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Continuano i nostri approfondimenti sul ruolo che la finanza sociale può assumere all’interno del contesto italiano. Dopo aver inquadrato il tema nella sua complessità (La rivoluzione alle frontiere della filantropia) e definito i principali attori protagonisti che operano in questo ambito (Il versante soggettivo: istituzioni e attori protagonisti della finanza sociale) l’analisi si concentra sulla costruzione di processi di policy-making caratterizzati da un alto tasso di innovazione. Sul fronte delle politiche sociali la finanza sociale potrebbe infatti colmare una lacuna che non è semplicemente quella relativa alla quantità o alla qualità del welfare offerto dal settore pubblico, ma che riguarda piuttosto la crescente necessità di rivedere e sperimentare forme sempre nuove di servizi sociali, inevitabilmente sottoposti a pressanti spinte di cambiamento, soprattutto considerata la velocità con cui mutano rischi e bisogni della popolazione.


Un obiettivo della finanza sociale

Sull’avvento di un fenomeno come quello della finanza sociale molto è stato detto. Senz’ombra di dubbio si tratta di un insieme di soggetti e strumenti che interagendo tra loro stanno dando forma ad un processo di evoluzione significativo e quanto mai urgente: in un clima di crescente sfiducia tanto nei confronti del sistema politico che di quello economico, la finanza sociale sembra timidamente invertire tale tendenza. Per la verità non sono pochi coloro che vedono nei possibili sviluppi della finanza sociale un nuovo mercato capace di superare vecchie iniquità e inefficienze. Tuttavia, una analisi più attenta dei principali strumenti oggi in via di sperimentazione, in particolare i social impact bonds, costringe a moderare gli entusiasmi: più precisamente si tratta di registrare, sia sul piano teorico che su quello pratico, alcuni limiti o debolezze degli strumenti in questione (McHugh et al. 2013). D’altra parte si tratta di una realtà emersa solo di recente ed ancora ad uno stato embrionale, dunque bisognosa di rodarsi e aggiustare i propri meccanismi interni di funzionamento.

In ogni caso e al di là dei risultati sino ad ora registrati, occorre comprendere (o forse semplicemente decidere) quali siano gli obiettivi cui la finanza sociale è o dovrebbe essere preordinata. Ciò non significa delimitarne a priori il campo d’azione e i possibili conseguenti benefici, quanto piuttosto stabilire uno scopo e verificare se questo nuovo insieme di strumenti sia in grado di raggiungerlo. A tal proposito si vuole qui proporre una preliminare delimitazione circa il senso della finanza sociale, appunto per poter poi comprendere cosa gli appartenga e cosa no. Lo scopo della finanza sociale non è appena quello di sostituire un sistema che si ritiene – a torto o a ragione – ormai superato. La finanza sociale da questo punto di vista sembra soffrire impostazioni ideologiche eccessivamente rigide. Senz’altro le prime esperienze si sono manifestate attraverso delle partnership complesse tra attori pubblici e privati nell’ambito dei servizi di welfare o comunque sociali, tuttavia nelle ragioni di questo inizio non compaiono istanze a priori improntate ad una logica di privatizzazione del welfare. Non sarebbe poi onesto nascondere che, a seconda delle forme che la finanza sociale può assumere, l’esito di determinate sperimentazioni consista in una delega di potere decisionale a favore di soggetti privati, ancorché senza finalità di lucro.

In realtà, la finanza sociale si muove per colmare una lacuna, che non è quella relativa alla quantità o alla qualità del welfare offerto dal settore pubblico, ma riguarda piuttosto la crescente necessità di rivedere e sperimentare forme sempre nuove di servizi sociali, inevitabilmente sottoposti a pressanti spinte di cambiamento, soprattutto considerata la velocità con la quale la stessa domanda di servizi muta nella popolazione. In altri termini, la finanza sociale consiste nel tentativo di individuare capitali finanziari che siano in grado di contribuire alla innovazione sociale, ossia alla ridefinizione dei processi attraverso cui formulare o riformulare l’offerta di servizi di welfare, in chiave adeguata alla domanda che oggi emerge.

L’innovazione sociale e il ruolo dell’attore pubblico

Si tratta quindi di comprendere meglio cosa si debba intendere con l’espressione innovazione sociale. In questa sede è comunque sufficiente accogliere una definizione condivisa sebbene non eccessivamente tecnica: «definiamo innovazioni sociali le nuove idee (prodotti, servizi e modelli) che soddisfano dei bisogni sociali (in modo più efficace delle alternative esistenti) e che allo stesso tempo creano nuove relazioni e nuove collaborazioni» (Murray, Caulier Grice, Mulgan 2010). L’innovazione sociale è dunque generalmente intesa come l’abilità di formulare risposte a bisogni emergenti attraverso forme e schemi nuovi di collaborazione e d’azione.

Come è stato autorevolmente e più volte sottolineato, l’innovazione può essere vista come una sorta di effetto emergente e inatteso, ma pur sempre frutto di un orientamento collettivo che va promosso e perseguito anche a livello istituzionale. Chi scrive ritiene che la principale difficoltà ad innovare – nel contesto italiano – risieda proprio nella assenza istituzionale dal campo di gioco. Infatti l’innovazione sociale, come ogni tipo di innovazione, costituisce una attività ad elevato rischio di fallimento. Si pensi all’innovazione tecnologica: pochissimi dei tentativi di innovare giungono a termine con risultati positivi. Questa è peraltro la ragione che ha ispirato anche recenti ricerche, tese a mostrare come determinati fenomeni di crescita e sviluppo tecnologici non siano avvenuti semplicemente sulla base di una particolare sensibilità delle divisioni di “ricerca e sviluppo” di rampanti start up. Al contrario, importanti finanziamenti pubblici sono stati il motore principale dell’innovazione, il cui elevato tasso di rischio non sembra gestibile da singoli soggetti privati. Anche per l’innovazione sociale, pur considerando le significative differenze che la caratterizzano rispetto all’innovazione tecnologica, valgono alcune medesime riflessioni. Posto che occorrerebbe definirne chiaramente compiti e responsabilità, ciò che sembra mancare nel panorama italiano è dunque un settore pubblico in grado di farsi carico degli elevati rischi connessi all’innovazione.

È patrimonio comune come l’odierna classe politica goda di scarsa credibilità nei confronti dell’opinione pubblica. Tale dato pone a ciascun politico alcuni seri problemi. Tra i vari, senz’altro occorre segnalare la necessità di riconquistare consenso. Ora, si provi ad immaginare un politico che, uscito vincente dalle urne, si accinga a svolgere il proprio mandato all’insegna di una strenue ricerca di politiche pubbliche (sociali) caratterizzate dall’elemento dell’innovazione sociale. Considerata l’alta probabilità di insuccesso, insita come già detto in ogni vera ricerca di innovazione, il politico rischierebbe di vedere ancor più ridotto il già minimo consenso. Nell’attuale sistema politico italiano sembra che complessivamente gli incentivi a compiere azioni di innovazione sociale siano assolutamente sfavorevoli ad una piena presa di responsabilità da parte della classe politica. Occorre dunque chiedersi quali alternative esistano. Come recentemente osservato da Barbetta su questo sito (La finanza salverà il welfare?) e su altri portali, una ipotesi è che nei processi di policy-making siano inclusi quei soggetti in grado di farsi carico del rischio connesso alla ricerca di innovazione sociale. Questi soggetti, considerato il contesto italiano, sono le fondazioni di origine bancaria. Di seguito, seguendo la linea tracciata da Barbetta, si vuole sinteticamente argomentare tale affermazione, individuando le ragioni che la fondano e le conseguenze, anche operative, che ne potrebbero discendere.

Le fondazioni come laboratori di politiche pubbliche

Le nuove frontiere della filantropia, che altro non sono se non la naturale evoluzione del c.d. strategic giving, appaiono sempre più prossime, come d’altra parte si è qui già segnalato. Ciò che deve esser fatto oggetto di discussione riguarda il tipo di obiettivo ricercato nel momento in cui tali frontiere si volessero superare, assecondando almeno in parte un trend già da tempo in corso in altri paesi. Molta “letteratura grigia” affronta il tema delle nuove frontiere della filantropia, spesso definite anche come impact investing, quasi si trattasse della panacea di ogni male che affligge gli odierni sistemi di welfare. Si è già detto che occorre rifiutare letture eccessivamente entusiastiche. Tuttavia non è possibile ignorare almeno un aspetto positivo del dibattito sollevato dall’avvento della finanza sociale, intesa nella accezione riformulata più sopra, ossia quale strumento volto a sostenere l’innovazione sociale: è infatti divenuta sempre più evidente la necessità di sottoporre a valutazione l’efficacia delle politiche pubbliche. Nel caso di politiche pubbliche improntate al paradigma dell’innovazione sociale, tuttavia, la valutazione deve intendersi ex ante, dunque non come semplice monitoraggio una volta avviate le azioni previste, ma precedente l’implementazione delle stesse. E qui, come tra poco si espliciterà, emerge il ruolo che le fondazioni possono assumere nelle fasi sperimentali di molti processi di policy-making.

Il ruolo che le fondazioni possono assumere nei processi di policy-making è stato in parte studiato (Ferris 2009), tuttavia la discussione è ancora poco sviluppata con riferimento al contesto italiano ed europeo. La maggior parte della letteratura assume la prospettiva del sistema filantropico statunitense. Una conseguenza è dunque che la maggior parte dei temi con cui gli studiosi si sono misurati si scostano sensibilmente da quelli che sarebbe necessario analizzare per formulare un contributo serio e utile al vecchio continente. Anche il concetto stesso di policy-making e di impegno in tale processo appaiono fortemente determinati dal contesto politico e istituzionale americano. In tale ambiente un impegno nei processi di policy-making è prevalentemente rappresentato da espressioni quali “lobbying” e “advocacy”, risolvendosi in buona parte nel tentativo di influenzare l’adozione di determinate misure, nel rispetto dei limiti imposti dal quadro normativo.

In breve, lo stato dell’arte consiste nell’idea che l’impegno delle fondazioni nei processi di policy-making si traduca essenzialmente nell’abilità di esercitare una certa influenza sugli organi deputati ad assumere decisioni concernenti le politiche pubbliche. Pertanto, allo stato attuale, manca una proposta che sia in grado di “codificare” il coinvolgimento delle fondazioni nel disegno di politiche pubbliche, a maggior ragione in un sistema politico e giuridico sofisticato (o complicato) come quello italiano. Come si è più sopra osservato non vi è comunque dubbio che il contributo del mondo della filantropia, in specie delle fondazioni, potrebbe essere particolarmente significativo (Barbetta, 2014). Ciò che deve essere approfondito è la definizione del ruolo che le fondazioni potrebbero assumere nella progettazione e nella costruzione di politiche pubbliche ad alto tasso di innovazione. Non è un caso che le nuove frontiere della filantropia siano caratterizzate da un processo che è stato definito “beyond grant” (Salamon 2014): l’impatto delle fondazioni nella vita pubblica non sembra infatti potersi più limitare alla semplice erogazione di fondi o al finanziamento di iniziative meritevoli. In tale prospettiva, appare chiaro che il valore delle fondazioni, dunque il loro potenziale contributo, riposa significativamente sul know-how accumulato in anni di esperienza filantropica: un considerevole asset in termini di conoscenza dei bisogni sociali e delle iniziative che la società civile ha posto in essere al fine di darvi risposta.

Dunque le fondazioni possiedono capacità finanziaria, consapevolezza circa la natura e le espressioni dei bisogni sociali, conoscenza dei soggetti, dei metodi e delle best practice di risposta. Ciò suggerisce l’idea di fondazioni come laboratori per quelle politiche pubbliche caratterizzate da un elevato rischio di fallimento, dovuto al loro consistente grado di innovatività. Tale ruolo potrebbe colmare l’attuale carenza, in Italia potremmo dire assenza, di politiche sociali innovative e evidence-based.

La promozione di una cultura delle evidence-based public policies

Come ricordava Barbetta su questo sito, quando si parla di politiche sociali evidence-based ci si riferisce alla «necessità di misurare in termini rigorosi l’efficacia dei servizi erogati». Sulla base dell’impostazione generalmente diffusa tra i sostenitori e i pionieri della finanza sociale questo è un punto cardine e si presenta forse come elemento di maggiore discontinuità con quanto sino ad ora promosso dai policy makers italiani e non solo: nel campo delle politiche sociali molto di rado gli interventi – anche quelli più marcatamente sperimentali – sono oggetto di analisi critica e puntuale. Quando qualcosa di analogo ad una valutazione viene effettuato, generalmente si tratta di analisi dei risultati, dunque ex postIn ogni caso, «il giudizio sulla bontà del risultato raggiunto è affidato all’opinione soggettiva di un valutatore che, spesso, considera solo elementi di processo (si è fatto tutto ciò che era previsto?) o, nel migliore dei casi, giudica gli esiti sulla base della propria sensibilità, delle proprie convinzioni a priori o di elementi di tipo qualitativo, trascurando completamente misurazioni che possono essere condivise anche da soggetti diversi».

D’altra parte una misurazione ex ante richiede una consistente cultura della valutazione, la quale ha dei costi importanti. Approcci di tipo controfattuale che confrontino i risultati ottenuti dall’insieme dei soggetti beneficiari dell’intervento sociale, richiedono il ricorso a metodologie statistiche o processi di randomizzazione sofisticati e oggi non accessibili a buon mercato. Infatti è risaputo il notevole costo che le valutazioni, di qualunque natura, assumono all’interno di un processo che – nel nostro caso – potrebbe peraltro portare ad un esito negativo. In altri termini una cultura di evidence-based policy imporrebbe ulteriori costi, che si andrebbero ad aggiungere all’elevato rischio connesso ai caratteri propri di ogni azione che vuol essere di innovazione. Eppure, paradossalmente, è proprio su politiche pubbliche orientate dal principio dell’innovazione sociale che la misurazione della loro efficacia risulta essere più che mai urgente: una politica sociale concepita come innovativa, se non si mostrasse efficace e cost-effective, non sarebbe di certo una grande conquista (Hanskins 2014).

Dinnanzi tale quadro, assume ancora più pregnanza il fatto che le fondazioni, in particolare quelle di origine bancaria, sarebbero in grado di farsi carico dei costi derivanti dalla sperimentazione di politiche evidence-based e da sistemi di misurazione dell’efficacia delle politiche implementate (randomized controlled trials, per fare un esempio), configurandosi come veri e propri laboratori di politiche innovative e evidence-based. Sarebbero i primi protagonisti anche di una inversione di tendenza, orientata alla promozione di tale cultura di policy-making, magari sino a giungere, tra qualche tempo, all’utilizzo di studi comportamentali o derivanti dalle scienze cognitive per la costruzione di politiche (anche economiche) efficaci. Superando così la classica e comune idea presente nella letteratura di matrice statunitense, sarebbe utile non solo ribadire l’importanza del ruolo che le fondazioni potrebbero svolgere nei processi di policy-making, ma anche specificare come e con quali strumenti – tra i vari disponibili – le fondazioni sarebbero in grado di contribuire all’innovazione sociale.


Alcune conlusioni

Ad avviso di scrive, quindi, occorrerebbe che le fondazioni si facessero carico dell’avvio di un simile processo di trasformazione, iniziando loro per prime ad adoperarsi nella direzione sopra indicata: un primo passo potrebbe essere quello di mettere in comune le esperienze di valutazione controfattuale per le quali si sono autonomamente impegnate, indicandone casi esemplari e costi, condividendo risultati positivi e riscontri negativi. In altri termini, concepirsi sempre di più come veri e propri laboratori di politiche pubbliche, ovviamente con l’ambizione ciascuna di offrire al settore pubblico o eventualmente anche ai nuovi investitori sociali, al termine del proprio lavoro, il migliore “prodotto” possibile, ben progettato, adeguatamente realizzato e – soprattutto – collaudato.

La realizzazione di una simile prospettiva sembra peraltro sostenibile senza particolari novelle della legislazione, in specie quella pubblicistica. Seppur prematuro, ci si potrebbe persino spingere ad immaginare anche una eventuale forma contrattuale, sulla base della quale le fondazioni eserciterebbero la loro attività di laboratori sperimentali di politiche sociali su mandato del settore pubblico, che, così facendo, potrebbe continuare a mantenere all’interno della propria sfera decisionale il cruciale momento dell’agenda-setting e dunque, un aspetto principale della governance dell’offerta dei servizi di welfare.


Riferimenti
:

Barbetta G.P. (2015), La finanza salverà il welfare? Luci e ombre dei social impact bond

Barbetta G.P. (2014), Se la riforma del terzo settore si fa nella legge di stabilità, lavoce.info, 10 dicembre 2014

Ferris J.M. (2009), Foundations and Public Policy: Leveraging Philanthropic Dollars, Knowledge, and Networks for Greater Impact, Foundations Center

Haskins R. (2014), Social Programs That Work, New York Times, 31 dicembre 2014

McHugh N., Sinclair S., Roy M., Huckfield L., Donaldson C. (2013), Social impact bonds: a wolf in sheep’s clothing?, Journal of Poverty and Social Justice, vol. 21 n. 3, pp. 247-57.

Murray R., Caulier Grice J., Mulgan G. (2010), The Open Book of Social Innovation, Young Foundation & NESTA

Salamon L. (2014), New Frontiers of Philanthropy. A Guide to the New Tools and Actors Reshaping Global Philanthropy and Social Investing, Oxford University Press


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