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La Legge di Bilancio 2018 aveva esteso per l’anno in corso il congedo di paternità obbligatorio remunerato da 2 a 4 giorni: una durata che resta simbolica in termini di impatto, ma che ha un enorme valore culturale, oltre a rappresentare un traguardo faticosamente conquistato. Trattandosi di una sperimentazione, questa misura è però destinata ad esaurirsi entro la fine dell’anno se l’attuale Governo non deciderà di confermarla. A suonare il campanello d’allarme è una petizione online promossa da studiosi e professionisti che si occupano di politiche per la famiglia, in cui si chiede che il congedo sia reso strutturale e venga ampliato a 10 giorni, così come già previsto in molti altri paesi europei.

La carenza di misure a sostegno della famiglia, combinandosi con un atteggiamento culturale ancora diffuso che vede la cura dei figli come prerogativa principalmente materna, ha un impatto negativo sulle possibilità di conciliazione tra responsabilità di cura e occupazione. In tale scenario (come spiega anche Maurizio Ferrera) il congedo di paternità è una misura a forte valenza non solo simbolica ma anche strategica in quanto sfida proprio questa concezione. Inoltre, dando ai padri la possibilità di trascorrere più tempo con i figli, i congedi di paternità favoriscono il loro coinvolgimento (anche emotivo) nelle attività di cura e promuovono indirettamente relazioni di genere meno asimmetriche.

Il tema dei congedi di paternità e, più in generale, la necessità di azioni volte a promuovere una condivisone più paritaria delle responsabilità di cura, recentemente ha acquisito maggiore salienza anche a livello europeo, grazie a un’iniziativa della Commissione, che nell’aprile 2017 ha avanzato una proposta di direttiva in materia. Sul versante dei congedi di paternità, il progetto – che fissa una soglia minima pari a 10 giorni, con una compensazione economica al livello almeno dell’indennità di malattia – segnerebbe un passo avanti considerevole, in quanto non esistono al momento norme comuni europee come invece avviene già da tempo per i congedi di maternità e genitoriali. Se in molti paesi queste disposizioni avrebbero un effetto piuttosto limitato, in quanto le regole a livello nazionale sono già più vantaggiose di quelle minime proposte a livello europeo, per altri stati membri (tra cui l’Italia) la portata innovativa sarebbe decisamente più ampia.

L’eterogeneità esistente fra i modelli regolativi nazionali e fra i sistemi di welfare, insieme alle diverse sensibilità delle forze politiche nel Parlamento europeo e dei Governi in seno al Consiglio, hanno storicamente contribuito a rendere l’accordo su tali temi particolarmente difficile. Al momento, tuttavia, la questione del congedo di paternità non sembra aver trovato particolari resistenze nel PE, che lo scorso luglio si è espresso a favore della direttiva, avanzando diverse richieste di modifica su altri aspetti, inerenti i congedi genitoriali e di cura. Il Consiglio, nella posizione approvata a giugno, ha invece proposto emendamenti anche in relazione al congedo di paternità, che ne svuotano di fatto la portata lasciando piena flessibilità agli stati nel definire sia la durata sia la compensazione economica ritenuta adeguata.

In questo scenario, a settembre sono iniziati i negoziati informali tra Commissione, Consiglio e PE, dove il voto in plenaria è atteso per il 14 gennaio 2019. Basteranno questi mesi per trovare un accordo senza che la sua innovatività venga affossata? L’iter della proposta di direttiva che mirava a rafforzare le regole in materia di congedo di maternità, presentata nel 2008 e ritirata dalla Commissione nel 2015 dopo sette anni di veti in Consiglio, non consente grande ottimismo. La politica nazionale nel frattempo è dunque chiamata ad agire.

Questo articolo è stato pubblicato il 17 dicembre 2018 su L’Economia del Corriere della Sera, accompagnato da questo commento di Maurizio Ferrera. E’ stato qui riprodotto previo consenso delle autrici.