Lo scorso mese, attraverso il Decreto Agosto (DL 14 agosto 2020, n. 104), il Governo ha stabilito la possibilità di raddoppiare il limite destinato ai cosiddetti voucher welfare, cioè quegli strumenti digitali o cartacei che sono forniti dall’azienda ai lavoratori come forma di integrazione della retribuzione e che possono essere spesi presso attività commerciali e fornitori di servizi convenzionati.
L’articolo 112 del Decreto prevede infatti che “limitatamente al periodo d’imposta 2020, l’importo del valore dei beni ceduti e dei servizi prestati dall’azienda ai lavoratori dipendenti che non concorre alla formazione del reddito ai sensi dell’articolo 51, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, è elevato ad euro 516,46”. In altre parole, fino al 31 dicembre 2020, tutte le imprese potranno destinare ai propri dipendenti voucher per un valore massimo di 516,46 euro, il doppio rispetto ai 258,23 euro precedentemente previsti dalla normativa.
Come stabilito dall’articolo 51 del TUIR, il quale delimita in maniera accurata le quote di beni e i servizi che possono godere degli sgravi fiscali, tali strumenti potranno essere adoperati per acquistare una vasta gamma di beni o servizi (chiamati fringe benefit), come: card acquisto da spendere presso catene commerciali o negozi (anche della grande distribuzione online), buoni benzina, beni e servizi connessi allo sviluppo della mobilità sostenibile (questa novità è stata prevista dall’interpello 293/2020 dell’Agenzia delle Entrate), polizze assicurative, ecc.
Ma a cosa è dovuta questa scelta da parte del Governo? Quali opportunità e quali criticità può generare nell’ottica del secondo welfare?
Le opportunità del “raddoppio” dei voucher welfare
Come spesso vi abbiamo ricordato (ad esempio qui e qui), i “voucher welfare” possono essere uno strumento interessante a disposizione delle imprese, specialmente se piccole, per sperimentare i vantaggi del welfare aziendale. Sono infatti molte le realtà che – a causa delle loro dimensioni, di eventuali difficoltà organizzative o semplicemente scarsa conoscenza del tema – sono state finora “impermeabili” alle opportunità determinate dal welfare aziendale.
Potendo essere spesi per l’acquisto di molti beni e servizi fino al raggiungimento dell’importo massimo consentito dalla normativa, i voucher sono uno strumento di facile utilizzo sia per il lavoratore che per il datore di lavoro; pertanto essi rappresentano un’occasione per imprese e lavoratori – ma anche per le rappresentanze sindacali – per “entrare in contatto” con il welfare aziendale e iniziare a comprendere le sue potenzialità sotto il profilo sociale e contrattuale.
In secondo luogo, l’incremento del limite per i voucher e i buoni acquisto (quindi per i fringe benefit) può divenire un’opportunità sotto il profilo economico per il sistema Paese. In generale infatti le cifre che i datori di lavoro destinano al welfare aziendale vanno ad integrare la normale retribuzione ma, al contrario di quest’ultima, non possono “andare a risparmio” e devono essere spese dai lavoratori entro l’anno fiscale di riferimento. In questa direzione, in un periodo come quello attuale in cui molte attività economiche hanno ridotto drasticamente il proprio volume di affari a causa di una generale contrazione dei consumi dovuta alla pandemia e al lockdown, permettere un maggiore ricorso ai voucher può essere una scelta strategica anche sostenere la ripresa economica.
I rischi dei voucher welfare
Al contempo, oltre ai vantaggi sopra descritti, la scelta del Governo presenta anche alcune potenziali criticità. Su questo piano, l’aspetto più rilevante da sottolineare è che normalmente i voucher welfare tendono a non essere utilizzati per spese e servizi di natura sociale.
Come spesso abbiamo ricordato, la normativa pone allo stesso livello prestazioni molto differenti tra loro: alcune sono sostanzialmente dei benefit accessori o comunque legati al tempo libero, mentre altre – spesso definite come più “nobili” – sono rivolte a fornire una risposta a bisogni di natura sociale dei lavoratori e dei loro familiari (per approfondire si rimanda a questo contributo). I fringe benefit – anche a causa del tetto di spesa previsto dal TUIR – appartengono alla prima categoria, e sono comunemente adoperati per consentire ai lavoratori e alle lavoratrici di acquistare beni presso grandi catene di negozi.
In un’ottica di secondo welfare, fenomeni come quello del welfare occupazionale dovrebbero però essere finalizzati a integrare – in una prospettiva sussidiaria – il welfare pubblico, fornendo risposte concrete ai nuovi bisogni sociali, come ad esempio quelli legati alla conciliazione vita-lavoro. Per questo viene da domandarsi se abbia senso che prestazioni come i fringe benefit godano delle stesse agevolazioni previste per interventi e servizi riguardanti salute, previdenza, assistenza sociale e scuola. Come ricorda anche Alberto Perfumo (fondatore del provider Eudaimon) in un recente articolo uscito per il portale Senza Filtro, alla luce di questo intervento normativo è logico chiedersi se c’è un interesse comune nel concedere questo genere di benefici.
E ciò non è da sottovalutare, anche perché il raddoppio del limite dei voucher welfare non è una manovra “a costo zero” per lo Stato: come riporta lo stesso testo del Decreto, infatti, a causa delle mancate entrate fiscali (tax expenditure) è previsto un esborso da parte dell’Erario pari a 12,2 milioni di euro per l’anno 2020 e a 1,1 milioni di euro per l’anno 2021.
Il ruolo centrale dei “protagonisti” del welfare aziendale e della contrattazione
Proprio per questo, nella gestione degli interventi di natura aziendale, è (e sarà) fondamentale il ruolo dei vari “attori” del welfare aziendale.
Da un lato devono essere i provider a dare un loro apporto. Come ha ricordato anche il presidente di AIWA (Associazione Italiana Welfare Aziendale) Emmanuele Massagli in una recente intervista, gli operatori del welfare aziendale hanno l’occasione di diventare i veri protagonisti della sperimentazione della nuova norma, dato anche il poco tempo a disposizione per capire la misura fiscale; Massagli ha infatti affermato che “sono i vari player di mercato a dover prima capire e poi spiegare alle imprese tutte le possibilità dell’utilizzo del nuovo valore, contribuendo in primo piano alla fase della progettazione del welfare con le aziende”. La loro funzione dovrà perciò essere quella di guidare e orientare le imprese, oltrepassando la logica dell’essere semplici fornitori e intermediatori tra domanda e offerta e promuovendo progettualità più complesse e attente alla dimensione sociale del welfare aziendale.
Vi sono poi i sindacati. Promuovere la partecipazione delle rappresentanze sindacali in fase di contrattazione del welfare può essere decisivo per orientare l’azienda verso interventi ritenuti in grado di rispondere maggiormente ai bisogni sociali dei dipendenti, ponendo concretamente al centro del processo negoziale il loro benessere inteso in senso più ampio, cioè riguardante la sfera lavorativa, quella personale e quella familiare. Coinvolgere attivamente – in ogni livello di contrattazione – i sindacati può quindi limitare le criticità evidenziate sopra e, allo stesso tempo, rafforzare le opportunità del welfare sul piano contrattuale e del dialogo sociale.