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Anche nel 2017 in Italia prosegue la diminuzione della popolazione residente già riscontrata nei due anni precedenti. Al 31 dicembre risiedevano nel nostro Paese 60.483.973 persone, di cui più di 5 milioni di cittadinanza straniera, pari all’8,5% dei residenti a livello nazionale. A dirlo è il Bilancio Demografico dell’Istat sull’anno 2017, i cui dati sono stati resi noti il 13 giugno scorso.

Secondo l’Istituto Nazionale di Statistica complessivamente nel 2017 la popolazione residente è diminuita di 105.472 unità rispetto all’anno precedente. Un calo complessivo determinato dalla flessione della popolazione di cittadinanza italiana (-202.884 residenti), che solo parzialmente è stato attennutato dall’aumento della popolazione straniera (+97.412 unità). A fronte di oltre 458.000 nascite si contano infatti quasi 650.000 morti nell’anno.

La sfida demografica, dunque, si fa sempre più complessa. Come affrontarla? 

Sempre meno bambini

Spulciando i numeri del Bilancio a fare impressione sono soprattutto i dati sul calo delle nascite, inarrestabile dal 2008: per il terzo anno consecutivo i nati in Italia risultano meno di mezzo milione. Nel 2017 gli iscritti all’anagrafe sono stati infatti 458.151 (in calo di 15 mila unità rispetto al 2016), di cui circa 68 mila stranieri (14,8% del totale), anch’essi in diminuzione rispetto allo scorso anno. Si tratta del minimo storico per il nostro Paese dall’Unità

Secondo l’Istat la diminuzione delle nascite si deve principalmente a fattori strutturali. Come riportato anche dal report sulla Natalità e fecondità della popolazione residente (Istat 2017) questa riduzione è in parte dovuta alle significative modificazioni della popolazione femminile in età feconda, convenzionalmente fissata tra 15 e 49 anni. Da un lato, le ultime baby-boomers, cioè le donne nate tra la seconda metà degli anni Sessanta e la prima metà dei Settanta, stanno concludendo la fase riproduttiva. Dall’altro le generazioni più giovani sono sempre meno folte a causa, in particolare, dell’effetto del cosiddetto baby-bust, ovvero la fase di forte calo della fecondità del ventennio 1976-1995, che ha portato al minimo storico di 1,19 figli per donna nel 1995.

Il problema della natalità italiana, dunque, viene da lontano. I dati indicano tuttavia come questo si sia accentutato fortemente negli anni della crisi: come mostra anche la figura 1, il numero di nati è sceso costantemente, da 576.659 del 2008 a 458.151 del 2017. 


Figura 1. Movimento naturale della popolazione, nati e morti (2002-2017)


Fonte: Bilancio Demografico dell’Istat, anno 2017 (2018)

Il fattore matrimonio

Il calo della natalità secondo l’Istat è dunque stato formente influenzato anche da fattori emersi nell’ultima decade e, in particolare, dalla diminuzione dei matrimoni e dalla conseguente non-composizione di nuovi nuclei familiari. Nel nostro Paese il legame tra nuzialità e natalità risulta ancora molto forte: nel 2016 il 70% delle nascite è avvenuto all’interno del matrimonio e tra queste oltre il 50% dei primogeniti è nato entro tre anni dalla celebrazione delle nozze. Il calo del numero di matrimoni (figura 2) è quindi per l’Istat un fattore da tenere in considerazione per comprendere il calo della natalità e, in particolare, la contrazione dei primi figli che sono passati dai 283.922 del 2008 ai 227.412 del 2016 (-20% i primi figli e -16% i figli di ordine successivo).

Questo calo, sempre secondo le valutazioni dell’Istituto Nazionale di Statistica, è stato solo parzialmente attenuato dai nati fuori del matrimonio. Nel 2016 i figli nati da genitori non coniugati sono stati 141.757 e, seppur il loro peso relativo sia aumentato rispetto al totale – erano il 19,6% nel 2008 (112.849) mentre risultavano il 29,9% nel 2016 – non sono stati in grado di compensare il calo generale dei nati nello stesso periodo (da 576.659 del 2008 ai citati 473.438 del 2016).

Figura 2. Nati e primi matrimoni (1995-2016)

Fonte: Natalità e fecondità della popolazione residente (2017)

La diminuzione dei primi matrimoni è dovuta in parte a un “effetto struttura” legato al citato cambiamento nella composizione della popolazione per età. Tuttavia la propensione al primo matrimonio, al netto dell’"effetto struttura", può essere calcolato anche attraverso i tassi di primo-nuzialità, ottenuti rapportando gli sposi celibi e nubili per età al momento del matrimonio alle corrispondenti popolazioni maschili e femminili. Nel 2014 questi indicatori hanno registrato un minimo storico: sono stati celebrati 421 primi matrimoni per 1.000 uomini e 463 per 1.000 donne (in diminuzione dal 2008 rispettivamente del 21,5% e 22,0%). Se consideriamo i giovani fino a 34 anni, il calo osservato nel 2014 rispetto al 2008 arriva a 27,9% per i maschi e 26,5% per le femmine. Numeri che confermano la difficoltà da parte dei giovani di dar seguito a progetti familiari, e che è avvallato dal dato sull’età media del primo matrimonio, in forte aumento rispetto al passato. Nel 2016 gli sposi avevano in media 35 anni e le spose 32: quasi due anni in più rispetto al 2008.

L’innalzamento dell’età media al primo matrimonio è in atto dalla metà degli anni Settanta ed è la conseguenza dello spostamento, di generazione in generazione, di tutte le tappe salienti del processo di transizione allo stato adulto verso età sempre più mature. La prolungata permanenza dei giovani nella famiglia di origine è dovuta a molteplici fattori: l’aumento diffuso della scolarizzazione e l’allungamento dei tempi formativi, le difficoltà ad entrare nel mondo del lavoro e la diffusa instabilità del lavoro stesso, le difficoltà di accesso al mercato delle abitazioni. L’effetto di questi fattori è stato amplificato negli ultimi anni dalla congiuntura economica sfavorevole che ha spinto sempre più giovani a ritardare rispetto alle generazioni precedenti le tappe della transizione verso la vita adulta. E quindi anche la formazione di una famiglia e la nascita di un figlio.

 

Segnali di ripresa, ma serve un welfare che sostenga la natalità

In questo quadro sconfortante è tuttavia interessante segnalare come nel 2015 la propensione alle prime nozze abbia cominciato a risalire e come nel 2016 il tasso di primo-nuzialità sia aumentato sia per i maschi (449,6 per mille) che per le femmine (496,9 per mille). L’aumento osservato sembra riguardare trasversalmente tutte le classi di età a partire dai 25 anni e, in misura più marcata, fino ai 36 anni. Sembra, quindi, essersi attenuata la tendenza a rinviare sempre più in avanti il momento delle prime nozze, anche se l’età degli sposi al primo matrimonio come detto continua a crescere. Si tratta di un aumento che, vista l’incidenza della nascita del primo figlio entro i primi tre anni di matirmonio – e grazie al miglioramento delle condizioni economiche generali – potrebbe portare un parziale recupero del numero dei nati nei prossimi anni.

Figura 3. Tassi di prima nuzialità femminile per età, per 1.000 donne (2008, 2014, 2016)

Fonte: Natalità e fecondità della popolazione residente (2017)


Questa rinnovata volontà dei giovani di sposarsi andrebbe tuttavia sostenuta attraverso misure concrete che incentivino la scelta di avere figli. 
Come osservava Elena Barazzetta commentando le iniziative a sostegno della famiglia previste dalla Legge di Stabilità 2018, negli ultimi anni il nostro Paese ha introdotto diverse misure a supporto dei nuclei familiari con figli tramite Bonus mamme domani, Voucher baby-sitter, Buono asilo nidi e vari assegni di maternità, sia statali che comunali. Eppure, nonostante tutti i dati dimostrino come il primo problema del nostro Paese sia l’invecchiamento della popolazione e la mancanza di ricambio generazionale necessario ad invertire il trend demografico, tali iniziative hanno un carattere una tantum. La maggior parte delle misure è confermata di anno in anno, spesso sono previste modifiche sugli importi e sui criteri di accesso, le attese per decreti attuativi e circolari giungono con diversi mesi di ritardo rispetto al via libera parlamentare.

Una situazione che certamente non aiuta la pianificazione da parte delle famiglie e che le lascia in balia di un’ampia, e spesso confusa, gamma di misure che inevitabilmente incidono sulla volontà di avere figli. E se è vero che accanto alle misure pubbliche si contanto un numero crescente di interventi messi in campo da attori del secondo welfare (si veda sempre l’articolo di Barazzetta), resta il problema di uniformità e continutià degli interventi. In questo senso appare quindi urgente che le misure di welfare a sostegno delle famiglie assumano un carattere quanto più possibile strutturale e si prevedano, ove possibile, interventi fiscali che incentivino le famiglie con figli.

Misure strutturali e fiscalità: proposte per il nuovo Governo

Molte forze che compongono l’attuale maggioranza in campagna elettorale (come vi avevamo raccontato qui), seppur con slogan e richiami forse discutibili, hanno avanzato proposte concrete per sostenere la natalità, sia attraverso misure ad hoc che tramite incentivi fiscali di varia natura. In questo senso l’auspicio è che dalle parole si passi presto ai fatti

In primo luogo valorizzando quanto di positivo è stato fatto nella precedente Legislatura, per esempio rendendo stutturali alcune delle misure nazionali varate negli scorsi anni per favorire le nascite e la conciliazione famiglia-lavoro. Tra bonus, assegni e buoni sono infatti numerose le iniziative attive per l’anno in corso (che in parte, tra l’altro, sono già sperimentate con successo anche negli anni scorsi) che potrebbero essere mandate a regime con un minimo sforzo legislativo. 

Secondariamente, si potrebbe guardare a quanto di positivo è realizzato da diverse amministrazioni locali. I dati del Bilancio Demografico indicano come lo scorso anno l’unica area del Paese che abbia avuto un saldo naturale della popolazione positivo sia stata la Provincia autonoma di Bolzano. Mentre a livello nazionale il tasso di crescita naturale si è attestato a -3,2 per mille, a Bolzano ha raggiunto +1,8 per mille (figura 4). Un caso? Non proprio vista l’ampia gamma di servizi che a partire dagli anni Settanta sono stati implementati a sostegno delle famiglia; iniziative rese certamente possibili grazie alla forte autonomia fiscale, ma anche alla capacità di cogliere best practices provenienti da Paesi nord e centro europei che hanno una lunga esperienza su questo fronte. Oppure le esperienze della Provincia di Trento, come l’Assegno unico familiare e i Distretti Famiglia (che grazie all’Agenzia per la Famiglia e il Network nazionale dei Comuni amici della famiglia si sta cercando di replicare in altre aree del Paese). O ancora le sperimentazioni messe in campo dalla Lombardia con il Fattore Famiglia regionale e i Piani Territoriali di Conciliazione, o quelle del Comune di Milano tramite la c.d. Bebè Card.

 

Figura 4. Tassi di natalità e mortalità per provincia 

Fonte: Bilancio Demografico dell’Istat, anno 2017 (2018)

In terzo luogo sarebbe interessante capire se a livello fiscale ci sia lo spazio per approvare il famoso “Fattore Famiglia”, o comunque un qualsiasi indicatore che permetta non solo di tener conto delle situazioni reddituali e patrimoniali delle famiglie, ma anche del numero di figli e dei loro carichi di cura. In poche parole uno strumento valutativo più equo, che permetta di superare alcune problematiche del nostro sistema fiscale che ad oggi non tiene in considerazione. 

Iniziative che, ovviamente, andrebbero intraprese nel rispetto dei vincoli di bilancio. Con un debito pubblico che nel 2017 ha raggiunto quota a 2.263 miliardi di euro (131,8% del Pil) sarebbe infatti curioso implementare misure di sostegno alla natalità che andassero ad aumentare ulteriormente il peso sulle spalle delle future generazioni.

 

Riferimenti

Istat (2018), Bilancio Demografico dell’Istat sull’anno 2017

Istat (2017), Natalità e fecondità della popolazione residente