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Non esiste una definizione giuridica né un quadro normativo unitario in materia di welfare contrattuale. Si tratta, infatti, di un fenomeno che, sotto il profilo giuridico, si presenta disorganico ed a-sistematico, essendo riconducibile a diversi e in parte sovrapposti ambiti disciplinari: non solo la previdenza e l’assistenza integrativa e complementare (comprensiva della previdenza pensionistica complementare gestita dai "fondi pensione”; dell’assistenza sanitaria integrativa"; degli ammortizzatori sociali contrattuali gestiti dai fondi bilaterali di assistenza), ma anche plurime ed eterogenee forme di retribuzione non monetaria (fringe benefits, retribuzione in natura, beni e servizi aziendali per collettività di dipendenti o loro familiari).

Mentre per la previdenza complementare, per l’assistenza sanitaria integrativa e per gli ammortizzatori sociali contrattuali esiste un quadro normativo sufficientemente dettagliato (rispettivamente, il d. lgs. n. 252/2005; l’art. 9 del d. lgs. n. 502/1992; l’art. 2, comma 28, della legge n. 92/2012, in procinto di essere modificato dal Jobs Act), per il secondo gruppo di misure esiste solo una disciplina di carattere fiscale e (quindi) contributivo-previdenziale, ma manca un approccio sistematico.

Una delle conseguenze più gravi di tale assetto normativo è l’incertezza che colpisce aspetti nodali dei fenomeni in esame, a partire dalla individuazione della loro natura giuridica: si tratta di forme di retribuzione non monetaria, o di prestazioni di natura previdenziale? O di qualcosa di ancora diverso, e segnatamente, di prestazioni funzionalmente corrispettive del rapporto di lavoro, ma non retributive?

Quest’ultima è la soluzione che sta facendosi strada con riferimento alla previdenza complementare, ove si delinea una distinzione tra il rapporto contributivo e quello avente a oggetto le prestazioni: il primo, corrispettivo (tant’è che l’art. 5 del d.lgs. n. 80/1992 definisce l’obbligo contributivo del datore di lavoro come "credito" del lavoratore) ma non retributivo (tant’è che i relativi ammontari sono esclusi dall’imponibile previdenziale, e anche dalla base di calcolo del TFR); il secondo strettamente previdenziale (tant’è che, per l’art. 12, comma 10, del d.lgs. n. 252/2005, le relative prestazioni sono sottoposte agli stessi limiti di cedibilità, sequestrabilità e pignorabilità in vigore per le pensioni a carico degli istituti di previdenza obbligatoria).

Regna invece l’incertezza nel campo del cd. "welfare aziendale": retribuzione in natura assoggettata a franchigia fiscale (art. 51, c. 3 TUIR); utilizzazione, da parte dei dipendenti o dei loro stretti familiari, di opere e servizi per specifiche finalità di educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale e sanitaria o culto (art. 51, c. 2, lett. f, TUIR .); somme, servizi e prestazioni erogati dal datore di lavoro per asili nido, colonie climatiche, borse di studio per familiari dei dipendenti (art. 51, c. 2, lett. f-bis, TUIR .), ecc…

Un esempio di come l’impostazione fiscale possa ostacolare l’assimilazione del welfare aziendale alla previdenza complementare è offerto da una risposta ad interpello dell’Agenzie delle Entrate del 2014 (prot. 2014/20800), in cui si afferma che "la non imponibilità delle somme erogate per borse di studio in favore di familiari del dipendente … e la parziale tassazione dell’interesse risparmiato nell’ipotesi di concessione di finanziamenti … non si estende anche alle ipotesi in cui, in base a una scelta dei soggetti interessati, tali benefit siano sostitutivi di somme costituenti compenso in danaro (fisso o variabile) imponibili nel loro ammontare".

Il presupposto implicito di tale posizione, è chiaramente quello della natura non corrispettiva del welfare aziendale, che quindi cederebbe il passo alla retribuzione quando la prestazione fosse sostitutiva di una retribuzione monetaria.

Una seconda conseguenza perversa della incerta collocazione sistematica del welfare aziendale sta nella stessa legislazione fiscale, e precisamente nella previsione, ad opera dell’art. art. 51, c. 2, lett. f, TUIR, che le opere o i servizi debbano essere offerti dal datore di lavoro "volontariamente", e non in attuazione di un obbligo contrattuale. Il che stride con la previsione dell’accordo collettivo come elemento normale o addirittura necessario per altre forme di welfare contrattuale, come l’assistenza sanitaria integrativa, la previdenza complementare, gli ammortizzatori sociali contrattuali; o comunque elemento non ostativo, come nel caso degli asili nido, delle colonie climatiche e delle borse di studio per familiari dei dipendenti.

Un intervento normativo mirante ad omogeneizzare e coordinare la disciplina fiscale e contributiva di favore di tutto il welfare contrattuale, muovendo dal suo inquadramento in termini di obbligazione corrispettiva ma non retributiva, in considerazione della finalità previdenziale, potrebbe costituire la base di lancio per una stagione del diritto del lavoro davvero aperta alla previdenza contrattuale. 

 

*Ringraziamo l’autore per averci dato la possibilità di pubblicare questo articolo, già pubblicato il 16 settembre 2015 su IPSOA

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