Il merito è di tanti soggetti. Imprese, assicurazioni, enti bilaterali, mutue, fondi integrativi, sindacati e associazioni datoriali, fondazioni ed enti filantropici. Il risultato è che nonostante la lunga recessione il welfare dal basso si è consolidato e i numeri che saranno presentati venerdì a Torino dal Centro Einaudi lo dimostrano a sufficienza. Spulciando, infatti, nel rapporto sul «Secondo Welfare» che Maurizio Ferrera e Franca Maino presenteranno verrà fuori che sono più di 100 le società di mutuo soccorso che si occupano di prestazioni socio-sanitarie e circa un milione gli italiani che ne usufruiscono. Il welfare negoziale — quello stile Luxottica — coinvolge il 21,7% delle imprese italiane e arriva al 31,3% se si considera anche la contrattazione individuale. Sono circa 1,5 milioni le famiglie direttamente coperte da una polizza malattia che prevede rimborso delle spese o prestazioni convenzionate e sono 3 milioni i soggetti aderenti a fondi integrativi anch’essi convenzionati con una compagnia di assicurazioni.
Il settore non profit, il cuore del welfare dal basso, conta 300 mila organizzazioni attive e coinvolge compresi i volontari 5,7 milioni di persone e il totale delle entrate di bilancio è di 64 miliardi di euro. Le risorse messe a disposizione della filantropia superano i 12 miliardi. Le piattaforme di crowdfunding sono in crescita verticale e hanno superato quota 50 e il valore complessivo dei progetti finanziati supera i 30 milioni. «Il secondo welfare – commenta Ferrera – ha saputo creare una nuvola di interventi a sostegno delle fasce più vulnerabili innaffiando le sacche di svantaggio e facendo crescere nei territori risposte innovative in grado di mitigare gli effetti della crisi». E infatti oltre l’11% delle famiglie dichiara di avere avuto un componente che nel corso del 2014 ha ricevuto un aiuto economico o ha beneficiato di servizi erogati da enti non pubblici.
Tutto ciò secondo il Rapporto è stato possibile grazie a quelli che i curatori chiamano «volani», alcuni esterni rappresentati dalle riforme approvate dal Parlamento e alcuni interni frutto dell’autopropulsione della società civile. Come nel caso della povertà alimentare, un’emergenza che riguarda 5,5 milioni di connazionali (di cui 1,3 milioni minorenni) e che ha visto però la creazione di empori della solidarietà che hanno operato in partnership pubblico-privato-Terzo settore. «È chiaro però che queste iniziative non possono sostituirsi al primo welfare in un’area di bisogno così estesa e cruciale», annota Ferrera e la considerazione ha un valore generale perché il Secondo Welfare può aggiungersi alla spesa sociale statale, non certo sostituirla. E hanno poco senso le polemiche – per lo più accademiche – che tendono talvolta (e ancora!) a contrapporre ideologicamente i due piani quando è di gran lunga preferibile adottare un orientamento pragmatico. E apprezzare, per esempio, le risposte messe a disposizione dalla Chiesa: 1.169 progetti anticrisi proposti dalle strutture di territorio di cui 171 fondi diocesani e 140 progetti di microcredito.
La crisi ha indotto anche le Fondazioni di origine bancaria a ripensare le loro modalità di intervento: il Rapporto cita Cariplo e Fondazione CrCuneo che hanno varato bandi con finalità innovative nel campo dei servizi alla persona, ma anche Le Fondazioni il nuovo capitolo aperto con il contrasto alla povertà educativa. Pur elencando tutte queste novità il bilancio tracciato da Secondo Welfare non è certo a tinta unica, resta con i piedi per terra e sottolinea più volte le zone d’ombra ovvero l’eterogeneità e la frammentazione degli interventi, la loro diffusione a macchia di leopardo e le forti disparità tra Nord e Sud. Sono persino emerse anche nuove criticità, aggiunge Ferrera, «rappresentate dagli ostacoli normativi contro cui si scontra l’attivismo della società civile, la ancora scarsa consapevolezza del suo potenziale come motore di crescita e il modesto investimento sulla comunicazione». Un capitolo importante delle zone d’ombra, ad esempio tutto, è quello che riguarda i lavoratori stranieri.
Per ora ci si può solo limitare a dire che appare centrale e non più rinviabile coinvolgerli nelle forme di welfare negoziato affinché si possa produrre un effetto di stabilizzazione dei bisogni e delle aspettative e addirittura riflessi positivi sui conti pubblici. Ma se questo è il bilancio, per quanto variegato, quali possono essere gli ulteriori e immediati passi da fare? Il Rapporto è migliorista ed elenca tutta una serie di misure che a livello centrale e periferico si rendono necessarie. Tra le tante indicazioni due meritano più di altre una segnalazione. La prima riguarda il ruolo della finanza sociale e di conseguenza un nuovo rapporto da costruire con il sistema bancario per promuovere «percorsi non convenzionali di accesso al credito» e coinvolgere gli istituti «già nelle fase di definizione dei nuovi progetti». La seconda è il radicamento del welfare dal basso nel Mezzogiorno, con tutto quello che ne consegue in termini di stimolo alla società civile.
Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera del 25 novembre 2015