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Rivista Solidea, pubblicazione curata dall’omonima Società di Mutuo Soccorso, a gennaio del 2019 ha pubblicato un numero speciale in cui alcuni autori ed esperti propongono il loro punto di vista su tematiche di massima attualità come il lavoro, la cooperazione, le migrazioni, la mutualità, i beni comuni. Tra questi approfondimenti ce ne è uno dedicato al secondo welfare e alle sue opportunità per il contrasto alla povertà e alla vulnerabilità sociale, curato dalla direttrice del nostro Laboratorio Franca Maino. Di seguito, ve lo proponiamo nella sua integrità.


Un welfare state tradizionale ormai insostenibile

Il modello sociale europeo si è retto per lungo tempo su una forte stabilità occupazionale, sulla persistenza di forti legami di solidarietà familiare e sociale fondati su una netta divisione dei ruoli di genere e sull’ampiezza e generosità dei programmi di protezione sociale. Questo sistema di welfare “tradizionale” ha contribuito a garantire stabilità e protezione contro i diversi rischi e bisogni, dalla vecchiaia alla malattia, dalla perdita del lavoro fino al a contrasto alla povertà. Oggi però la sempre più evidente difficoltà del welfare state e la decennale crisi economico-finanziaria, che ha pesantemente interessato anche l’Italia, hanno determinato profondi mutamenti nel tessuto sociale che sembrano destinati a condizionare anche il prossimo decennio. I cambiamenti più rilevanti riguardano il mondo del lavoro – caratterizzato da una precarizzazione crescente -, le reti familiari – sempre meno solidali a causa della tendenza all’individualizzazione della vita sociale – e la crescita del rischio vulnerabilità tra una popolazione sempre più ampia e meno attrezzata per contrastarlo. A tutto questo si va aggiungendo una crescente instabilità sul piano politico-istituzionale, che certamente non contribuisce a migliorare una situazione economico-sociale già molto complessa.

I sistemi di protezione sociale appaiono infatti incapaci di adattarsi a questi mutamenti. Lo Stato è sempre meno in grado di rispondere ai bisogni di una società in continua trasformazione, da una parte per via della struttura rigida e gerarchica che lo contraddistingue e, dall’altra, per l’insufficienza di risorse economiche adeguate. Si osserva inoltre un aumento della domanda di beni e servizi sociali dovuta all’affermarsi di sempre nuovi bisogni che conseguono all’invecchiamento della popolazione, alla precarietà del lavoro, all’individualismo in un contesto globalizzato. L’insostenibilità dell’attuale modello di welfare è in larga parte connessa alla crescente vulnerabilità del ceto medio, sempre più esposto a rischi “inediti” fino a pochi anni fa. In questa situazione i gruppi sociali che tradizionalmente più contribuivano con il loro lavoro allo sviluppo dell’intera società e al mantenimento del welfare, non possono più svolgere il ruolo di finanziatori del sistema, il quale si trova paradossalmente a disporre di meno risorse, ma a dover sostenere sempre più cittadini in difficoltà.

Da tutto questo discende l’urgenza di un profondo rinnovamento dei sistemi di protezione sociale verso una nuova configurazione in cui Stato, mercato, privato sociale e cittadini collaborino per produrre in modo condiviso soluzioni e investimenti sociali per il benessere di individui e famiglie. Una configurazione che fa perno su sinergie e reti tra stakeholder diversi per progettare e produrre insieme programmi e iniziative contraddistinte da un più elevato grado di condivisione di risorse finanziarie e ideative.

Dalla povertà “circoscritta” alla vulnerabilità “diffusa”

In questi anni la povertà ha cambiato profondamente le sue caratteristiche e in futuro appare destinata ad accentuare ulteriormente la sua “nuova” natura multidimensionale. Oggi infatti povertà e vulnerabilità includono aspetti che non sono connessi esclusivamente ai livelli di reddito degli individui e alla loro situazione economica, ma che sono dipendenti anche e soprattutto da condizioni abitative inadeguate, livelli occupazionali insufficienti, oneri di cura dei figli o degli anziani sempre più gravosi e, in generale, da strutture familiari sempre più fragili e disgregate. Si tratta, dunque, di una condizione che non riguarda solo gli individui che versano in condizioni croniche di difficoltà o esclusione sociale, bensì persone che si trovano esposte a diverse forme di instabilità (lavorativa, familiare o riguardante la salute) e contemporaneamente sono soggette ad una debole integrazione sociale. Mentre nel passato la povertà era numericamente più contenuta e circoscritta ad alcune aree geografiche o ad alcuni gruppi sociali, oggi è sempre più diffusa e assume i contorni di una generale incapacità a fronteggiare imprevisti come una grave malattia, un lutto, il pagamento di bollette e affitti, il mantenimento dei figli.

In altre parole, in futuro “instabilità” sarà sempre più la parola chiave per interpretare il fenomeno della vulnerabilità dei cittadini italiani e, più in generale, dell’Europa occidentale. Una situazione che vede tra le sue cause l’incertezza economica e reddituale, la precarizzazione del lavoro, le difficoltà nel trovare un equilibrio tra vita personale e professionale – soprattutto per le donne – e al contempo i bisogni crescenti di giovani e anziani che necessitano per periodi sempre più lunghi del sostegno e delle cure della famiglia. I primi, infatti, per quanto detto più sopra, non riescono più a raggiungere in tempi rapidi l’indipendenza economica; i secondi invece vivono sempre più a lungo ma spesso in condizioni di non autosufficienza che i servizi di assistenza pubblica faticano a fronteggiare a fronte di servizi privati per molti economicamente inaccessibili.

Dunque, tanto più lavoro, famiglia e welfare perdono progressivamente la loro capacità di provvedere al benessere e alla sicurezza dei cittadini, tanto più cresce e si allarga la categoria dei “nuovi poveri”, nella quale trovano posto tutti quegli individui che per cause diverse sperimentano un peggioramento della loro condizione economica e si trovano in difficoltà nel sostenere le spese quotidiane, rimanendo tuttavia al di sopra dei requisiti minimi per rientrare nella definizione tradizionale di “poveri” e poter così usufruire di sostegni pubblici.

L’innovazione sociale

È in questo quadro che appare cruciale parlare di innovazione sociale nel campo del welfare. Tale concetto nell’ultimo decennio si è imposto all’interno delle strategie e nel linguaggio dell’Unione Europea come tema cardine e strumento per far fronte alla crisi finanziaria, economica e sociale esplosa nel 2008. L’innovazione sociale rappresenta una leva per immaginare e valorizzare nuove esperienze e modelli per combattere le povertà e la vulnerabilità sociale, favorire l’inclusione sociale e per promuovere un nuovo tipo di sviluppo non solo per i cittadini ma insieme ai cittadini.

L’innovazione sociale implica trasformazioni tanto nei servizi offerti quanto di processo (attori e risorse), che si distinguono dal resto delle sperimentazioni nel sociale per il fatto di riuscire a migliorare effettivamente e in modo duraturo la qualità della vita delle persone. L’innovazione, inoltre, risiede nella capacità degli individui di legarsi in reti e di gestire problemi complessi attraverso l’individuazione di soluzioni condivise, a maggior ragione in un momento di riduzione delle risorse pubbliche e di contrazione dei fondi privati. Essa rafforza quindi la capacità di agire e reagire della società.

È inoltre associata alla miglior capacità di risposta che è possibile dare a livello locale attraverso il coinvolgimento non solo di istituzioni pubbliche, ma anche di soggetti privati, del mondo non profit e dei singoli cittadini. Essa promuove infatti la necessità di piani di empowerment al fine di offrire all’individuo e alle famiglie non una serie di interventi sporadici, sconnessi e di carattere meramente assistenziale, bensì interventi mirati al sostegno di quelle situazioni di precarietà o difficoltà economica temporanea a cui si è accennato più sopra, dalle quali è possibile uscire grazie ad azioni tempestive che impediscano di scivolare in situazioni di povertà cronica e strutturale. Tali misure e programmi, al fine di evitare possibili ricadute, devono infatti offrire strumenti e competenze durature agli individui per prevenire situazioni di rischio che potrebbero condurre all’esclusione sociale, impiegando in modo attento le risorse a disposizione e insegnando come fronteggiare autonomamente le difficoltà grazie a percorsi di autonomizzazione che possano modificare le condizioni in cui vivono.

Risposte innovative per fronteggiare la vulnerabilità e promuovere l’inclusione sociale

Di fronte ad una realtà caratterizzata dal crescente rischio di instabilità e vulnerabilità oggi si rende necessario individuare risposte di policy adeguate e sostenibili, che siano offerte a livello decentrato da un welfare pubblico locale che operi in collaborazione con soggetti del settore profit e non profit proprio nell’ottica dell’innovazione sociale.

In questo senso occorre sostenere lo sviluppo del “secondo welfare”, ovvero di tutte quelle iniziative sociali promosse da imprese, organizzazioni del terzo settore e parti sociali per offrire risposte territoriali e innovative in grado di contrastare gli effetti delle sfide demografiche, sociali e migratorie in atto. Il secondo welfare sta infatti dando prova di saper generare interventi a sostegno di gruppi e individui più vulnerabili e di poter andare oltre la dimensione delle sperimentazioni e dei progetti pilota: si assiste a una stabilizzazione degli interventi, i principali attori hanno confermato e in molti casi rafforzato il proprio impegno, il flusso di risorse non pubbliche si sta facendo più regolare e affidabile.

Per quanto riguarda il sistema delle imprese, il segnale più evidente di consolidamento è la diffusione del welfare aziendale e contrattuale, ma anche di forme sempre più ampie e complesse di Corporate Social Responsibility orientate verso le aree di maggior bisogno sociale. Il settore non profit al contempo continua a dimostrare grande vitalità, non solo sul fronte della solidarietà e dell’assistenza, ma anche su quello dell’occupazione, in particolare femminile. Tra i protagonisti principali e più attivi del secondo welfare si segnalano le Fondazioni, che in questi ultimi anni hanno ripensato le proprie modalità di intervento incoraggiando l’elaborazione di progetti che abbiano una dimensione non meramente sperimentale e che puntino alla auto-sostenibilità. Dalle Fondazioni di origine bancaria a quelle di comunità, fino a quelle di famiglia e d’impresa, appare inoltre evidente la volontà di integrare maggiormente le proprie attività con la programmazione pubblica dei servizi alla persona già attivati sul territorio, alimentando una logica di intervento sinergica, sussidiaria e multi-attore.

Dal canto loro i cittadini sono chiamati ad essere più consapevoli dei costi del welfare, più sensibili ai temi della responsabilizzazione e dell’empowerment. Prestazioni e servizi sanitari, socio-assistenziali, formativi dovranno diventare sempre più un diritto ma essere sempre meno un diritto “incondizionato”, a cui accedere – se necessario e se si dispone di risorse proprie – anche a fronte di un contributo finanziario diretto. Va inoltre rafforzata la convinzione che il welfare debba essere liberato dagli sprechi e dalle sacche di “inappropriatezza” e vada innestato dentro un solco che fa della sostenibilità economica e sociale la sua guida, stimolando a compartecipare tutti coloro che possono permetterselo sulla base di un principio condiviso di responsabilità sociale. In quest’ottica diventa strategico superare un welfare “fai da te” i cui costi ricadono “out of pocket” sulle persone e famiglie e promuovere un welfare integrato in grado di intermediare la spesa in una logica collettiva e mutualistica.

Indicatori di innovazione dovranno dunque essere la collaborazione e la condivisione di risorse, sia umane sia economiche, tra soggetto pubblico e stakeholder privati, l’orientamento al sostegno dei “nuovi poveri”, la prevenzione della diffusione della povertà strutturale mediante un’azione tempestiva sui casi di maggior vulnerabilità, il superamento della logica meramente assistenzialistica degli interventi e la partecipazione attiva degli utenti in una prospettiva di empowerment del cittadino. Questo presuppone nuovi modelli di governance territoriale e una partecipazione dei diversi stakeholder più aperta e condivisa, che parta dalla conoscenza dei problemi e dei bisogni del territorio e dei suoi cittadini e arrivi ad individuare soluzioni e strumenti di intervento, convergendo su percorsi di riprogettazione locale delle prestazioni e dei servizi.

In questo quadro anche il Pubblico è ovviamente chiamato ad una profonda trasformazione del proprio ruolo, cercando di diventare regista di quella costellazione ampia e flessibile degli attori di secondo welfare e, nel contempo, continuando a garantire l’universalità dei servizi di base e intervenire là dove “la rete” non arriva. Adottare una programmazione partecipata, allargata a un’ampia gamma di attori – profit e non profit – può diventare un modo non solo per reperire risorse aggiuntive, ma anche per includere nuovi attori nella definizione dell’agenda collettiva, incanalandone l’azione entro solchi disciplinati da norme discusse in luoghi pubblici ed evitando così dinamiche sommerse o opportuniste.

Il presente mostra un contesto fatto di tante buone pratiche molto diverse tra loro. In questo quadro appare necessario superare l’idea di modelli predefiniti e universalmente validi per rispondere a situazioni di vulnerabilità crescente, preferendo soluzioni in grado di ampliare e differenziare sul territorio e dentro le comunità locali l’offerta di servizi e interventi. Al contempo occorre però evitare che emergano configurazioni incomplete e disordinate, che rischiano di impedire la replicabilità di quelle iniziative e soluzioni innovative, costringendo ogni volta a ripartire da zero nella progettazione e attuazione degli interventi.