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Il gruppo di lavoro Collettivo Ricerca Sociale si propone di studiare esperienze di crisi d’impresa risolte attraverso forme alternative. A questo scopo i suoi componenti hanno girato l’Italia da Nord a Sud, raccogliendo informazioni e sentimenti in tutte quelle realtà che si sono auto-salvate mettendo in campo piani di recupero della propria azienda. Se ne parla in un articolo pubblicato sul numero 2/2019 di Rivista Solidea, che vi proponiamo di seguito.


Le problematiche sono sempre le stesse: posti di lavoro che saltano, debiti, tribunali, avvocati e tutta una serie di figure professionali che ruotano intorno a un’azienda in fallimento. Da una parte la proprietà, dall’altra il tribunale e in mezzo i lavoratori con la propria professionalità ed esperienza. In molti casi, proprio loro sono diventati protagonisti della rinascita del proprio posto di lavoro. Fabbriche salvate dal fallimento attraverso scelte collettive e condivise dove la professionalità, l’esperienza e la tenacia dei lavoratori è stata la forza motrice dell’impresa risorta.


Valorizzare le esperienze

Sul sito www.impreserecuperate.it sono narrati diciotto casi di questi successi. Il Collettivo li ha direttamente incontrati e analizzati. A Torino Leonard Mazzone, Andrea Aimar e Alice Ravinale, tre membri del gruppo di lavoro costruito intorno a competenze ed esperienze eterogenee, hanno presentato una parte di questo lavoro portando alla ribalta due esempi piemontesi di gestione della crisi aziendale. L’incontro con queste realtà è avvenuto all’Unione Culturale Franco Antonicelli, il 25 maggio scorso, sotto il titolo: “Utopia reale delle imprese recuperate”. Dal racconto di questi protagonisti emerge che accanto alle valutazioni economiche fatte di business plan e di verifiche di fattibilità finanziaria, si affianca la componente operaia. È la narrazione della voglia di non perdere il proprio posto di lavoro, della necessità di reddito e anche dell’amore per il proprio mestiere. Ma è anche la difesa di un ruolo sociale. Da qui l’aspetto apparentemente utopico che i progetti di rinascita contengono.

Cosa narra questo progetto? Che lo strumento principale di salvataggio è quello della forma cooperativa. Però, Leonard Mazzone sottolinea che «la storia delle imprese recuperate sono esperienze che vanno raccontate e valorizzate indipendentemente dal metodo utilizzato. Abbiamo apprezzato le diversità delle loro storie. Adesso occorre creare un binario di diffusione al pubblico di queste esperienze». In effetti, il percorso cooperativo è solitamente quasi un passaggio figlio della casualità. Sempre Mazzone: «C’è un dato: la storia delle imprese recuperate è frutto della casualità degli incontri. Non c’è un metodo. Ecco perché si deve lavorare per costruire reti e sistemi per non fare diventare una casualità quanto è tracciato dalla Legge Marcora (l. 19/1985, ndr)», cioè il provvedimento che prevede prevede sistemi di finanza agevolata per le società cooperative nella quali le società finanziarie partecipate dal Ministero dello sviluppo economico, Soficoop sc e CFI Scpa, hanno assunto delle partecipazioni.

Due storie piemontesi

Dicevamo che sono due i casi reali presentati all’Unione Culturale: la Società Cooperativa Cartiera Pirinoli e la Cooperativa Italiana Pavimenti. Due storie piemontesi della provincia di Cuneo. La prima è di Roccavione mentre l’altra è ubicata a Sommariva Bosco. Due racconti diversi per metodo e per risultati. Tuttavia, entrambe sono narrazioni di passione per il proprio lavoro e di confronto anche con il sistema economico territoriale. Per ogni caso dovrebbe esistere una rete di valutazione che metta insieme l’amministrazione pubblica nelle sue diverse responsabilità, Regione e Comune, sindacati e associazioni di rappresentanza della cooperazione. Una sorta di task force in grado di dare il giusto indirizzo per salvare posti di lavoro ed economia locale. A Roccavione, ci raccontava il presidente della cooperativa, Silvano Carletto, «È come la Fiat per Torino. In paese la chiamano la Fabbrica. La sindaca, Germana Avena, si è davvero spesa per questa realtà economica. Ai tempi buoni, qui ci lavoravano più di duecento persone. La cartiera sostiene non solo Roccavione, ma anche i Comuni intorno. E poi va considerato l’indotto che creiamo: la segheria che costruisce i bancali perché abbiamo formati diversi e non sullo standard euro pallet. E poi ci sono gli autotrasportatori».


Il caso della cartiera riportata in vita

 Della Cartiera Pirinoli Solidea aveva già parlato nell’aprile 2016. In quel momento la cooperativa era appena riuscita a vincere la gara presso il tribunale per ri-prendersi i macchinari e far rivivere la cartiera. Come spiega il vicepresidente della cooperativa, Ferdinando Tavella, “dal novembre 2015 l’azienda non si è più fermata”. I dati di fatturato sono positivi. Se nel 2016 si attesta a 26 milioni, il 2018 chiude con 36 milioni di euro e un discreto utile. La Cooperativa Pirinoli quest’anno non solo si è data i stipendi pieni (negli anni passati si erano autoridotti gli stipendi del 20%), ma ha potuto dare ai propri soci lavoratori il ristorno. Dimitri Buzio, responsabile finanziario di Legacoop Piemonte, parlando del modello cooperativo come strumento di composizione delle crisi aziendali ebbe a dire in merito dell’esperienza della cartiera: «L’impressione è che in Piemonte non si creda alla possibilità di risolvere con questi percorsi condivisi il fallimento di una impresa. Io penso che questa metodologia si possa riproporre, ben consci che non tutte le situazioni possono avere lo stesso risultato. Dobbiamo sapere che si deve anche dire dei no: ci sono casi in cui non è possibile rimettere in strada un’impresa. Vuoi perché non ci sono i presupposti economici o non c’è la disponibilità dei lavoratori. Insomma: dipende dalle situazioni. In generale, però, penso che si debba provare, perché ogni volta che si chiude una fabbrica, perdiamo esperienze e conoscenze. E questo, al di là delle questioni occupazionali, è uno spreco: si perdono competenze e sapere che una volta chiusa l’azienda non ci saranno più».


Non così lineare la storia della CIP di Sommariva Bosco, rappresentata dalla presidente Ornella Catalano. Qui parrebbe che l’integrazione tra i diversi sistemi di verifica e controllo non si sia verificata. La cooperativa parrebbe aver navigato tra problemi e cattivi consigli e una buona dose di problemi complessi. Ma qui interessa notare che se esistesse una rete che è in grado di gestire la crisi con professionalità e competenza, forse tante difficoltà potrebbero essere limitate.


Creare le giuste condizioni per gestire le crisi aziendali

A ribadire le difficoltà di creare condizioni di gestione delle crisi aziendali attraverso gli strumenti della Legge Marcora è anche Federico Bellono che per anni è stato a capo della Fiom torinese, e oggi è membro della Segreteria torinese della Cgil. «Nel sindacato questa idea (l’ipotesi di cooperative di maestranze, ndr) non ha fatto molta strada. Sarebbe già molto che questo percorso non venisse escluso a priori e non ci fosse un atteggiamento pregiudiziale». In realtà, secondo Bellono, questo «è un problema che riguarda tutti, sindacati e associazioni delle cooperative, anche perché siamo in una situazione particolare: il governo ha annunciato una stretta sulle cooperative e questo non sembra aver suscitato scandalo». Strade da costruire o comunque cultura da creare. 

Al netto dell’affinamento degli strumenti, la modalità per ricorrere ad un’assunzione di responsabilità diretta dei dipendenti delle imprese in crisi è una opzione possibile e diffusa anche in Europa. Ci sono esempi importanti in Francia, Spagna e Regno Unito. Per altro, questa pratica, nota anche come Workers Buyout (WBO), è nata negli Stati Uniti all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso. Un processo mediato anche dai sindacati, che ha riguardato piccole e grandi imprese.

Secondo uno studio dello Staff Studi e Analisi Statistica (Italia Lavoro) negli USA «attualmente, il numero delle imprese acquisite dai lavoratori supera le 7 mila unità, che impiegano complessivamente circa 13,5 milioni di addetti», dato 2018. Andrea Aimar, altro componente del Collettivo, comparando le due esperienze, ha ribadito che «occorre immaginare luoghi di facilitazione per attivare concretamente i progetti di recupero delle imprese in difficoltà». E questo è l’elemento determinante affinché la scelta dello strumento di salvataggio più opportuno non sia lasciato al caso, ma sia frutto di un processo strutturato e condiviso. In effetti sembra questo il miglior modo di passare dall’utopia alla realtà.