi di advocacy dei bisogni e di coproduzione di risposte che non vengono solo dal basso ma seguono anche percorsi top down in quanto attivati da enti istituzionali, assume una particolare rilevanza il gioco di ruolo dell’operatore sociale che nell’ambito dei workshop di Thub06 è stato definito con la metafora dell’”attore non protagonista”. Si tratta, in sintesi, della capacità di sospendere la dimensione erogativa servizio per permettere di cogliere meglio il complesso di bisogni e di risorse che caratterizza diversi interlocutori. Un approccio basato su un mix performativo fatto di avanzamenti (attraverso proposte e stimoli intenzionali), supporti (alle competenze e alle capacità) e capacità di ritrarsi (per realizzare anche nei servizi e non solo nelle politiche un’autentica sussidiarietà).

Flessibilità

Terzo e ultimo snodo riguarda la capacità di organizzare la flessibilità: una sollecitazione non nuova per imprese, istituzioni, soggetti di terzo settore che fin qui è stata interpretata soprattutto attraverso meccanismi di tipo buy, ovvero di acquisto di beni e servizi che esulano dalle attività principali dell’organizzazione. In questo modo però gli elementi “core” tendono a cristallizzarsi e quelli acquisiti esternamente assumono invece una connotazione residuale e strumentale inducendo così cambiamenti solo di tipo incrementale oppure, all’opposto, aprendo la strada a mutamenti radicali dettati però più dall’evidenza dei propri limiti che da una vera e propria aspirazione al cambiamento.

Una diversa soluzione, da questo punto di vista, consiste nel lavorare sulle adiacenze tra attività proprie ed esterne cercando di ricomporle in filiere che consentano di dar vita a risposte articolate e complesse dove si recuperano gli elementi fondanti dei servizi di interesse collettivo (educazione, cura, ecc.) e non solo la loro dimensione prestazionale. L’innovazione adiacente richiede, in sintesi, di focalizzare il carattere essenziale del proprio agire a partire però dalla rilevanza assegnata alle interdipendenze con altre componenti di produzione e attori. Una modalità che peraltro può consentire di agire proattivamente e non subire in senso correttivo percorsi di cambiamento organizzativo.

Rispetto a questa esigenza il progetto Thub06 evidenzia due importanti incubatori di innovazione adiacente: gli spazi outdoor (di cui Secondo Welfare vi parlò qui, ndr) e il contesto digitale. Ambiti che peraltro tendono sempre più spesso a convergere determinando il contenuto dei servizi, ma anche le modalità attraverso cui questi ultimi vengono messi a disposizione e usufruiti. In sintesi, non solo nuovi modelli di progettazione delle attività ma anche di “delivery” lungo un continuum analogico – digitale che probabilmente rappresenterà un importante lascito della pandemia per la costruzione della “nuova normalità”.

Un confine da presidiare

Questi (e probabilmente altri) snodi appena descritti non sono dettagli tali da richiedere, tutt’al più aggiustamenti gestionali, ma sono componenti rilevanti di strategie e politiche emergenti. Da essi, infatti, passa il confine tra un’abilitazione autentica di comunità educanti animate da intenti di natura trasformativa e il mantenimento di uno status quo che invece rafforza rendite di posizione – peraltro decrescenti – centrate su standard prestazionali a fronte di una domanda sociale che mai come in questa fase storica si è fatta consistente sia in termini di bisogni che di aspirazione al cambiamento.


Per approfondire

Manzini E. (2021), Abitare la prossimità. Idee per la città dei 15 minuti, Milano, Egea.

Marmo M. (2021), “Un operatore riflessivo radicato nel territorio. Appunti per cercare strade con l’apporto di tutti”, di prossima pubblicazione su Animazione Sociale.

Trapanese R. (2019), “Comunità educanti: strategie di innovazione sociale e sostenibilità territoriale”, paper Focus ZeroSei, n. 1/2019.