Continua il dibattito sull’impatto sociale generato dal welfare aziendale. Dopo il contributo di Flaviano Zandonai e Paolo Venturi, incentrato sul ruolo del welfare occupazionale in materia di innovazione organizzativa e tecnologia, e quello del nostro ricercatore Valentino Santoni, dedicato al ruolo di intermediazione e dis-intermediazione dei provider, vi proponiamo questo articolo curato da Francesca Rizzi e Anna Zattoni di Jointly – Il welfare condiviso, che riflettono di come sia necessario andare "oltre" il design dell piattaforme e concentrarsi sul "DNA delle imprese".
Il ruolo del welfare aziendale nella trasformazione dell’organizzazione del lavoro
Su un aspetto dovremmo essere tutti d’accordo: il welfare aziendale è uno dei più grandi elementi di innovazione nelle politiche del lavoro e nel sistema delle relazioni sindacali dell’ultimo decennio. In questa fase di rapida trasformazione dei processi produttivi legati alle nuove tecnologie, siamo di fronte ad una rivoluzione che impatta le imprese in modo fondamentale, in particolare sulla dimensione dell’organizzazione del lavoro. Davanti alle sfide legate all’innovazione e alle discontinuità sulle architetture di produzione, il welfare aziendale è una leva (non certo l’unica) su cui si può agire per gestire la trasformazione. In questo senso tali politiche intervengono a sostegno di un ripensamento dei tempi e luoghi in cui si organizza il lavoro, abilitano la ricomposizione delle dinamiche di disgregazione delle reti di protezione sociale, agiscono come elemento di cucitura tra i lavoratori, tra l’impresa e il lavoratore, tra lavoratori e le loro famiglie.
In fondo non si tratta di una novità. Da quando esiste, il welfare aziendale ha messo le sue radici nell’organizzazione del lavoro. Nel villaggio di Crespi d’Adda le case con linea telefonica venivano assegnate dando precedenza ai lavoratori turnisti, a chi doveva garantire la reperibilità per far funzionare la fabbrica. Più recentemente a fine anni ’90 i nidi aziendali di Telecom Italia sono nati per garantire orari flessibili e vicinanza alla sede di lavoro per i colleghi turnisti dei call center.
Per questo è fondamentale che l’impresa costruisca le proprie politiche di welfare aziendale in modo fortemente integrato con il suo DNA e a partire dai propri obiettivi di business. Il DNA di un’azienda sono i suoi valori e la cultura che ne deriva. Proprio da qui bisogna partire per disegnare tutto il modello di gestione delle risorse umane e dunque il welfare aziendale. Ad esempio, se un’azienda ha come valore l’imprenditorialità, metterà al centro la soddisfazione del cliente – esterno e interno. Dovrà quindi pensare a delle iniziative volte al miglioramento della soddisfazione dei collaboratori, costruite e misurate come farebbe per un cliente. O ancora, se un’azienda compete sul mercato dei talenti digitali potrà usare il welfare come strumento di employer branding per rendersi più attrattiva verso il mercato del lavoro, con pacchetti di interventi più mirati per il target di riferimento (formazione extra professionale, flessibilità, social wellbeing).
Quando il welfare aziendale produce impatto
Sarebbe quindi logico aspettarsi di poter misurare l’impatto del welfare aziendale in linea con tali obiettivi. A tutti gli effetti, alcuni dati ed evidenze in tal senso già ci sono. Le analisi di uno studio condotto da Jointly in collaborazione con l’Università Cattolica di Milano, su un campione di oltre 30.000 dipendenti di aziende clienti, dimostra ad esempio che il welfare aziendale – quando risponde a determinate caratteristiche – è un potente strumento per l’attivazione dell’identità organizzativa. Politiche di welfare aziendale ben costruite e indirizzate ai bisogni di conciliazione contribuiscono a creare identificazione, permettendo ai lavoratori di sentirsi parte attiva nell’organizzazione. Interessante osservare che tale effetto non è correlato né alla “quantità” di interventi proposti, né al loro valore economico, né alla soddisfazione individuale che il lavoratore percepisce. Ciò che spiega la correlazione è l’esistenza di politiche molto integrate ai modelli di gestione delle risorse umane, che agiscono in ambito organizzativo e non solo economico e che intervengono su tutte le leve disponibili – ovvero il tempo, lo spazio e i servizi – per creare un ambiente di lavoro inclusivo e attento alle esigenze di work-life balance.
Dunque esistono aziende che ottengono risultati positivi in termini di impatto dal welfare. Il circolo virtuoso che è necessario innescare parte dall’innovazione dei modelli organizzativi, che porta maggiore produttività, che a sua volta libera nuove risorse per il welfare. Per innovare i modelli organizzativi è necessario lavorare con un approccio multidisciplinare che coinvolga non solo il settore dedicato alla Risorse Umane ma anche le aree produttive e/o operative. Per compiere questo percorso è spesso necessario avvalersi del supporto di consulenti formati sui processi produttivi e di servizio e sulle politiche di welfare aziendale, soprattutto in contesti come le PMI che hanno naturalmente meno capacità e risorse disponibili.
Guardare oltre le piattaforme
Laddove non si riesce a verificare l’esistenza dell’impatto del welfare aziendale è corretto concentrarsi esclusivamente sul “design” delle piattaforme? Siamo sicuri che parlare di welfare (nel bene e nel male) equivalga a parlare di piattaforme? Siamo sicuri che il welfare si possa fare “in full outsourcing” senza un’attivazione coerente di processi e risorse umane interne all’organizzazione? Stiamo attenti a non confondere il fine con i mezzi e a non spostare tutta la riflessione e il dibattito sugli abilitatori esterni (i provider, il territorio, le figure di tutor). Se è opportuno fare una riflessione, occorre ripartire dal cuore del welfare, ovvero dall’azienda, dal contesto organizzativo, relazionale ed economico in cui nasce e si sviluppa tale progettualità.
Il ruolo dei provider dovrebbe essere quello di aiutare i propri clienti a capire la portata trasformativa del welfare, a definire obiettivi più ambiziosi del risparmio sul costo del lavoro, a proporre soluzioni che si innestino in modo coerente nel contesto e, di conseguenza, a fornire dati per verificarne l’impatto. Certo, anche il design delle piattaforme deve fare la sua parte. Le piattaforme non devono limitarsi a gestire i “contatori” dei flexible benefit, ma hanno un’importante funzione di abilitatori all’accesso e attivazione dei contenuti proposti. Non dimentichiamo però che le piattaforme di welfare veicolano un’offerta a contenuto altamente fiduciario, che per essere considerata credibile deve innestarsi in contesti relazionali funzionanti e coerenti.
Il welfare aziendale richiede insomma l’attivazione di relazioni e non la disintermediazione delle stesse. Tutti sono chiamati a fare la loro parte: azienda, risorse umane, sindacati, consulenti e anche provider di piattaforme.